venerdì 11 aprile 2008

Patria e bandiere

Premetto che voglio dare per scontate le questioni strutturali legate alla guerra: il mercato delle armi che porta a creare i propri stessi nemici per poterle smerciare; il mercato delle fasce e dei medicinali ecc. per riparare i corpi dei sopravvissuti (ricordate Fahrenheit 9/11 di Michael Moore?) e persino il mercato (sebbene certo assai meno lucroso, ma vale simbolicamente) delle bandiere della pace.

Quando le bandiere della pace hanno cominciato a sventolare, non avevo intenzione di accodarmi. Poi mi sono accorta che provavo una sorta di serenità nel constatare che ogni giorno aumentavano, e mi sembrava di avere in comune con gli sconosciuti abitanti di quelle case un certo sguardo di desolazione gettato sui variegati percorsi umani di insensatezza autodistruttiva. Così, parlandone, abbiamo deciso di esporne una anche noi.
Si doveva, però, lottare con il balcone stesso, perché è tutto in muratura (dunque privo di una ringhiera) e per di più tale da respingere qualsiasi tipo di chiodo. Abbiamo sperimentato i mezzi più diversi per fissarla, arrivando persino, un certo pomeriggio, a spiare con il binocolo i balconi simili al nostro – tutti abbastanza distanti - per carpirne il segreto e imitare la tecnica utilizzata. Dopo varie esperienze fallimentari ci siamo risolti per il fil di ferro, creando un complicato andirivieni di serpentine all’interno del quale fissare in qualche modo la stoffa. Ogni più leggera brezza, però, continuava a rivoltare il nostro povero drappo all’interno del balcone. Dovevamo lottare, poi, anche con uno dei due gatti, la femmina, che sembrava cominciare la sua giornata con l’unico obiettivo di tirare dentro e poi giù sia il filo di ferro che la bandiera per accovacciarvisi sopra a coprire, trionfante, un proprio acquisito nuovo spazio territoriale.
Poi, finalmente, ci siamo arresi.Un bel giorno, infatti, dal balcone di una palazzina vicina, si è vista sventolare una bandiera tricolore. Quella bandiera, unica nella strada colorata solo da bandiere della pace, esprimeva la volontà di affermare un’idea di “patria” intesa come territorio-proprietà da difendere, come suolo reso sicuro da precisi confini, anziché come contesto di storia condivisa o di solidarietà possibili.
La “patria” ridotta all’idea del suolo che calpestiamo.
Suolo, appartenenza, trincee.
Improvvisamente quel drappo tricolore dotava di un nuovo senso anche la bandiera faticosamente esposta al nostro balcone. Un senso che non mi piaceva. Non più un ponte gettato a coprire una distanza, ma un vessillo che generava, suo malgrado, aggressività e chiusura.

Non intendo certo la pace come una dimensione di assenza di lacerazioni o conflitti: si tratterebbe, in questo caso, di una sorta di territorio amorfo,indistinto, seriale e paludoso; piuttosto la identifico con la possibilità, per ciascuno, di esprimere la propria irriducibile differenza. Mi piace coniugare l’idea di pace con la capacità di attraversare i conflitti e comprenderne il senso, cercando di evitare che si traducano in percorsi distruttivi; elaborandoli (quando è possibile), ma senza negarli o aggrapparci a illusorie ricomposizioni simbiotiche; animati dalla voglia di curiosare al di là dei confini, anziché attestarci al loro interno per trarre sicurezza. Non mi piace, insomma, considerando anche che apparentemente tutti sono per l’affermazione di una condizione di pace, la retorica zuccherosa che il solo termine genera e che non permette l’autoriflessione.

Rifletto spesso, infine, sul fatto che a scuola generalmente viene insegnata la pace come un breve tragitto di congiunzione tra una guerra e l’altra. Con una inverosimile lettura delle durate temporali, tra l’altro...Le domande tipiche delle interrogazioni sono: “Dimmi le conseguenze della guerra X” o, per variare: “Dimmi le cause della guerra Y”. Si viene educati all’idea che la pace corrisponda a un luogo privo di conflitti e violenze. Con la conseguenza che ci si comporta per tutta la vita in maniera infantile, incapaci di gestire i conflitti e di elaborarne il senso. Incapaci, soprattutto, di capire che dove sembrano non esserci conflitti ci può essere, più semplicemente, uno stato di dominio che fonda anche le differenti forme di asservimento psicologico.

mercoledì 9 aprile 2008

Into the Wild

Avevo corso il rischio di non vederlo mai, per colpa di uno stupido preconcetto. Mi ero convinto - a torto, ora lo so - che la pellicola si limitasse all’esaltazione, ingenua e intrisa di ideologia, del ritorno dell’uomo alla natura incontaminata. Anche per colpa dei trailers, forse troppo centrati sulle immagini degli orizzonti a perdita d’occhio, di cui il film è pervaso.

Enrico ne aveva parlato con entusiasmo, in uno dei suoi post, ma io non mi sono lasciato convincere. Così come sono riuscito a opporre, per un po’ di tempo, una strenua resistenza anche ai tentativi della mia compagna, che ha provato di tutto pur di farmi cambiare idea.
Alla fine, ho dovuto cedere. Riluttante e recalcitrante, sono entrato in sala pronto a vendicarmi. Pregustando il piacere di una feroce stroncatura di regia, sceneggiatura, attori, dialoghi e colonna sonora.
Del film di Sean Penn.

Mi sono sbagliato.
Maledetto Sean. E’ riuscito a catturarmi. In pieno. Grazie all’intensità della storia e insieme alla delicatezza con la quale viene trattata, all’efficacia della sua forza narrativa e alla potenza visiva.
Certo, il mito della conquista degli spazi sterminati e della necessaria solitudine dell’esploratore è parte integrante dello spirito nordamericano, ma nel film resta assente ogni facile retorica, tipica di soggetti analoghi, e nella parte finale l’esperienza si ricompone, per assumere un significato nuovo per il protagonista. E per lo spettatore.

E’ possibile, lo ammetto, che io mi sia in parte identificato, a causa della mia storia passata, nel ragazzo che abbandona le sicurezze dei ritmi e degli oggetti quotidiani, forse come pretesto per allontanarsi da una famiglia che lo ha deluso profondamente. Eppure il ragazzo non è uno sprovveduto, né un’ingenuo. Ha in tasca una laurea e una sicura carriera ad Harvard. La sua meta, l’Alaska, sembra, anch’essa, non un traguardo, ma un consapevole pretesto: necessario per trovare la risposta definitiva al senso del suo lunghissimo viaggiare.

Sappiamo, noi adulti, che non esistono risposte definitive (anche se continuiamo, imperterriti, a cercarle). Questo, però, è un film che nutre la mente e arricchisce il pensiero.
Ti tengo d’occhio, Sean. Non credere di sfuggirmi, la prossima volta.

lunedì 7 aprile 2008

Count down

Una sorta di conto alla rovescia silenzioso mi accompagna, quotidianamente, negli ultimi giorni. Una sensazione di trepidazione e di attesa, leggera, sospesa, incolore. Quasi un lievissimo fruscio di fondo, che si manifesta disturbando il suono dei pensieri diurni e alterando la forma dei miei sogni notturni. No, non è un qualcosa di doloroso. Forse solo un po’ fastidioso, nella sua insistenza.

So di cosa si tratta.

Tra pochi giorni sarò il protagonista, insieme a milioni di miei consimili, di uno ‘spettacolo di arte varia’ (come direbbe Paolo Conte), quando i riflettori si accenderanno per illuminare la scena.

Sarà uno spettacolo. Sarà un rito. Sarà il trionfo di uno dei simboli più importanti della nostra democrazia.

E’ strano come io, in questi ultimi giorni, non provi più angoscia, né terrore, né disperazione. Forse dovrei. Forse dovremmo.

So cosa attendo.

Che si faccia buio in sala. Che tutti facciano silenzio. Che lo spettacolo abbia inizio.

Io, nonostante tutto, sono pronto.

Risposta a meta-blog

ROMA
Per quanto mi riguarda, si può parlare liberamente di Roma, sono anche io critico verso questa città. Forse il cambiamento che Antonella ha riscontrato, potrebbe essere l’effetto di quella mutazione antropologica, che ha fatto disperare il compianto Pasolini (che tra l’altro nella poesia “Il pianto della scavatrice” definisce Roma “Stupenda e misera città”). Vedeva svanire sotto gli occhi il “popolano” che nella sua ignoranza conservava un’atavica purezza, e che aveva un codice etico elementare, spontaneo ma affidabile e umano. Una volta persi i legami con la società tradizionale (quella contadina aveva in mente il poeta), a causa del boom economico e dell’affermarsi del consumismo, gli individui diventano pronti a tutto senza alcuna legge morale a regolare le loro azioni, senza più essere tenuti ad alcuna forma di rispetto verso il prossimo. Certo (come forse ho già detto…), qualche merito lo avrà avuto anche l’influsso della religione cattolica (ama il prossimo tuo come te stesso, non rubare, non uccidere, ecc.), nonostante tutto quello che sappiamo…

FRAINTENDIMENTI
E’ vero, tramite internet è molto facile equivocare i contenuti, le intenzioni dei nostri interlocutori. (Per inciso vorrei dire che trovo gli interventi di Antonella sempre molto garbati). Per comunicare i vari segnali extralinguistici via internet, come sapete, sono stati inventati gli “smiley”, le faccine (http://it.wikipedia.org/wiki/Smiley), che oramai saranno centinaia. Ognuno è libero di scegliere se usarli o meno e in quale misura. Forse qualcuno potrebbe non apprezzarli esteticamente ma a volte si rivelano di qualche utilità.

LUNGHEZZA POST
Sono del parere che, senza arrivare al motto di McLuhan (Il mezzo è il messaggio), dobbiamo adeguarci al mezzo telematico che ospita i nostri pensieri. Dunque direi che riguardo alla lunghezza dei post, ci convenga non superare lo spazio di una cartella.
I commenti naturalmente dovrebbero essere ancora più brevi.
Comunque per necessità espressive o per altre vicissitudini possiamo anche chiudere un occhio, al massimo avremo generato uno “scheggione”.

Meta-blog

Qualche giorno fa, rileggendo con piacere (per l’intelligenza che emanano e probabilmente anche per una condivisa sensibilità rispetto a certe tematiche) le diverse schegge, mi sarebbe venuto da commentarle praticamente tutte. Poi non l’ho fatto per paura di occupare troppo spazio. E’ anche capitato, in altri momenti, che non completassi un commento o non lo inviassi per timore di urtare, sia pure involontariamente, la sensibilità altrui.
Per esempio, leggendo il post di Nicola nel quale si parla di Roma, avrei avuto voglia di scrivere un commento su questa città vista da una persona non romana, in relazione alle trasformazioni frenetiche (e più generali) di questi ultimi anni. Mi sono messa a farlo, scrivendo quanto più o meno riporto di seguito. Ho scritto che Roma ho cominciato a frequentarla, giovanissima, per ragioni di impegno politico. Così, a Roma capitavo con una certa regolarità, anche per gli incontri nazionali di donne, ospitata da amici e amiche e muovendomi quasi sempre nel cuore della città; per lo più a piedi o, al massimo, in metropolitana. Roma mi appariva colorata, scanzonata, piena di vita, aperta e accogliente (cosmopolita, appunto), profumata. Certo non ne frequentavo le periferie, i quartieri degradati o marginalizzanti, i tram affollati (un’esperienza, quest’ultima, vissuta poche volte e di seguito accuratamente evitata); ed ero sempre in compagnia di persone affini a me, con lo sguardo rivolto alla stessa utopia. Poi, per ragioni che porterebbero fuori tema, ho cominciato a non riconoscermi più del tutto in nessuno dei gruppi che avevo frequentato e a venire a Roma sempre più raramente; in albergo (e dati i costi e la mia condizione dell’epoca, non granché e non in centro) o avanti-indietro, per lo più per una mostra, qualche volta per una manifestazione.
Ora, invece, da in po’ di anni, la frequento di nuovo: per motivi personali (ma non spesso) e in questo caso ospite e in compagnia di “autoctoni”; o per motivi di lavoro (e in questo caso in albergo, in centro, e in compagnia mista di romani e non); dunque ho diversi possibili spaccati. In queste occasioni mi capita di sentirmi estranea, non accolta, non compresa, persino. Un barista mi si è rivoltato contro, una volta, con aggressività, per l’espressione che avevo usato chiedendo dell’acqua minerale non gassata: aveva capito (o finto di capire) che la volevo di rubinetto per non pagare. Ha ribattuto con aggressività (e in romanesco) anche al mio tentativo di spiegare il fraintendimento linguistico ironizzando; ed ero in compagnia di un romano! Mi sono chiesta se stavo vivendo un’altra Roma o se la città, nel frattempo, fosse cambiata, trasfigurata quasi, diventata avida e nello stesso tempo chiusa nei confronti dei non-romani. Roma mi sembra ora, certe volte, molto diversa da quella che avevo conosciuto, seppure non da stanziale, in anni precedenti, ma non so mai quanto questa impressione si debba al rimpianto, del tutto soggettivo, dell’immagine che aveva assunto per me. Però, c’è una sorta di malinconia rassegnata nei volti delle persone; camminano un po’ tutti in un certo modo ipotonico, sollevano poco i piedi da terra...

Qui mi sono fermata. Non era più un commento: troppo lungo. E d’altra parte, all’idea di farne un post, avevo paura di urtare la sensibilità di chi in questa città ci vive (la metà dei quattro che per ora scrivono in questo blog) o di chi c’è nato e vissuto per diverso tempo: dunque, a questo punto, di tutti gli altri.
E qui, in questo essermi fermata e nel non aver pubblicato il commento al post di Nicola, stanno le considerazioni meta-blog:
Quanto può essere lungo un commento?
Come si fa a parlare di qualcosa che si conosce solo attraverso vari filtri o in maniera intermitente con chi, invece, la conosce da sempre e dal di dentro, senza urtare malamente qualche sua corda sensibile? E se accade, come si può riparare?
E poi ancora: come si fa, con la scrittura, a rimpiazzare tutte quelle facilitazioni comunicative (o evitamenti del fraintendere) che sono legate alla mimica facciale e allo sguardo, ai gesti e alla loro leggerezza o pesantezza, alla prosodia?

sabato 5 aprile 2008

Le mani di mio nonno

Leggendo il giornale davanti a un caffé di metà mattina (soffro di pressione bassa, siamo a primavera e mi aspetta una riunione difficile...), lo sguardo si è posato sulla persona seduta poco distante da me; e soffermandomi a considerare le sue mani, segnate dal tempo, ho ripensato altre mani. Mani care e perdute. Mani antiche, nodose, ancora agili sui tasti bianchi e neri; mentre tenevano la pipa e dal balcone il vago fumo azzurrato si diffondeva tutt’attorno; e mentre sfogliavano Orazio e Catullo: una lingua affascinante perché segreta, per me, che ero piccola e lo ascoltavo leggere a voce alta, lasciando che subito dopo mi spiegasse. Della spiegazione non capivo granché o così mi pareva allora; ma la sua lettura era come una sorta di musica o di canto. Mi deliziava la prosodia del suo declamare. “Hai capito?”. “Sì, nonno, ho capito.” E continuavo a guardare affascinata le sue mani antiche. Qualche volta (fingendo un interesse blando, mentre invece ero avida di sapere) gli chiedevo di raccontarmi la sua esperienza della guerra, la prima delle due che hanno insanguinato il secolo forse più cruento della storia. Mostravo di curarmi, intanto, dei gerani del balcone e fingevo di staccare una fogliolina avvizzita qua e una là; ma lui non voleva parlarne e se tornavo alla carica le mani si muovevano e rompevano la quiete del momento disegnando nell’aria invisibili sinuose traiettorie; si agitavano, si stringevano l’una all’altra, si sovrapponevano, tamburellavano sulla ringhiera, afferravano un oggetto mentre mormorava parole tese a non esaudire la richiesta. Dopo poco, però, mi leggeva qualcosa; mi rispondeva indirettamente, attraverso le parole scritte da altri; e quando aveva finito mi carezzava, piano, tra i capelli. Carezzava la mia sensibilità ferita dalla scoperta delle umane crudeltà, mentre io avrei voluto prendermi cura della sua, accogliendo dentro di me i ricordi lontani della paura della morte e del non ritorno.
Le sue mani, attraverso quelle di uno sconosciuto anziano signore seduto al tavolo vicino, sono ora un’immagine vivida, guizzante, luminosa. Mi si inumidiscono gli occhi e mi affretto. L’incontro di lavoro che mi aspetta non sarà facile (è una seconda puntata, diciamo così): un accalorarsi di persone su questioni di principio, ma irrilevanti, alla fine, se non per il loro amor proprio; e so già che probabilmente verrò aggredita e che forse reagirò in maniera simile, anch’io per difendere un principio o il mio amor proprio.
Rientro; mi siedo tra gli altri, saluto, ma alla riunione non prendo la parola: non voglio che si perda l'immagine di quelle mani lontane, improvvisamente tornate vive; e mi sembra di sentire tra i capelli una carezza lieve, quasi impercettibile, mentre li guardo combattersi l’un l’altro da una distanza infinita. In silenzio, placata, nascondo la tenerezza come un tesoro.

mercoledì 2 aprile 2008

Oggetti

Il caos intorno a me è generato anche dalla mia difficoltà a separarmi dagli oggetti. Sebbene inutilizzati da anni, sgarrupati, o fuori uso, spesso preferisco non abbandonarli, e non solo perché un giorno potrebbero essere utili. Stesso discorso vale per fogli, fotocopie, giornali, opuscoli senza qualità presi in una libreria o in biblioteca o distribuiti all’uscita della metro. Anzi, il vincolo con la carta stampata è ancora più tenace. Nell’era telematica, del book on demand, per me il libro è rimasto un oggetto prezioso e inviolabile come al tempo degli amanuensi.
Penso che invece dovrei affrancarmi dal superfluo, tenere l’essenziale, perché sarei più leggero, più libero anche interiormente. Magari anche più mobile e più eroico avendo meno da rischiare.
Per farla breve, quando mi sono deciso a fare un po’ di repulisti, mi è capitato fra le mani un bimestrale di cine-informazione, che avevo preso tempo prima al “Quattro Fontane”, e poi dimenticato sotto il peso di cento scartoffie. Rubando colpevolmente tempo al repulisti, mi sono bloccato su una breve intervista a Sean Penn: Into the wild, colonna sonora... Nella mia incontenibile innocenza, quando ho visto il film credevo che le canzoni (i cui testi sono sottotitolati in italiano) fossero di autori degli anni ’60 / ’70, le cui opere non erano arrivate alle mie orecchie o che non ricordavo più. “Un peccato che oggi non si facciano più testi del genere…”. Beh, ho scoperto che l’autore ha scritto le canzoni appositamente per il film, si chiama Eddie Vedder, è un cantautore dei nostri giorni, classe 1964. Ho fatto seduta stante una ricerca su internet e sono riuscito ad ascoltare di nuovo le canzoni che accompagnavano il film. Ho cercato anche i testi, e ho capito la scelta di mandare i sottotitoli: sono un elemento che arricchisce notevolmente un film, che appare controcorrente, comunica valori del tutto dissonanti con la mentalità che oggi predomina. Forse Sean Penn ha voluto dare corpo a un desiderio che non ha mai saputo realizzare (e con lui noi tutti, o quasi), ma che un ragazzo ha trovato il coraggio di porre in atto nei primi anni ’90. Into the wild è tratto da un romanzo che si ispira ad una storia realmente accaduta. È un film che potrebbe incoraggiarti verso un radicale, sano repulisti. Qui mi fermo, scusate, torno a liberarmi degli oggetti.



SOCIETY

Lyrics/ Music: Jerry Hannan

It's a mystery to me
We have a greed, with which we have agreed
And you think you have to want more than you need
Until you have it all, you won't be free

Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely, without me

When you want more than you have, you think you need
When you think more than you want, your thoughts begin to bleed
I think I need to find a bigger place
When you have more than you think, you need more space
Society, you're a crazy breed
Hope you're not lonely, without me

Society, crazy indeed

Hope you're not lonely, without me
It's those thinking more less, less is more
But if less is more, how you keepin' score?
It means for every point you make your level drops
Kinda like you're startin' from the top
And you can't do that

Society, you're a crazy breed
I hope you're not lonely, without me
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely, without me
Society, have mercy on me
I hope you're not angry, if i disagree
Society, crazy indeed
Hope you're not lonely

Without me...



SOCIETY / SOCIETA'


Lyrics/ Music: Jerry Hannan

E' un mistero per me
Abbiamo un'avidità, ma che abbiamo accettato
Pensi di dover volere più di quello di cui hai bisogno
Finchè non hai tutto non sarai libero

Società, sei una razza folle
Spero che tu non sia sola, senza di me

Quando vuoi più di quello che hai, pensi di avere bisogno
Quando pensi più di quello che vuoi, i tuoi pensieri cominciano a svuotarsi
Penso di dover trovare un posto più grande
Perché quando hai più di quello che pensi, hai bisogno di più spazio

Società, sei una razza folle
Spero che tu non sia sola, senza di me

Società, davvero folle
Spero che tu non sia sola, senza di me

Ci sono quelli che pensano, più o meno, meno è di più
Ma se meno è di più, come fai a tenere il punteggio?
Significa che per ogni punto che fai scendi di livello
E' un po' come cominciare dalla cima
E non puoi farlo

Società, sei una razza folle
Spero che tu non sia sola, senza di me
Società, davvero folle
Spero che tu non sia sola, senza di me
Società, abbi pietà di me
Spero che tu non ti arrabbi, se non sono d'accordo
Società, davvero folle
Spero che tu non sia sola

Senza di me...


GUARANTEED

Lyrics/ Music: Ed Vedder

On bended knee is no way to be free
Lifting up an empty cup, I ask silently
That all my destinations will accept the one that's me
So I can breathe...

Circles they grow and they swallow people whole
Half their lives they say goodnight to wives they'll never know
Got a mind full of questions, and a teacher in my soul
And so it goes...

Don't come closer or I'll have to go
Owning me like gravity are places that pull
If ever there was someone to keep me at home
It would be you...

Everyone I come across, in cages they bought
They think of me and my wandering, but I'm never what they thought
I've got my indignation, but I'm pure in all my thoughts
I'm alive...

Wind in my hair, I feel part of everywhere
Underneath my being is a road that disappeared
Late at night I hear the trees, they're singing with the dead
Overhead...

Leave it to me as I find a way to be
Consider me a satellite, forever orbiting
I knew all the rules, but the rules did not know me
Guaranteed


GUARANTEED / GARANTITO

Lyrics/ Music: Ed Vedder

Inginocchiato non c'è modo di essere libero
Sollevando una tazza vuota, chiedo silenziosamente
Che tutte le mie destinazioni accettino quella che sono io
Così posso respirare...

Cerchi si espandono e ingoiano le persone per intero
Per metà delle loro vite dicono buonanotte a mogli che non conosceranno mai
Ho una mente piena di domande ed un insegnante nella mia anima
Così va la vita...

Non avvicinarti di più o dovrò andarmene
Certi posti mi attraggono come la gravità
Se mai ci fosse qualcuno per cui restare a casa
Saresti tu...

Tutti quelli che incontro, in gabbie che hanno comprato
Pensano a me e al mio girovagare, ma io non sono mai quello che pensavano
Ho la mia indignazione, ma sono puro in tutti i miei pensieri
Sono vivo...

Vento tra i miei capelli, mi sento parte di ovunque
Sotto il mio essere c'è una strada che è scomparsa
A notte fonda sento gli alberi, stanno cantando con i morti
Sopra di me...

Lascia che mi occupi io di trovare un modo di essere
Considerami un satellite, in orbita per sempre
Conoscevo tutte le regole, ma le regole non mi conoscevano
Garantito.


Le canzoni si possono facilmente ascoltare collegandosi a
http://www.youtube.com/

P.S.: Ho selezionato solo due testi della colonna sonora perché qui ci troviamo in una antologia di schegge, non siamo un’enciclopedia. Insomma mi sono dilungato troppo e non ho certo dato il buon esempio.