lunedì 31 agosto 2009

Essere o non essere (su Facebook)


“Essere su Facebook”. Chi lo considera un mezzo di conoscenza, chi una necessità per dimostrarsi ‘cool’, chi un abominio, chi un amplificatore per poter far conoscere a tutti le proprie opinioni, chi un canale adolescenziale, chi un’occasione per esprimere se stesso, chi nulla più che una metafora dei rapporti vis a vis.
Forse Facebook è effettivamente un po’ tutte queste cose, e molte altre, nel magma di individualità che ne formano la rete. Ognuno, che lo voglia o meno, che ne sia o meno consapevole, inietta in Facebook i tratti distintivi del proprio carattere, contribuendo con i propri pregi e anche con i propri difetti allo sviluppo di questa sorta di personalità multipla e al clima che vi si respira, momento per momento.
Anch’io, da qualche tempo, sono su Facebook. Non è molto, appena pochi mesi, e neanche la mia frequentazione è molto assidua: di certo non rimango collegato per ore e ore. Questo breve periodo, comunque, mi ha dato l’impressione che il bilancio del network sia, almeno per ora e sotto diversi aspetti, positivo. Nel senso che questa nuova modalità di comunicazione consente una partecipazione attiva ai fermenti culturali della società, non importa se ‘alti’ o ‘bassi’. Dipende da come la si usa.
Ben vengano le espressioni di gioia, quelle di malessere, le frasi di tre parole, i testi di cinquanta righe, le foto del gatto, quelle del nonno, le albe e i tramonti, i video di Eisenstein e quelli dei Griffiths.
Quanto alle volgarità gratuite, agli insulti, al cinismo, all’incitamento alla violenza: grazie, ne faccio volentieri a meno.

sabato 29 agosto 2009

Chi siamo?




Ma questa nazione che chiamiamo Italia siamo ancora noi? Questa Costituzione calpestata e derisa è ancora la nostra? Cosa siamo diventati, noi tutti, se di buon grado, muti e a capo chino per la paura di perdere una stabilità, un benessere, un lavoro che già non esistono più, accettiamo che prosegua la caduta precipitosa delle libertà di espressione e di informazione?

Ieri, mi sembra di ricordare, libertà era la parola che si usava contrapporre a tirannia, prevaricazione, repressione, silenzio, ignoranza, servilismo, egoismo, privilegio. Ieri, soltanto ieri.

Oggi, una nuova libertà, bandiera del potere grande e piccolo, viene agitata ai quattro venti: la libertà significa costruire quanto voglio e dove voglio, non pagare le tasse, non vedere facce di stranieri in giro.

La libertà è spendere quanto più posso per vestirmi e comportarmi come i modelli che ho appena visto in televisione. La libertà è quella di farmi raccomandare dal potente di turno, anche se non ho alcuna capacità, anche se non lo merito.

La libertà, infine, è quella di stare meglio degli altri, infischiandomene degli altri, anzi, calpestandoli se necessario.

Noi, noi italiani, non abbiamo saputo preservare la causa della libertà, forse perché non ne abbiamo capito fino in fondo il significato. Quel significato che in molti ci avevano suggerito. Come Giorgio Gaber che, profeticamente, con la sua voce calda e ironica, cantava: “la libertà è partecipazione”. Non l’abbiamo ascoltato.

Ma ora, resteremo ancora in silenzio?



Indifferenza e stupidità



Guardando i video che girano in questi giorni su facebook non posso fare a meno di pensare, con una considerevole dose d’angoscia, che il problema non sono tanto e solo le parole razziste, xenofobe e amorali di chi è in primo piano e usa il microfono, quanto il plauso, espresso con risate o acclamazioni, di chi ascolta.

L’aneddoto che segue e che mi è stato raccontato da un’amica riguarda una conversazione in un supermercato Coop di Firenze (dunque, fra l’altro, non al nord) tra il commesso della pescheria e una signora. La signora chiede dove siano stati pescati i diversi pesci e il commesso indica quelli d’allevamento e (con un certo orgoglio) quelli pescati nel Mediterraneo. L’acquirente opta allora per quelli d’allevamento spiegando che con tutti gli africani neri morti in mare non c’è da fidarsi e che magari i pesci sono contaminati...

Mi sono necessari alcuni minuti per capire; a parte la stupidità scientifica della considerazione, com’è possibile che si sia arrivati a questo? Com’è possibile che tragedie come quelle alle quali stiamo assistendo in questi giorni possano generare come preoccupazione quella relativa all’integrità o alla bontà del pesce mediterraneo inteso come alimento?

Non degenerano solo le persone; anche i gruppi e i popoli rischiano la deriva morale e fisica. Mi chiedo quanto il processo di autodistruzione sia andato avanti, oltre che nella quotidianità dei rapporti di potere, dentro di noi, nei luoghi intimi dove ciascuno custodisce la propria sensibilità, gli affetti, la capacità di amare, di soffrire per chi soffre e di provare solidarietà.

Il pericolo più grande che stiamo attraversando consiste in quella sorta di egoismo teorizzato del si salvi chi può e della furbizia dell'arrangiarsi: la nuova religione e filosofia di vita.



sabato 22 agosto 2009

L'uomo-forno e la donna-spugna

Dopo aver visitato una città, passati alcuni giorni, di solito si cerca di riannodare la trama dei ricordi, di razionalizzare – diciamo così – le emozioni positive e negative, di costruire un discorso compiuto sulla sua identità intrecciando quel poco che si è potuto vedere del presente con il passato, già in qualche modo conosciuto attraverso letture, immagini, film o musiche.

Dopo Berlino, riguardate le tante foto, l’immagine che più ho fissa nella mente (e che non ho avuto cuore di fotografare) è quella di certe figure – non so dire se marginali o meno – di uomo con una sorta di protesi all’addome: un forno, funzionante, fatto a mezza cupola e aperto verso il torace e il volto, con dentro salsicce da vendere insieme ai panini. Di uomini-forno simili ne trovi ovunque, ma soprattutto negli angoli turistici più frequentati e nessuno sembra badarci più di tanto. Spostano il carico del corpo da un piede all’altro e in questo modo, pur restando fermi, non occupano formalmente il suolo pubblico con il proprio commercio.

E’ una giornata molto calda ed è l’ora del sole alto quando vedo il primo di una nutrita serie. Mi si chiude lo stomaco. Osservo a una certa distanza il volto; che sembra esprimere soddisfazione e non disgusto per quell’odore di carne arrosto del quale immagino impregnato il corpo, i capelli e le vesti, per il caldo che si aggiunge al caldo, per il peso sopportato. Sono ombre invisibili ai più.

Nei bagni di un museo, invece, mi sembra di trovare l’equivalente femminile dell’uomo-forno: donne–spugna, cioè ragazze o signore che, in piedi all’ingresso dei servizi, non appena una donna esce entrano a pulire la tavoletta del water e quanto è stato eventualmente sporcato. Entrano e agiscono comunque a dire la verità, anche quando il bagno è stato lasciato pulito, in una sorta di automatismo scattoso che genera ansia solo a guardare. Tengono in una mano (generalmente non guantomunita) una salvietta spugnosa che non depongono mai, quasi una protesi del braccio, e impartiscono ordini – di non entrare ora, di entrare ora – accompagnati dal pointing dell’indice, dato che le utenti sono di diverse lingue. Anche in questa circostanza sembra di avere di fronte esseri invisibili. Nessuno ci fa caso, nessuno si pone problemi.

Un po’ come gli esseri umani le città hanno una propria identità fatta anche di ombre e nascondimenti.

Berlino nascondimenti ne ha tanti e dopo un po’ si ha la voglia – e lo si fa – di fuggire dai luoghi delle architetture imponenti (sembra non esserci quasi niente che non abbia un piedistallo, un rialzo, un enorme parallelepipedaceo di supporto) e di cercare tracce nascoste del passato non ancora elaborato.

Trovi allora le vestigia dell’immaginario della città prenazista - Metropolis nella barocca raffigurazione di Fritz Lang - e quelle, invece, maniacali e paranoiche della città nazista e molto altro, che le guide non indicano. Scopri così una città incongruente e bizzarra, piena di bellezza inquietante e di aggressività aguzze e cattive, accogliente ed estranea, morbida e rigida a un tempo. Un enorme cantiere che non riesce a smettere di ricostruire, ricostruire, ricostruire (dopo il nazismo, dopo i bombardamenti, dopo il muro, dopo il crollo del muro...) attraverso le pietre, il ferro, il cristallo (materiali tangibili, duri, pesanti) lasciando però inelaborati i pensieri, le paure, i ricordi (materiali leggeri, impalpabili, sfuggenti). Si respira il peso della storia e del suo rimosso e associando i particolari dell’altrove con quelli del noto, del proprio contesto politico e sociale, si ha l’impressione che la Storia, proprio, magistra vitae non lo sia mai stata.