sabato 20 novembre 2010

Come perdere le elezioni con il marketing politico

Alcuni manuali sottolineano con enfasi l’importanza del marketing politico nel determinare l’esito vittorioso delle campagne elettorali e nel garantire il consenso. Ci sono testi che lo evidenziano fin dal titolo, come il volume Winning Elections with Political Marketing, curato da Philip John Davies e Bruce I. Newman, oppure il saggio (E)lezioni di successo di Cattaneo e Zanetto, che si presenta esplicitamente come manuale di marketing politico. Sorvolando sulla complessità della questione, che a rigore impedirebbe di guardare al marketing politico come unica condizione determinante, per quanto influente, sull’esito delle elezioni, suggeriamo di ribaltare il punto di vista. Nel corso degli ultimi anni, ho raccolto abbastanza materiali per scrivere un libro che si potrebbe intitolare COME PERDERE LE ELEZIONI CON IL MARKETING POLITICO.

Oggetto d’indagine sarebbe, principalmente, la storia di partiti e candidati politici che si sono detti in vario modo, con maggiore o minore convinzione, “di sinistra”. Per comprendere la natura del problema, dobbiamo intrecciare due storie: quella del marketing politico – che ha radici negli anni Cinquanta ma si sviluppa sensibilmente in Europa a partire dalla fine degli anni Settanta – e quella dell’evoluzione dei principali partiti verso la forma del “partito pigliatutto”, ovvero di un partito fondato non più su visioni d’insieme della società umana e del “vivere bene”, ma sull’opinione di volta in volta prevalente nei sondaggi.

Ci si è inizialmente affidati al marketing e alle tecniche dell’advertising per affrontare i format e gli stili comunicativi imposti dalla televisione – sviluppando le precedenti tecniche di “propaganda” – e, soprattutto negli anni Novanta, per compensare il deficit di legittimazione della classe politica e l’incapacità di elaborare narrazioni e visioni del mondo su cui confliggere e cercare consenso.

Affidandosi al marketing politico, in occasione degli appuntamenti elettorali e durante le “campagne permanenti” tra un’elezione e l’altra, l’arcipelago delle “sinistre” italiane ha finito col cadere spesso in alcuni frames della destra, anzitutto nel frame dei frames della destra: quello della comunicazione politica spettacolarizzata, incentrata sul leader telegenico e su altri personaggi mediaticamente visibili. Il sondaggio, lo slogan, il maquillage ed il collage dei simboli sono diventati aspetti cruciali su cui concentrarsi, accettando come tendenza irreversibile quella della “politica pop”. Tutto questo – e non il solo Berlusconi col suo seguito – è il berlusconismo.

È nella logica del “partito pigliatutto” il tentativo di stare sia a sinistra che al centro. Se si sceglie questa opzione, a definire l’equilibro migliore non potrà che essere, di volta in volta, l’ultimo sondaggio e, possibilmente, la disponibilità di un leader al tempo stesso capace di entusiasmare e di accomodare. Ecco che la disperata ricerca di un leader dalla doppia personalità – abbastanza di sinistra e abbastanza di centro – prevale sulla preoccupazione per idee nette sulle relazioni sociali, sui diritti, sull’ambiente, sull’eguaglianza, sulla differenza, sulla laicità, sul merito e così via. Si arrivano a preferire imprenditori o personaggi mediatici, che poi si dichiarano “trascinati” in politica, a tante donne ed uomini che sono cresciuti impegnandosi socialmente e politicamente.

Chi ha preteso di collocarsi in una posizione di sinistra “autentica” e non disposta a compromessi, è stato altrettanto cedevole nei confronti dei frames della “politica pop”. Perciò si è arrivati a paragonare a Barack Obama una Vladimir Luxuria vittoriosa all’Isola dei Famosi, sognando di tradurre i televoti in voti. Un caso di studio singolare è rappresentato dal simbolo con cui, durante una campagna elettorale, il Partito della Rifondazione Comunista di Paolo Ferrero e quello dei Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto hanno segnalato la propria disponibilità ad unirsi elettoralmente: nella cornice del simbolo, oltre a “Socialismo 2000”, “Sinistra europea”, “GUE/NGL”, compariva la denominazione “Consumatori uniti”. Merita un approfondimento il fatto che in un Paese così ricco di idee da elaborare due varianti del comunismo, talmente definite da dividersi in due partiti distinti (per quanto elettoralmente unibili), ci si presenti come comunisti e come consumatori uniti. Meriterebbe un saggio a parte lo scivolamento d’accento così esibito, dal lavoro e dal vecchio appello all’unione dei lavoratori al consumo e all’unione dei consumatori.

La storia degli ultimi anni insegna che concentrarsi solo sul packaging non premia. Non si può certo prescindere, con un esame di realtà, dal tener conto dell’evoluzione delle piattaforme mediali e dagli stili comunicativi che esse, per certi versi, impongono. Ma il lavoro sui frames e sulle parole chiave non può prescindere da quello sui contenuti e sulla riapertura di spazi pubblici, in cui confliggere sulle idee e sulle proposte. Concentrarsi sul packaging produce disaffezione in chi sarebbe più disposto a “prender parte” e ad impegnarsi. La storia degli ultimi anni insegna che, se anche il marketing politico può aiutare a vincere le elezioni, non basta a far durare un governo per un’intera legislatura e, soprattutto, non basta a fare davvero politica.