domenica 31 gennaio 2010

‘Il nastro bianco’ e la (disumana) catarsi finale


Torno sul ‘Nastro bianco’ di Michael Haneke, che, sollecitato dal bel post di Antonella, ho visto nel cinema di Silvano Agosti, prima che uscisse dalle sale. È sicuramente un film costruito e rappresentato a regola d’arte anche nei volti e nelle espressioni degli interpreti che ci introducono realisticamente agli inizi del secolo scorso. Tuttavia, nonostante la narrazione scorra quasi sempre con fluidità, si viene colti da una sensazione di pesantezza non tanto per i crimini che si succedono senza scoprire i responsabili (a dispetto dell’intenso controllo sociale), quanto per i rapporti interpersonali, non solo freddi e formali ma anche impregnati di spietata perfidia, che forse emerge essenzialmente proprio laddove non appare violenza fisica: nel rapporto fra il medico e la levatrice.
Ne esce fuori un microcosmo freddo, congelato, asfittico. Sarà lo specchio dei nostri giorni?, visto che la letteratura, il cinema, l’arte in genere, quando ci raccontano il passato ci parlano anche del presente?

In ogni caso questo tipo di realtà sociale rigida, gerarchica, oppressiva, permeata da rancori, diffidenza e legata all’ambiente naturale, mi ha riportato alla mente il mondo del pastori sardi, raccontato nel suo romanzo autobiografico ‘Padre padrone’ da Gavino Ledda. Una vicenda che comincia nel 1944, quando Gavino non ha ancora sei anni, dunque cronologicamente più vicina a noi. Si tratta di un vero e proprio trattato di pedagogia, come ci dice il sottotitolo: ‘L’educazione di un pastore’. Ma in tale contesto il ricorso alla violenza fisica, oltre ad essere un normale strumento pedagogico spesso abusato, al contrario di quanto avviene nel ‘Nastro bianco’, ha sempre un senso (sicuramente sbagliato ai nostri occhi) in relazione all’arcaico codice d’onore dell’ambiente rurale sardo che sembra rimanere escluso dalla ‘giustizia’ dello Stato; si tratta spesso di vendette che animano i racconti degli anziani, le quali, come tutte le faide, non si esauriscono con la morte dei contendenti ma si trasmettono alle generazioni future. Invece guardano il film di Haneke si ha la sensazione di delitti malati, assurdi, laceranti, sintomo di un disfacimento sociale e morale.



A mali estremi estremi rimedi, sembra volerci dire il regista austriaco nel finale: solo un male assai più grande può sanare queste misteriose, inquietanti brutalità, e la paventata guerra, finisce per essere l’unica soluzione in grado di rimuovere gli orrori di quel piccolo borgo perduto nel profondo nord della Germania, ancora pervaso da logiche feudali. La guerra appena accennata nel film, rapportata a una dimensione individuale, quasi diviene simile ad una forte influenza o un altro malessere fisico temporaneo, che ci allontana (o guarisce?) da un periodo di preoccupazioni, d’inquietudine, di stress. Stiamo parlando del primo conflitto mondiale, di quella stessa Grande Guerra che inonda il finale del capolavoro di Italo Svevo, quella che guarisce l’annosa, forse innata, malattia della ‘Coscienza di Zeno’, contro la quale la psicoanalisi si era rivelata del tutto impotente se non dannosa; in una Trieste che apparteneva all’Impero Asburgico, la stessa Austria del regista Michael Haneke. Forse è anche in questi aspetti (che andrebbero meglio scandagliati), che si può annidare il fascino, purtroppo ancora perdurante al di là di interessi economici e politici, verso la più assurda, tenace, dis-umana manifestazione dell’uomo.

sabato 30 gennaio 2010

"La prima cosa bella" di Paolo Virzì


L’hanno già visto quasi tutti, i miei amici, e si dividono tra gli entusiasti e i meno convinti. Io, prima di stasera, ho tentato due volte senza successo, perché i posti erano esauriti: elemento, questo, che di solito mi fa diffidare di un film. Si fa buio in sala e mi coinvolgo subito, fin dalle prime battute, suoni e immagini. Non appena le lacrime cominciano a intrecciarsi con le risate mi pento di avere scelto l’ultimo orario, quando le difese sono allentate e la notte piena spinge a lasciarsi andare alle emozioni. Mi chiedo se l’immediato e intenso coinvolgimento che provo sia dovuto al sapore così toscano del film, cioè, essendo io toscana, alla possibilità di sentirmi catapultata improvvisamente nella mia stessa infanzia, ma osservando la persona che è con me, non toscana, mi accorgo che è commossa altrettanto. Ci si identifica, penso, perché nessuno dei personaggi è a tutto tondo, buono o cattivo, forte o debole, ma tutti quanti mostrano le proprie luci e le proprie ombre, appaiono dipinti di colori contrastanti e contrastanti si mostrano anche i loro sentimenti, le loro emozioni, le loro spinte a scegliere o a lasciarsi agire dal destino. Sono persone vere, sono i tuoi amici, i tuoi cari e tu stesso nei momenti aspri o leggeri della vita. Vorresti prendere i personaggi per mano uno a uno e accompagnarli a guardare con occhi diversi ciò che si presenta come ineluttabile, drammaticamente ostile, incomprensibilmente crudele. Il figlio maggiore, per esempio, avvolto in un mantello di gelo che solo sembra poterlo proteggere e, paradossalmente, scaldare. L’amore, le carezze, la vitalità che intravede negli altri sembrano quasi ucciderlo, poiché non si sente autentico in alcun modo, né guardando né chiudendo gli occhi, né fuggendo né restando, fino al momento finale nel quale segue il consiglio della madre, ultimo dono di vita di lei, e si immerge nelle acque del mare familiare della sua infanzia, riconciliandosi, finalmente, con il proprio passato.

Vengono in mente i tanti studi sui sentimenti contraddittori che ispira la madre al bambino molto piccolo, stupito, affascinato e spaventato insieme dal potere emozionale che lei esercita su di lui. Lo psicoanalista Donald Meltzer ha intitolato un suo libro sull’argomento proprio “Amore e timore della bellezza” e ha individuato l’origine di quello che lui e altri, in seguito, hanno studiato come “conflitto estetico”, nei sentimenti suscitati dal guardare il volto della madre, sottoponendosi al suo fascino ambiguo. Il volto della madre è bellissimo e terrifico insieme e non è solo da guardare: è odore che ti inebria, è capelli che ti sfiorano le guance nell’abbraccio, è sorriso che ti accoglie ed è voce ammaliante di sirena che canta e sussurra.

Ma non è così, in maniera accademica e, dunque, necessariamente un po’ distante, che vorrei scrivere di questo film. Un film che parla di noi, di ciascuno di noi: della nostra incoerenza affettiva, delle nostre emozioni complesse, del nostro gettar via, qualche volta, il tempo e lo spazio che abbiamo a disposizione creandoci da soli le catene che ci fanno soffrire o distruggendo ciò che ci rende felici, ma, soprattutto, della nostra confusione e del nostro spaesamento quando ci troviamo di fronte alla perdita, al vuoto e al silenzio e ci sembra di non poter scorgere, in queste esperienze, l’origine di una rinascita, sia pure dolorosa, ma foriera anche di nuove gioie.

Al centro del film c’è una figura di donna bellissima, vitale, autentica nelle sue fragilità e contraddizioni. Anna, lo stesso nome della madre (Annina) che Giorgio Caproni immortala in molte delle sue poesie: una figura anch’essa inusuale e affascinante che appare tra le vie di una Livorno di inizio novecento e le percorre, a piedi o – facendo scandalo, all’epoca – in sella a una bicicletta azzurra, avvolta nel suo scialletto rosso e con la collanina di corallo sulla camicetta dischiusa, tutta odorosa di cipria e di mare.

Nel film quasi tutti i maschi che ruotano attorno ad Anna – il figlio-bambino, il figlio diventato adulto, il marito, quelli che impomatati nei riporti un po’ laidi esibiscono con arroganza il proprio invidioso desiderio – la guardano con ammirazione e la disprezzano insieme. Una delle più commoventi scene è quella nella quale, cacciata di casa dal marito geloso, respinge indietro le lacrime e canta attraversando la notte la canzone che dà il titolo al film, in cerca di un riparo per sé e per i suoi piccoli; mentre li protegge con braccia che si fanno mantello e sembrano ali con le quali poter volare lontano da ogni cattiveria; l’altra è quella sul letto di nozze e di morte insieme, quando la vitalità di lei sembra quasi donarle la forza di uscire, leggera, dal proprio corpo morente e danzare morbida e sensuale, sorridente e carezzevole, sulle note dello struggente Intermezzo di Cavalleria Rusticana di Mascagni. Un brano che sembra racchiudere in sé, intensamente, tutto il senso film, esprimendo insieme nostalgia, cioè dolore del passato e speranza e voglia di aprirsi di nuovo alla vita.

Quando torno a casa i miei passi risuonano, uno dopo l’altro, ritmati, nel silenzio; il rumore dei tacchi sul selciato di solito mi infastidisce, ma questa volta mi consola: è il segno tangibile di una presenza viva, proprio la mia, e mi accompagna attraverso il nero della notte insieme all’immagine consolante di Anna: una piccola donna felice di vivere e capace, nonostante tutto e persino nel momento della morte, di amare e di godere delle cose belle e buone del mondo.

Stringendosi nello scialletto

scarlatto, ventilata

passava odorando di mare

nel fresco suo sgonnellare.

Livorno le si apriva

tutta, vezzeggiativa:

Livorno, tutta invenzione

nel sussurrare il suo nome.

Prendeva a passo svelto,

dritta, per la Via Palestro,

e chi di lei più viva,

allora, in tant’aria nativa?

(...)

Giorgio Caproni

venerdì 29 gennaio 2010

Sulla traccia di Holden

Dopo 91 anni di permanenza sul nostro pianeta, J. D. Salinger ci ha lasciati. Di origine polacca era nato a New York nel 1919. Partecipò al D-Day nel corso della Seconda Guerra mondiale, durante la quale conobbe Hemingway, che ne rimase entusiasta. Fu uno dei primi soldati americani ad entrare in un lager nazista, e pare che queste esperienze belliche non passarono senza lasciare segni, come testimonierebbe qualche sua pagina dedicata alla guerra ed un ricovero di alcune settimane per curare una sindrome post-traumatica. Dopo la pubblicazione di alcuni racconti, nel 1951 uscì The Catcher in the Rye (Il giovane Holden), che lo rese famoso. In seguito pubblicò altri racconti, finché alla metà degli anni '60 non decise di ritirarsi a vita privata rimanendo stabilmente a Cornish, nel New Hampshire, dove si era trasferito già dal 1953.

Ho avuto la ventura di leggere “Il giovane Holden” in un periodo difficile, e la sua freschezza, la sua originalità, l’inquietudine e la schiettezza delle sue parole mi sono stati vicine più di un amico. Non è retorico affermare che questo romanzo ha affascinato varie generazioni. L’ho proposto spesso agli alunni delle superiori che in genere hanno risposto con interesse. Ricordo che un anno ne parlai con una collega meno giovane di me, e qualche tempo dopo mi raccontò che un suo vecchio amico si era entusiasmato e commosso pensando che ancora oggi degli adolescenti potessero apprezzare quel libro che lo aveva coinvolto, emozionato, quando aveva più o meno la loro età.

Oltre al suo talento di narratore, va considerata la scelta di ritirarsi dalla ribalta e di non voler più pubblicare i suoi testi. Decisamente in controtendenza con il culto dell’apparire che dal “Grande Fratello” ai blog, coinvolge ormai ogni strato sociale del globo. Salinger dunque, senza alcuna pubblicità è riuscito fino ad oggi (e credo che la tendenza non si interromperà presto) a diffondere per circa sessanta anni le sue opere, che non vogliono saperne dei perdere popolarità. Se ne è parlato fin troppo ed il nome del protagonista del suo romanzo è stato usato e riusato, tanto da inflazionarne la freschezza originale. Forse anche questa potrebbe essere una delle ragioni che ha sospinto Salinger verso la fuga dalla notorietà.

In questi decenni di anonimato quasi perfetto, se ne sono dette molte sul suo conto, ad esempio che ha continuato a scrivere, e che i suoi libri inediti saranno pubblicati postumi; spesso però sono emersi anche risvolti della sua vita e del suo carattere poco gradevoli. Sarà il tempo forse a stabilire quanto ci sia di vero. In ogni caso, siano attendibili o meno, queste indiscrezioni non intaccano per niente, dal mio punto di vista, la qualità letteraria e i meriti esistenziali delle sue narrazioni. Il suo sgangherato personaggio anticonformista, tenero, spassoso, tormentato e pasticcione, con semplicità e spontaneità imbarazzanti tratteggia le contraddizioni di un sistema sociale impregnato di molteplici difetti insanabili, non ultimo l’ipocrisia. La storia è animata dalle difficoltà destabilizzanti che incontra per integrarsi nel mondo degli adulti, un adolescente che non ha alcuna intenzione di perdere il suo sguardo innocente sulla realtà. E Holden Caulfield fin dalle prime battute emerge dal testo in modo da sentirlo vicino, quasi anticipando sulla pagina le tre dimensioni del cinema di oggi. Ma non è solo per tutte queste ragioni che vorrei ringraziare J. D. Salinger, quanto per il gusto della lettura che, a suo tempo, mi riconsegnò una traccia di fiducia.

sabato 23 gennaio 2010

“Il nastro bianco” di Michael Haneke, e il silenzio degli universi perdenti.


Sono convinta che sia possibile e importante parlare di politica anche indirettamente, ed è quello che vorrei fare in questo caso. Il sole caldo di stamani, senza nuvole in agguato e compromessi con il grigio, rende più difficile commentare il bellissimo film che ho visto ieri sera. A quel film, infatti, si confà la notte piena di ombre e sussurri o di paure trattenute nelle pieghe più segrete dell’anima. Molti spettatori ne sono usciti con la faccia delusa e rancorosa; al termine ho anche scambiato qualche commento con amici incontrati per caso, ma non eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Forse bisognerebbe raccomandare, nelle brevi recensioni critiche di un film, di sceglierlo in base ai propri sentimenti del momento. A questo film, per esempio, si confanno il silenzio di parole e la tristezza e io, ieri sera, ero da sola ed ero triste; questa coincidenza, forse, mi ha reso quasi naturale rompere la barriera invisibile che sempre si erge tra lo spettatore e lo spettacolo, per entrare dentro la storia, nel 1913, alla vigilia della prima guerra mondiale, in un piccolo paese del nord della Germania; e per vestirmi anch’io di quegli abiti scuri, punitivi e larghi avvolti su corpi bambini o sulla magrezza esasperata e goffa di quelli adolescenti. E poi camminare, anch’io, con i loro piccoli passi incerti e timorosi, prendere da un ripostiglio buio la ferula con la quale sarò brutalmente frustata per un marachella da niente, per una parola di troppo, per uno sguardo impudente; subire con loro, sequenza dopo sequenza, la crudeltà di un amore genitoriale malato e sgranare gli occhi pieni di domande sul perché dell’esistenza senza riceverne alcuna risposta, da nessuno. Bianco e nero, come nel migliori film di Ingmar Bergman, e paesaggi innevati e solitari, bellissimi e gelidi, cornice impietosa delle miserie umane, dei segreti indicibili fatti di violenza riposta tra le pareti discrete della casa, dietro le porte chiuse, tra le trine candide e leggere cucite attorno alle cune e al loro prezioso tesoro di piccoli bambini prigionieri delle proprie fasce e i mobili pesanti, imponenti e scuri, indizio ingannevole di sicurezza e di solidità degli affetti. I merletti delle donne compaiono spesso e la telecamera si sofferma su di loro e li evidenzia, o su mani ancora bambine che li tessono con la testa china sul petto, e altre ne lascia immaginare, di fanciulle e di donne che scrivono la propria rabbia su pagine di stoffa o di pizzo, con il filo e l’ago, con l’uncinetto o il chiacchierino o il tombolo, lasciando uscire dalle dita la propria silenziosa e vana protesta, la voce di un universo femminile perdente al quale neanche il lamento è più concesso, ma solo la muta rassegnazione. Il film, infatti, ci accompagna per mano all’interno degli universi perdenti di chi non ha parola: i bambini, i disabili (c’è un personaggio dismorfico e balbettante in un proprio gergo incomprensibile che quasi sempre viene chiamato dal narratore fuori campo “il bambino ritardato”), le donne prima che diventino troppo adulte e quindi si facciano complici dei propri aguzzini nella sopraffazione di altri più deboli; in questo caso i figli. Lo sguardo impietoso del regista si sofferma sulla genesi delle future figure di nazisti mentre ancora essi stessi sono vittime di un’educazione improntata alla gerarchia e all’obbedienza assoluta che lega anche i genitori, carnefici e vittime insieme; consenzienti; complici della figura del Barone, signore del luogo al punto da sostituirsi al prete per rivolgere un sermone-minaccia agli attoniti fedeli raccolti per la funzione domenicale. Il Barone, il Pastore, il Medico, l’Intendente determinano le regole di convivenza di una comunità chiusa e gerarchica che finisce per diventare, e noi spettatori lo pensiamo senza avere il coraggio di dircelo, la spietata rappresentazione di qualcosa di più universale della gestazione dell’esperienza nazista e che, in qualche modo, ancora ci riguarda.

venerdì 15 gennaio 2010

La musica di Orfeo


Sull'onda delle note di Antonella, è approdato nei miei ricordi il mito di Orfeo. Un antico cantautore della Tracia, che con la sua musica straordinaria poteva ammansire le belve più feroci e addirittura muovere le montagne. Dunque sembrerebbe che tramite il suo canto e le corde della sua lira potesse entrare in sintonia con gli elementi della natura. Al solito le versioni del mito sono varie ma tutte sembrano convergere sul nucleo centrale della storia: la meravigliosa musica di Orfeo non solo mette d’accordo tutti gli esseri viventi, minerali compresi, ma riesce anche a dialogare e persuadere le forze ultraterrene nonché ad aprirsi un varco attraverso l’inconoscibile mistero della morte. Difatti Orfeo incanta nientemeno che Caronte e Cerbero, poi tramite Persefone, convince Ade, il dio degli Inferi, a restituire alla vita la bella Euridice, precocemente defunta. Si sa che Ade porrà una condizione: Orfeo deve precedere la sua amata lungo tutto il percorso fino alle porte dell’Averno senza mai voltarsi verso di lei. Ma quando ormai sembra avercela fatta il valente cantautore non può fare a meno di voltarsi…
Il mito sembra volerci suggerire che la buona musica ispirata (di qualunque genere sia), oltre che metterci in sintonia con il mondo, può superare anche il muro invalicabile della morte, degli inferi, forse anche di quell'inferno che spesso gli uomini creano per i loro simili e per se stessi convivendo su questo bel pianeta. Però attenzione, conclude il mito, la musica da sola può molto, ma non risolve tutto se non viene sostenuta dalla volontà di raggiungere uno scopo e di rispettare fino in fondo un patto condiviso.

lunedì 11 gennaio 2010

Identità, differenza, democrazia.


In questi giorni sono particolarmente in evidenza le questioni legate alla discriminazione culturale: Rosarno, nella sua drammaticità, ma anche il funereo decreto Gelmini sugli alunni stranieri o, su un piano diverso, la vicenda del calciatore Balotelli. Riflettendo su questi ultimi avvenimenti in relazione a convivenza, conflitto e democrazia, appare chiaro come l’idea di politica non possa esaurirsi nella dimensione istituzionale, anche se importante; né, tanto meno, debba essere compito esclusivo dei raggruppamenti partitici, anche se possono e debbono svolgere un ruolo significativo. La politica, infatti, è anche insita nelle pratiche della società civile, nell’esercitare il confronto mediando il conflitto oppure nell’esasperarlo; nel cercare gli elementi trasversali alla comune condizione dell’essere uomini, sia pure facendo i conti con le differenze, oppure nel sottolineare la propria distanza. La patria, sono convinta, non si definisce come il suolo (che calpestiamo) recintato da precisi confini, ma come la cornice delle pratiche comunitarie che ci fanno sentire o meno fratelli, capaci di piangere per il dolore di un altro che sentiamo simile al proprio o di condividerne la gioia. Per questo voglio ricordare una storia che mi è sempre piaciuta e che inizia dieci anni fa, nel 1999; una anno che si inseriva, come qualcuno ricorderà, in una fase particolarmente dura nella dolorosa vicenda dei rapporti tra israeliani e palestinesi. E’ una storia che riguarda la politica, ma anche un’altra dimensione: la musica. Amo la musica, molto. Credo che abbia un potere immenso su di noi, scioccamente sottovalutato. Elena Cheah è una violoncellista e ha scritto il libro che sto terminando di leggere (“Insieme” è il suo semplicissimo titolo), nel quale racconta un’esperienza straordinaria, quella della “West-Eastern Divan orchestra”, attraverso la voce dei co-protagonisti. Un’orchestra formata da musicisti diversi gli uni dagli altri, diffidenti e ostili perché cresciuti nel pregiudizio reciproco; giovani (dai 14 ai 25 anni) provenienti da Israele, Siria, Palestina, Giordania, Egitto, Libano. L’orchestra venne fondata dal pianista e direttore Daniel Barenboim (di origine e cultura ebraica) e dallo scrittore palestinese Edward W. Said che si erano incontrati in un hotel londinese e avevano discusso di tutto, ma in particolare di politica, di territori, di identità e differenza, di musica e dell’intreccio tra tutte queste cose.

"Fondata” è una parola grossa: si dette intanto forma a un insieme che doveva perfezionarsi per fondarsi davvero come orchestra in grado di suonare in pubblico: occorreva lavorare faticosamente (ma con il privilegio di una guida musicale straordinaria). Unica condizione posta ai giovani musicisti che ne volevano far parte era quella di aderire a due principi: 1) che il conflitto Israeliano-Palestinese non dovesse essere gestito militarmente 2) che la terra contesa, chiamata dagli uni Palestina e dagli altri Israele (o Grande Israele) fosse considerata come terra di due popoli.

Si studiava musica, ma anche si partecipava ai seminari sui libri di Said discutendone le idee. All’orchestra venne messo un nome ripreso dal titolo di una raccolta di liriche (“Il divano occidentale-orientale”) di Goethe centrate sull’idea dell’altro e ispirate dallo studio e dall’amore per la poesia persiana e per la cultura islamica. La sfida consisteva nel creare una sorta di microcosmo o cittadella ideale, quasi un modello generato in laboratorio, per dimostrare che si può scoprire la comune appartenenza anche utilizzando altri linguaggi, diversi dalle parole quando queste risultano logorate; per esempio la musica. Così come fanno i bambini che anche se sono di origine, cultura e persino lingua diversa, convivono subito, se lasciati liberi, e s’intendono alla meglio per giocare, ma proprio in questo modo imparano a conoscersi, ad apprezzarsi e persino a parlare la lingua dell’altro (cara ministra Gelmini) meglio di quanto si possa fare a scuola. Mi piace terminare con le parole di Baremboim:

“Edward Said ed io credevamo nell’opportunità di lasciare che le voci contrastanti si esprimessero simultaneamente. (...) Questa nostra idea traeva spunto dal principio del contrappunto musicale, dove una voce di accompagnamento che agisce in maniera sovversiva può giungere ad arricchire una melodia, anziché impoverirla. A tutt’oggi non cerchiamo di ridurre o ammorbidire le differenze presenti fra i vari membri dell’orchestra: facciamo l’esatto contrario. E confrontando le differenze cerchiamo di comprendere gli uni le ragioni degli altri” (Daniel Baremboim, Introduzione a “Insieme” di Elena Cheah)


domenica 10 gennaio 2010

Il compromesso, la mediazione e la semplicità dei sogni


Il compromesso è cosa ben diversa dalla mediazione. Quest’ultima rappresenta un accordo leale fra gentiluomini (e gentildonne, per ravvivare un po’ l’espressione usurata), che non comporta la rinuncia ai propri ideali e valori. Il compromesso, invece, si basa su una trasformazione, magari non evidente a tutta prima o non consapevole, della propria identità nei suoi tratti essenziali. Nella mediazione (un mezzo, appunto) infatti, non ci si muove in contrasto con i fini che si perseguono, nonché con i propri ideali e valori; nel compromesso, al contrario, si cede alla lusinga del fine che giustifica i mezzi e ci si trasforma fino a diventare irriconoscibili a noi stessi e agli altri. Dire che ritengo indispensabile l’arte della mediazione, ma deleteria la disponibilità al compromesso è necessario per poter parlare di sogni.

Una volta, tanto tempo fa, sognavo, come fanno gli adolescenti, di un mondo migliore: un mondo pacificato, nel quale i conflitti fossero tollerati e mediati, ma non affrontati con guerre e sopraffazioni. Un mondo più giusto, nel quale nessuno fosse costretto a morire di fame o di emarginazione. Un mondo più colorato, nel quale a regnare non fosse la cappa del senso di colpa e della conseguente minacciata punizione, proporzionale al peccato commesso, ma il piacere della reciproca compagnia e la condivisione delle cose belle e buone, nel rispetto della natura. Ma soprattutto sognavo di un mondo più solidale, regolato dalla sollecitudine reciproca tra noi esseri umani e prima ancora dalla consapevolezza degli elementi avversi e faticosi dell’esistenza, comuni a tutti: la fragilità della propria condizione e l’ineluttabiità del dover attraversare la perdita, la fine delle cose, delle esperienze, delle persone e di noi stessi. Questa consapevolezza avrebbe dovuto, sempre secondo i miei sogni adolescenti, renderci tutti più leggeri, capaci di comprendere anche chi ci è nemico e di ascoltare persino le parole irritanti tese a disconfermare le nostre certezze più profonde. La mia idea di mondo migliore rispetto a quello che conoscevo non riguardava (e non riguarda) solo i grandi territori della politica o dell’economia, ma anche quelli piccoli della quotidianità e di ogni microcosmo relazionale: l’amicizia, la genitorialità, la sessualità e l’amore.

Con il passare del tempo e il sovrapporsi delle fasi della vita questi sogni brutalmente elencati come in un catalogo non sono granché mutati: li ho ripuliti anno dopo anno della loro ingenuità originaria, resi più complessi, messi a confronto di volta in volta con la contingenza del momento e infine mediati nel confrontarmi con chi, singoli o gruppi di persone, avevo vicino.

All’inizio, quand’ero ancora bambina, erano sogni sbocciati all’interno della fede. Ricordo che nelle mie preghiere un po’ bizzarre, quasi sempre create sul momento più che riprodotte passivamente secondo tradizione, mi preoccupavo sempre (e a volte soltanto) degli ultimi e soprattutto di chi mi sembrava poter essere definito come un peccatore, dunque destinato all’isolamento sociale e alla punizione. La fede l’ho persa a 15 anni, proprio per i compromessi che mi si chiedeva di ratificare rispetto ai paradossi di una religione che si proclamava pacifista e si muoveva spesso per crociate violente e guerrafondaie contro i propri nemici. Qualcosa di simile l’ho provato poi sempre, nei confronti di raggruppamenti di carattere politico o culturale nei quali mi riconoscevo, ma rispetto alle cui scelte e ai compromessi che mi si chiedeva di ratificare con il mio consenso mi sentivo estranea. Ancora oggi mi chiedo, giorno dopo giorno, se quella parte politica che potremmo genericamente chiamare “sinistra” e nella quale mi riconosco, non stia pagando il prezzo più alto che si possa immaginare: la perdita di ideali e valori forti che renderebbero possibile ed efficace la mediazione, in favore di un‘inconcludente tecnica del compromesso.

I sogni sono importanti, perché muovono gli uomini e permettono loro di trasformare il mondo.

Da Balotelli ai disperati di Rosarno


Sabato 9 gennaio 2010. I quotidiani dedicano le prime pagine alla guerriglia urbana di Rosarno, mentre le pagine sportive si soffermano sulla multa di settemila euro comminata a Mario Balotelli, attaccante dalla pelle nera, regolarmente italiano e regolarmente vittima di cori razzisti: “Se saltelli muore Balotelli”, “Non ci sono negri italiani”. La multa è dovuta all’applauso (“provocatorio”?) rivolto ai tifosi che lo avevano insultato durante la partita. Il successivo sfogo rivolto ai tifosi di Verona (“alla città”?) è seguito dalle scuse per la generalizzazione. Ci sono direttive che comporterebbero la sospensione delle partite quando iniziano cori razzisti, ma i troppi interessi in gioco – con la vacanza morale che contribuiscono ad alimentare – probabilmente interferiscono con la loro effettiva applicazione.
La vacanza morale e la cecità politica sui “reali problemi” italiani sono due punti di una stessa linea, che va da Balotelli ai disperati di Rosarno, dagli stadi alle baracche, dal giocatore nero italiano della squadra più ricca del campionato di serie A ai lavoratori neri irregolari, costretti a vivere in condizioni di vita tra le più povere documentate recentemente sui nostri quotidiani: un oleificio fatiscente, tende e cartoni ammassati come ricovero, contenitori di arance come docce.
A ridosso dell’ennesima lettera al Corriere della Sera, con la quale il Professor Sartori spiegava il suo punto di vista sulla non integrabilità dei musulmani in quanto musulmani, finalmente si potrebbe iniziare a parlare di diritti e doveri di tutti, di condizioni di vita e di legalità come condizioni preliminari di ogni condivisione e integrazione. Ma il ministro Maroni spiega la vicenda anzitutto con la “tolleranza contro l’immigrazione clandestina”. Restano relativamente sullo sfondo la tolleranza o complicità di tanti con l’illegalità italiana, e la cecità politica e morale che inevitabilmente accompagna situazioni come quelle di Rosarno. Né sono sufficienti, ad affrontare la questione, le generiche dichiarazioni di accoglienza incondizionata. Perché pensare incondizionatamente significa appunto ignorare il confronto sulle condizioni di vita e pensare che i conflitti si possano “risolvere” semplicemente rimuovendoli (oppure distribuendo precettistiche astratte). Il persistere dell’incapacità di accedere a questi conflitti può avere un solo esito: in futuro, tra una settimana o tra anni, i fatti di Rosarno saranno ricordati come un “precedente”.

mercoledì 6 gennaio 2010

Un altro Natale


Nel dicembre 1944 due personaggi rilevanti del mondo della politica e della vita culturale del nostro paese, si trovarono a “festeggiare” nella stessa località: lo Stammlager di Sandbostel. Ora qualcuno potrebbe pensare che nelle disagiate condizioni in cui si viveva in un lager tedesco, si riesca a mettere da parte questioni politiche per tirare avanti nel modo migliore. Invece le cose sembra che non sempre andassero per questo verso, e pare che tra Alessandro Natta (futuro dirigente e poi segretario del PCI) e Giovannino Guareschi (cattolico, con simpatie monarchiche e anarchico al contempo) non corresse buon sangue.
Inutile dire che anche Guareschi era antifascista: altrimenti sarebbe rimasto ad Alessandria, nella Repubblica di Salò, dove era tenente di complemento. Per tenere alto il morale suo e dei suoi compagni di sventura, scriveva a modo suo ( malgrato tutto) con brillante ironia e organizzava spettacolini sulla base di suoi testi, tra cui una “Favola di Natale” scritta il 17 dicembre del ’44, che rappresentò con successo, grazie alla collaborazione del musicista Coppola e di altri internati. “Sta per arrivare il Natale: perché non scrivi una bella favola per questi pezzenti divorati, come te, dalla fame, dalle pulci e dalla nostalgìa? E’ un modo come un altro per riportarli ai pascoli domestici, per riattaccarli alla vita”.
Nel libro di Natta sull’esperienza di internato militare, che per disciplina di partito, pubblicò oltre quaranta anni dopo averlo scritto, si legge: “Dalla resistenza etica e politica fu necessario distinguere quelle espressioni lacrimose e qualunquistiche, tipo le favolette di Natale dei Guareschi”. Nel corso di questi quattro decenni il dirigente del PCI aveva avuto modo di rimproverare Guareschi per altre vie, se l’autore di Don Camillo, nel 1965 racconta: “E c’era chi mi rimproverava aspramente queste mie pubbliche manifestazioni sentimentali e piagnucolose. Gente convinta che bisogna approfittare delle sciagure nazionali per cavar fuori all’uomo ciò che ha di peggiore in fondo all’anima. Personaggi, insomma, che vedono nell’umanità solo masse da avvelenare, scatenare e mandare allo sbaraglio, per sventolare poi le insanguinate spoglie dei morti come bandiera”.
Con tutto il rispetto per Alessandro Natta, per la coerenza, la rettitudine, la dedizione, l’impegno politico e quant’altro, non so se sia possibile condividere la sua opinione, anche perché Guareschi se in qualche punto della sua “Favola di Natale” può essersi avvicinato al “sentimental-piagnucoloso”, di sicuro ne è stato ben lontano in quasi tutto il resto della sua produzione, sia nel corso della prigionia che fuori. E forse, col senno del poi, a far pendere l'ago della bilancia dalla parte di Giovannino è la consapevolezza che il comunismo, malgrado le sue buone intenzioni teoriche, si è rivelato nell’attuazione concreta anche fonte di tante atrocità.
Non solo Natta fu una persona onesta e degna di stima, come sappiamo lo fu anche Guareschi, che pagò a caro prezzo il suo essere libertariamente di destra, senza appartenere a partiti o camarille. Scontò infatti una reclusione di ben 409 giorni, oltre a sei mesi di libertà vigilata, per diffamazione a mezzo stampa (il diffamato fu niente meno che Alcide De Gasperi…). Non presentò domanda di grazia e neppure il ricorso in appello dato che si riteneva vittima di un’ingiustizia.
L’esperienza del carcere lo minò nel fisico e nel morale, e probabilmente lo amareggiò più del periodo trascorso nei lager, che tornò a visitare, senza odio, poco dopo la fine della condanna subita nella democratica Italia.

Benché siamo ancora nell’ultimo giorno delle feste natalizie (anzi negli ultimi minuti…), evito di concedermi anch’io uno spazio, una morale “sentimental-piagnucolosa”, e lascio le conclusioni a chi avrà avuto la bontà di leggere.