domenica 20 dicembre 2009

A serious man



Il termine yiddish mentsh (dal tedesco mensch, cioè ‘uomo’) ha il significato di ‘uomo giusto’ o ‘uomo retto’. Il protagonista dell’ultimo film dei fratelli Coen è un mentsh, in inglese ‘a serious man’ (dunque ‘un uomo retto’, non ‘un uomo serio’, come la traduzione letterale sembrerebbe suggerire): la parabola di questo moderno mentsh è quella di un uomo che vive sulla propria pelle le contraddizioni di chi, appartenendo a una tradizione antichissima e pronta a reclamare senza appello il rispetto dei valori tramandati, deve di continuo confrontarsi con l’attualità di un mondo imperfetto, ormai lontano dal contesto storico che ha dato origine a quegli stessi valori. La breve storia di ambientazione yiddish, che apre il film, con il suo effetto di estraneità contribuisce a dare la misura della dissonanza spazio-temporale che separa il passato dal contemporaneo.
Le sequenze scorrono su di un registro formalmente comico e quasi leggero, quasi a velare, ma non troppo, una tragicità di fondo che travalica i confini dell’ambiente ebraico e borghese, per abbracciare la condizione dell’umanità intera. La ricerca infruttuosa di norme di condotta che preservino dalla catastrofe il protagonista e la propria famiglia, la presunta saggezza degli esperti (i rabbini, in questo caso) come maschera della loro profonda ignoranza della verità, la casualità che governa gli eventi frantumando ogni analisi delle cause e degli effetti, sono alcuni degli elementi che conferiscono all’opera un senso di dramma sospeso e di minaccia imminente. Un’analoga sospensione, tutta giocata sull’incomprensibilità del significato di una catena di eventi già segnata, si ritrovava già nel film “Non è un paese per vecchi”, altra recente fatica dei Coen: “A serious man” sembra quasi un’ulteriore approfondimento della tematica dell’inutilità di una ricerca di senso degli accadimenti. L’uomo non può comprendere né le intenzioni di Dio, se un Dio esiste, né le forze della natura, né le pulsioni che guidano le sue stesse azioni.
Il panorama che sembra emergere da questa visione spietata, tuttavia, non rimanda lo spettatore a un’impressione finale di vuota desolazione, quanto piuttosto a un effetto di sorpresa e di dubbio: l’utilizzo misurato e sapiente dell’ironia, anche questa elemento fondamentale della tradizione yiddish, è l'arma ultima di difesa - sembrano suggerire i Coen - e l'unica che offra una traccia di senso al paradosso dell’esistenza, fino a rendere sopportabile all’uomo l’attesa di un destino che gli è del tutto sconosciuto.

martedì 15 dicembre 2009

L'uomo che non è nessuno


Un altro volto è impresso nella mia mente da ieri ed è il suo: quello dell'uomo immobile, ormai di pietra e con gli occhi sbarrati, dopo un gesto dal quale il suo corpo stesso sembra dissociarsi. Ripete agli agenti: "Io non sono stato, io non ho fatto niente. Io non sono nessuno". A quanto sembra si è trovato a passare di lì quasi per caso, per un appuntamento mancato. Ha in mano il modellino di uno dei tanti monumenti-emblema di questo paese, in tasca una bomboletta di spray al peperoncino e un crocifisso: due strumenti di difesa, uno concreto e l'altro simbolico, contro le ombre in agguato fuori e dentro la sua anima, poiché da molti anni è in cura per una forma grave di sofferenza psichiatrica. L'uomo che non è nessuno può essere l'uomo che ciascuno usa, impietosamente, per i propri scopi. Diventare in men che non si dica un eroe o un santo o, a piacere e con la stessa solerzia, un essere ignobile, frutto delle trame più losche ed eversive ad opera di social network, magistrati, popolo viola e persino, come mi è capitato di leggere poco fa, conseguenza dell'esecrabile - per alcuni - Legge Basaglia.
Provo pena e rabbia insieme. Quel volto non abbandona la mia mente, mentre leggo, giro qua e là su facebook, carezzo distrattamente la gatta, mi alzo nervosa per prendere un oggetto e poi un altro. L'uomo che dice di non essere nessuno sembra non suscitare alcun sentimento o affetto, nemmeno di pietà e questa insensibilità condivisa mi fa paura.

domenica 13 dicembre 2009

La prima linea

Gli anni di piombo rappresentato una ferita ancora aperta per il nostro paese, in fondo ci dividono poco più di un paio di decenni. Un tempo forse troppo breve per lenire il dolore che provano ancora le persone direttamente coinvolte. Si è trattato di una guerra civile a bassa intensità, che ha prodotto centinaia di morti e più di mille ferite, secondo le cifre ufficiali, che verosimilmente non tengono conto di tanti episodi che non furono denunciati.
Due ragione mi hanno portato a vedere questo film, quando ormai era presente solo in due sale di Roma: l’anniversario dell’attentato di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) che ha dato l’avvio agli anni di piombo e soprattutto la scelta di Andrea Occhipinti che, unico fra i produttori italiani, ha deciso di rinunciare ai finanziamenti statali.
La prima linea è quella più vicina al fronte, è il luogo dove si rischia di più, dove maggiore è la disperazione, soprattutto quando si realizza che le ragioni per cui si combatte sono sbagliate, che non portano a niente di buono, che anche quelli che prima sembravano appoggiarti non sono più dalla tua parte e parlano di te come si parla dei pazzi. Le possibilità che il film susciti comportamenti emulativi sono praticamente nulle: in una società in cui dallo yuppismo in avanti si è affermato con prepotenza il mito del vincente, mi chiedo chi fra i giovani di oggi, se la sentirebbe di seguire l’esempio di un pugno di “sfigati” che con determinazione uccidono, gambizzano, seminano paura, distruzione, dolore, senza tornaconto alcuno, anzi causando al contempo la propria rovina. Nel film c’è poco spazio per l’avventura, forse solo nell’assalto al carcere di Rovigo si avverte un minimo di pathos, non dissimile da quello che trasmettono i film di guerra. I personaggi appaiono freddi, sebbene (e non sarebbe possibile il contrario) emerga a tratti anche il loro lato umano, quasi sempre accompagnato dalla caparbia volontà di sopprimerlo.
Dunque in questo gruppo di disperati che, come accade nelle peggiori ‘ndrine, provocano disperazione sotto forma di orrore e morte anche fra i loro compagni giudicati traditori, si respira lo stesso fascino che si proverebbe ad avere 40 di febbre in una campagna isolata, rigida e bagnata dalla pioggia. Il mito della “ribellione” è relegato nei racconti che un amico di Sergio (il protagonista) fa durante un breve incontro, nel suo locale, a saracinesche abbassate. Bevendo una bottiglia il compagno della contestazione disarmata, ricorda manifestazioni rocambolesche, un impegno totale, volantinaggi nelle fabbriche, discussioni furibonde e festose riconciliazioni. Ma l’incontro è rotto dalle esortazioni, rivolte a Sergio, a tirarsi fuori dalla “pazzia”, a rinunciare alla lotta armata. Si avverte un blackout comunicativo. I due ora appartengono a due mondi diversi, antitetici: vita e morte. All’uno sta per nascere un figlio, l’altro ha le mani sporche di sangue.
A differenza di quanto accade in altre nazioni che hanno vissuto il fenomeno del terrorismo, in Italia è ancora molto difficile parlarne, e anche fare un film sull’argomento, ha dato luogo a numerose, aspre polemiche. Rimuovere aspetti dolorosi della vita di un popolo, penso non giovi a nessuno, perché continueranno a lavorare nella zona d’ombra in cui vengono relegati, e prima o poi, quando le condizioni si renderanno favorevoli, finiranno per manifestarsi di nuovo. Se di “pazzia” si trattò, dovremmo domandarci perché si è scatenata questa forma di pazzia e cosa si può fare per evitare che si verifichi nuovamente in futuro. Dovremmo avvicinarci a quel tragico e complesso fenomeno sociale, politico, storico, conoscerlo meglio, studiarlo e - nel rispetto di tutti - raccontarlo, "riviverlo" nella penna, nelle rappresentazioni artistiche. Non giova a molto la paura (o il pudore) di ricordare, perché la “memoria” è forse l’arma più potente che abbiamo per sconfiggere la guerra in ogni sua manifestazione e dire no ad ogni forma di violenza.

venerdì 11 dicembre 2009

Campagna e città: fantasie di ibridazione

Sono sola nell’auto che corre verso le colline e avvolta dalla musica che mi piace mi lascio incantare dai colori forti dell’autunno al suo volgere verso l’inverno. E’ particolarmente bello l’autunno toscano, si sa, infuocato com’è di colori caldi e di contrasti poiché è malinconico, pensoso e vitale nello stesso tempo. Mi sembra di conoscere ogni albero, siepe, segnale, scritta, muretto della strada che da Pisa si dirige nel volterrano, verso il mio microscopico paese di origine. La distanza per me, da un certo punto in poi, non è più misurabile in chilometri o in minuti, ma è scandita da tappe visive durevoli negli anni. Il riconoscimento genera una sorta di tenerezza per i luoghi della mia infanzia e dell’adolescenza vissute (proprio grazie ai suoni, agli odori e ai colori della campagna) in una dimensione che si potrebbe definire di narrazione continua. I rumori e i suoni, per esempio, sia di giorno che nel silenzio della notte, avevano un significato preciso tutti quanti: alludevano a esperienze ripetute, a persone definite e alle loro abitudini. Si era attenti a tutti i segnali sensoriali e capaci di interpretarli con precisione. Si era capaci di cogliere il cambiamento delle stagioni, il volgere del giorno e del tempo della vita. Si captava il momento che lasciava presagire la fine o l’inizio di un avvenimento, come animali che si tendono, le narici frementi e gli occhi vigili, verso qualcosa di invisibile e di intenso: la pioggia o la neve imminenti, per esempio, o anche le gemme che vibrano tutte insieme di una nuova possibile vita. In città, anche in una piccola città come la mia, tutto questo in gran parte si perde: i rumori si accavallano ai suoni e risultano troppi, imprevedibili, privi di ritmo perché li si possa interpretare. Prestare loro troppa attenzione ci disorienterebbe e così, al pari degli odori e dei colori, non li avvertiamo più come segnali di comunicazione con la natura e con gli altri.

A 16 anni, tuttavia, sognavo di fuggire in città: dove avrei trovato librerie e cinema, teatri e sale da musica, luoghi dove parlare di cose diverse in base alla maggiore varietà di ciò che poteva accadere e persone nuove da conoscere. Nel mio piccolo paese non succedeva mai niente; c’era un cinema (non so se ancora sia attivo) con un solo spettacolo settimanale; basta; neanche una libreria. Le persone, per riempire il tempo, si facevano i fatti degli altri con esasperante crudeltà, resa evidente dai soprannomi ai quali quasi nessuno sfuggiva e che erano legati, per lo più, a difetti fisici anche invalidanti o a significative fragilità del carattere.

Oggi la globalizzazione non ha cambiato nulla da questo punto di vista e per questo la tenerezza del ritorno non di rado svanisce quando lascio la casa dei miei e mi incammino verso la piazza e la via principale, facendomi preda degli sguardi invadenti, quasi voyeuristici, degli abitanti. E’ sempre stato così, insopportabilmente così; la mancanza di stimolazioni culturali favorisce, infatti, l’interesse irrispettoso, controllante e giudicante nei confronti dell’altro. Da ragazzina mi rifugiavo in alto, lontano, nel silenzio dei poggi, a piedi o con la bicicletta prima, con il motorino poi; come mi capita di fare ancora oggi con l’auto, spingendomi fin dove arriva e poi proseguendo a piedi. Da ragazzina sceglievo la solitudine e guardavo da una distanza infinita le case attaccate l’una all’altra e la grande torre quadrata che le sovrasta. Quasi animizzando le pietre brune o rossicce che fondevano in un’unica forma muri e abitazioni le sentivo, a seconda dell’umore, legate in un abbraccio di tenerezza solidale o incatenate nella più insopportabile condizione di prigionia.

Ancora oggi mi mancano, in città, gli odori della campagna; e in campagna mi mancano gli stimoli e la maggiore libertà della città. Divisa tra l’una e l’altra dimensione, sogno da tempo immemorabile una campagna con luoghi di aggregazione culturale e una città che non mortifichi il nostro legame con la natura. E’, davvero, soltanto un’utopia del tutto irrealizzabile?




mercoledì 9 dicembre 2009

Uno, nessuno, 90.000...



A forza di sentirmi ripetere a destra e a manca, come un’ipnotica litania, che il pomeriggio del 5 dicembre, a Roma, in piazza San Giovanni, si erano date convegno poche decine di migliaia di persone e che forse molte di loro erano lì per caso (la Capitale, si sa, è meta turistica ambita), comincio a dubitare dei miei stessi occhi. Anche ieri sera, nella trasmissione ‘Ballarò’, una Brambilla piuttosto su di giri ci ha rivelato, senza alcuna incertezza, che i partecipanti non potevano essere più di 90.000. Le sue parole non sono state seguite da proteste indignate, né da recise smentite. D’altra parte, nessuno degli organizzatori della manifestazione era stato invitato.

Questo silenzio sulle cifre mi ha reso inquieto. Perché, mi sono chiesto, nessuno ha smentito? E’ possibile che l’esperienza che mi è sembrato di vivere fosse soltanto immaginata? Sono prigioniero di una realtà virtuale, alla ‘Matrix’?

Forse. Forse ho soltanto sognato la folla di gente che riempiva piazza della Repubblica e che ha dovuto aspettare un’ora e mezzo per iniziare a muoversi, perché la testa del corteo era troppo densa e stava sciamando a fatica lungo il percorso. Forse non è stata che un’allucinazione lo spettacolo della via Merulana, una strada lunga più di un chilometro e larga venticinque metri, satura di persone da cima a fondo, quando già l’area di San Giovanni era ricoperta di bipedi viola. Forse i suoni, le voci, i corpi di quel pomeriggio sono stati un inganno di una mente che comincia a vacillare e a creare per sé un mondo che non esiste.

Forse. O, forse, chi si occupa di reinventare il mondo reale per adattarlo alla favola del piccolo schermo ha ormai dato fondo a tutti i trucchi di cui disponeva. Ma non può fermarsi: sicuro del sentimento di onnipotenza assoluta che lo pervade non ha più la capacità di accorgersi che - costretto a negare persino l’evidenza delle immagini fotografiche e dei filmati - si è già spinto troppo oltre, oltre ogni acquiescenza di spettatore, oltre ogni ingenuità di suddito e oltre ogni credulità di elettore.

martedì 8 dicembre 2009

Una nuova speranza


Tentare di prevedere il futuro del neonato movimento viola rappresenta una scommessa ad alto rischio. La mancanza, almeno sino ad ora, di un’identità stabile e di un programma di azioni definito rende questo nuovo soggetto un magma incandescente, dai contorni fluidi e irregolari: un magma che nessuno potrà comprendere limitandosi a utilizzare i vecchi parametri di analisi, quelli che da sempre definiscono le formazioni politiche tradizionali.
Se un social network è stato lo strumento tramite il quale confuse istanze di malessere e di protesta dei singoli si sono coagulate in un unico canale, l’impulso al movimento, in ogni caso, è stato fornito dalle persone stesse che hanno deciso di aderirvi. Un insieme di persone reali, dunque, non un semplice elenco di nomi su facebook.
Di certo, si avverte qualcosa nell’aria. Un profumo inatteso. Il profumo di un fermento inconsueto, di un senso di possibile liberazione, di una nuova speranza. “Speranza, unico bene de gli afflitti mortali” è il canto di Orfeo nell’opera omonima di Claudio Monteverdi. Ed è vero. Abbiamo, tutti, un estremo bisogno di speranza. Senza speranza non ci resta che lasciarci vincere dall’indifferenza e dal cinismo, diventare peggiori, crudeli, spietati. Non ci resta che morire, ancora in vita.
Sta crescendo a vista d’occhio il numero di tutti coloro che avvertono l’urgenza di simboli di speranza vivi, concreti, saldi, potenti. E la gigantesca mobilitazione del 5 dicembre - che sia stata davvero gigantesca lo dicono le immagini, che chiunque può reperire - sembra emergere dal nulla che l’ha preceduta come un riferimento simbolico cruciale, da non sottovalutare.
Questo straordinario evento, per chiunque vi abbia partecipato, fisicamente o emotivamente, costituisce la prova che la partecipazione brucia ancora sotto la cenere dell’informazione di stato. La prova che il nostro Paese non è immobile, come avevamo temuto. La prova che, unendo le forze e superando le divisioni, è possibile riconquistare la fiducia nella nostra stessa capacità di cambiare - e di far cambiare.

lunedì 7 dicembre 2009

Il potere del silenzio




In un Paese dove la caduta di un singolo capello a un giocatore di calcio viene commentata per settimane e settimane da radio, televisioni e giornali, il silenzio assoluto calato, dopo il primo giorno, sulla manifestazione del 5 dicembre dovrebbe destare una certa sorpresa. Come possono, i media, ignorare un evento così potenzialmente ricco di spunti di discussione, di polemiche e persino di qualche gossip?
Possono, eccome. Sempre più spesso i grandi mezzi di comunicazione ignorano eventi e notizie non allineati con il pensiero dominante (che oggi corrisponde al pensiero governativo), in una sorta di omaggio a quella strategia di annientamento di ogni voce di protesta, o anche solo di non conformismo, che si sta rivelando la più efficace arma di manipolazione del consenso. Ignorare, dimenticare, omettere sono modalità raffinate di controllo, messe in atto da ogni potere antico e moderno: ai nostri giorni gli strumenti mediatici che danno forma a queste modalità hanno raggiunto livelli quasi assoluti di perfezione, che consentono - a chi il potere lo esercita - di indossare una maschera di civiltà. L’inganno sotto forme in apparenza civili, diventato regola, mostra sicuramente un’efficacia superiore a quella di qualsiasi rozzo tentativo di repressione violenta. Ma resta un inganno.
Corriere della Sera di oggi, 7 dicembre. Leggendo l’editoriale di E. Galli della Loggia si comprende che “il «No B-day» non indica uno di quei sommovimenti epocali che a partire dal '68 ci vengono regolarmente annunciati ogni sei mesi, tutte le volte che qualche folla, specie se giovanile, si fa una passeggiata per le vie di Roma”. Tutto chiaro. Non è successo nulla. Qualche centinaia di migliaia di persone hanno deciso di fare una gita a Roma nello stesso giorno, una semplice coincidenza.
Repubblica di oggi, 7 dicembre. Il titolo a piena pagina è “Clima, il Papa: salvate i giovani”. Eloquente.
La piazza è silenziosa, le strade sono pulite, i cittadini passeggiano. No, Berlusconi e il suo governo non hanno bisogno di nessuna Stasi, di nessuna Securitate. Tutti i canali mediatici, dalla televisione ai giornali, persino quelli “d’opposizione”, sembrano preoccuparsi di far dormire loro sonni tranquilli.

domenica 6 dicembre 2009

miracolo italiano


Cittadini organizzati da cittadini, attraverso il passaparola, spesso veicolato da messaggi telematici, scambi di idee avvenuti tramite email, chat, social network. Una iniziativa che nasce dal basso senza apparati di partito, senza burocrazia o finanziamenti occulti.

Un’onda immensa, festante, ironica, si snoda pacificamente per il centro di Roma. Si leggono e si ascoltano mille slogan, molti sono divertenti, goliardici, per niente offensivi; si vedono persone di ogni età, non mancano esponenti del mondo animale, sono cani soprattutto. Ci sono anche simboli di movimenti politici minoritari nel paese, e si registra la presenza individuale di alcuni esponenti Democratici. Colori, colori, molti colori, tra i quali sembrano prevalere il viola, simbolo della manifestazione, poi il rosso e il verde, che forse rappresentano quei partiti esclusi dalla vita parlamentare e che cercano di riprendersi uno spazio per comunicare.

San Giovanni, la piazza dei concerti del primo maggio, non riesce a contenere quell’incredibile immensa onda di folla, che straborda per le ampie vie limitrofe. I numeri al solito sono controversi, qualcuno dice oltre il milione, un milione e mezzo, di sicuro una partecipazione che supera ogni aspettativa.

Sul palco non parlano i politici. Sono gli organizzatori, i comuni cittadini, cassintegrati, disoccupati defraudati, precari, personaggi della cultura, dello spettacolo, c’è anche Dario Fo e Franca Rame, che nonostante la sua voce flebile non rinuncia a portare la sua testimonianza, la solidarietà.
Lo sconforto, il disagio, il malumore di ciascuno dei singoli partecipanti si è tradotto in un consapevole mare festante e versicolore, che chiede un legittimo cambiamento. L’invito è rivolto a non disperdere questa immensità di buone energie. Nonostante quanto verrà riportato dai massmedia, dallo spazio che verrà dedicato all’evento, si sente nell’aria che è avvenuto qualcosa di importante, che forse questo giorno sarà ricordato, che siamo prossimi a un giro di boa, che esiste un’Italia migliore che intende vivere in un paese civile.

Roma, 5 dicembre: io c'ero



L’attesa inquieta, perché i ritardatari giungano e la piazza si colmi di volti e accenti e drappi. L’attesa, il conteggio febbrile, disordinato, a occhio, siamo pochi, no, guarda, arrivano altri gruppi, dove, guarda meglio, dietro la fontana, la strada è tutta in fermento. L’attesa di questo lungo pomeriggio è rumorosa, musicale, colorata di brusìo crescente, ritmica di tamburi e grancasse. E dello strepitare di ottoni. Sta partendo? Sì, il corteo parte, finalmente.

Da quel preciso istante l’aria si satura delle vibrazioni della folla in marcia. Un insieme di persone serie, compatte, salde: e insieme festanti, liquide, sinuose. Non si contano i drappi d’ogni foggia e colore, che non dividono. Partono gli slogan, quelli datati e quelli bambini, ma si sorride, ci si stupisce della non uniformità degli abiti, delle età, delle fedi politiche. Si è uniti, però, quello sì, nel dire basta, io non accetto, non voglio più starci. Non voglio più essere complice.

No, non si era vista una manifestazione così da tanto, tantissimo, troppo tempo.

Il corteo è lento, non perché manchi l’ansia di correre avanti e raggiungere la grande arena di Piazza San Giovanni, ma perché guarda, guarda quanti siamo, non vedo l’inizio e nemmeno la fine di questo tappeto umano. Quanti siamo. E tu che non volevi crederci.

Fende il corteo una piccola massa di ballerini-giullari, a ritmo di samba. Difficile resistere al richiamo: e infatti molti, al passaggio di queste figure variopinte, iniziano a ruotare il bacino e a battere il passo. Non si percepisce più nemmeno il freddo di questa giornata di dicembre. E il corteo prosegue verso la sua meta. Non siamo ancora nemmeno a metà percorso e già quelli che risalgono la corrente ci portano le notizie di una San Giovanni che straripa di gente e fatica ad assorbire il fiume che si sta riversando all’interno dei suoi confini.

Alzo gli occhi. Il sole di Roma sta disegnando infinite corone di riflessi sui capelli di donne e uomini e ragazze e ragazzi. I miei anni di troppo, per un istante, scompaiono.

Domani giornali e televisioni mentiranno, distorceranno, taceranno. Non credete loro. Non credete a chi si ostina nel non voler vedere, nel non voler capire.

Io ho visto tutto, ho udito tutto, ho assaporato tutto.

Io c’ero.

martedì 1 dicembre 2009

Dolls: bambole, marionette, pupazzi di Natale.


Siamo alle soglie del periodo natalizio e in città già si stanno allestendo gli spazi espositivi per la grande sarabanda consumistica che ogni anno mette a nudo solitudine, povertà, vacuità e apparenza delle relazioni interpersonali; nonché, piccolo particolare sul quale si glissa, le differenze economiche e sociali tra le persone. Cercare i regali è diventato da un po’ di tempo una specie di lavoro; e pesante, per giunta; un pedaggio obbligato, angosciante, stressante. Senza contare che quasi mai si coglie nel giusto, ma riceviamo e doniamo oggetti inutili o doppioni contribuendo a un vortice di circolazione di denaro che si alimenta di se stesso. Mi piace fare regali e riceverne, ma almeno con le persone più vicine ho deciso di soprassedere per il Natale (in accordo di reciprocità) e di aspettare altre occasioni; occasioni scelte piuttosto che subite, legate alle singole persone piuttosto che di massa. Il Natale, infatti, non è davvero più la festa preposta, anche da un punto di vista laico come il mio, a celebrare l’importanza degli affetti e dell’amore. Mi torna a mente “Dolls”, il bellissimo film, di pochi anni fa, di Takeshi Kitano, che parla proprio e soprattutto dell’amore, ma anche della perdita, della mancanza, del vuoto generato dal riporre la propria sicurezza nell’effimero agire convenzionale. La scena si apre con una rappresentazione di Bunrako, una delle forme giapponesi tradizionali di teatro nella quale ogni marionetta, grande quasi come il corpo umano, non è animata da fili, ma da tre persone: una per il corpo e la mano destra, una per la mano sinistra e una per le gambe. L’impressione è che le bambole si muovano di vita propria, ma anche che rappresentino una sorta di doppio, la parte profonda e perdente di ogni uomo. Gli animatori, tra l’altro, sono mostrati sul palcoscenico, anche se vestiti di nero e a volte incappucciati, quasi a suggerire un’invisibilità simbolica. Le voci sono innaturali (molto basse quelle maschili, in falsetto quelle femminili), proprio per creare la sensazione di irrealtà.
Il film ci ricorda come l’amore rappresenti la possibilità di trasformare tutto, le nostre relazioni e noi stessi, ma possa anche diventare facilmente l’occasione per venire incatenati nella dimensione opposta, del conformismo e del calcolo. Per i due innamorati legati l’un l’altra da una corda rossa (il filo rosso è un elemento tipico della mitologia giapponese, a simboleggiare l’unione intima e profonda tra due elementi o persone) ribellarsi a questo destino fatale significa farsi ridicoli e folli. Tenendosi per mano i due protagonisti abbandonano le sicure e veloci autostrade per inoltrarsi tra i ciliegi in fiore e tra i papaveri, per diventare una cosa sola con i colori della terra e dei suoi doni, ma mentre ne attraversano le stagioni, lo sguardo beffardo e superficiale degli altri li pietrifica trasformandoli in bambole di teatro. Cioè in figure che possono far parte solo della dimensione del sogno.