domenica 28 febbraio 2010

Il viola e l'inferno

Questo nuovo appuntamento del movimento viola vede una partecipazione minore, meno entusiasmi, meno colori, meno iniziative goliardiche. Forse è dipeso dall’aver rifiutato il contributo organizzativo dei partiti, forse dalla crescente sfiducia o magari è mancata l’euforia prenatalizia del 5 dicembre. I problemi sono sempre gli stessi, anzi, le notizie degli ultimi giorni sembrano rappresentare la situazione in modo ancora più allarmante: risate post-sismiche, mafia al senato, nuova tangentopoli dilagante, il fiume Lambro e il dio Po invasi dal petrolio… Ma in fondo siamo in una società liquida, forse dovremmo abituarci alla mutevolezza degli umori dei singoli, delle masse, dei partiti, delle istituzioni… Tutto sembra scorrere nell’indifferenza dei nostri occhi anestetizzati. E il popolo viola sembra una debole voce, qualche appassionato getto di acqua limpida, in questa fiumana inquinata e dilagante. Dopo tutto Oliviero Beha dal palco ha ricordato che, secondo uno studio di De Mauro, oggi solo il 29 % degli Italiani è in grado di usare e comprendere la lingua in modo decente, quindi parlare o peggio ancora scrivere, non intacca minimamente gli equilibri. E Andrea Rivera, con la sua sferzante ironia, svela che i Casalesi vogliono eliminare Saviano perché non hanno ancora letto Federico Moccia. Forse a questo punto non conviene diventare anche noi parte della massa bituminosa? Come dice I. Calvino “accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più”? Oppure crediamo ancora che ci sia congeniale la via più difficile, quella che «esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio»?

sabato 20 febbraio 2010

Omofobia: un'emergenza sociale


Sono eterosessuale, eppure sento profondamente che questa questione, drammatica come emergenza e metaforica rispetto a quanto accade nelle dinamiche sociali in questi tempi oscuri, mi tocca in prima persona. Si tratta, è vero, di discriminazioni e violenze che non mi riguardano direttamente, ma che tuttavia rendono il mondo più brutto per tutti e dunque anche per me: lo trasformano in un luogo nel quale occorre essere omologati a modelli comportamentali imposti, presentati quasi sempre come dettati dalla natura anziché come costruzioni culturali. Questo vale per l’omosessualità, ma anche, allo stesso modo, per le differenze di genere: la natura ci dice soltanto che siamo biologicamnete diversi come uomini e come donne, ma non come dobbiamo incarnare i rispettivi ruoli o incanalare il desiderio, che dovrebbe avere una propria autonomia rispetto alla possibilità della procreazione. In un mondo così rischiamo di essere trasformati tutti in gregge: cloni, esseri seriali e conformisti; e codardi, anche, perché definiti dal timore di una differenza che riusciamo a leggere solo come una disconferma del nostro valore.

Anche in virtù della specificità della mia professione (sono una studiosa di processi formativi, dunque di ciò che riguarda gli esseri umani e il loro farsi soggetti autonomi delle proprie scelte e della propria storia in qualsiasi momento del ciclo di vita) ritengo, però, che il modo migliore di combattere il pregiudizio, gli atti di discriminazione e quelli di violenza anche fisica nei confronti delle persone omosessuali, consista in percorsi di educazione preventiva. Non si tratta solo di fornire conoscenze, di sfatare pregiudizi o, peggio, di invitare a un atteggiamento moralistico e tollerante: anzi, si tratta di criticare il concetto stesso di tolleranza in favore di quello di accettazione delle diversità; di qualsiasi diversità.

Tutte le emergenze sociali sono oggi legate alla tematica dell’identità e della differenza e alla paura dell’altro (diverso) che colora di sé le problematiche del conflitto di qualsiasi natura esso sia: di genere, intergenerazionale, di convivenza multiculturale, tra normali e sani e, in una luce particolare, rispetto alle differenze di orientamento sessuale. Si teme l’altro, diverso, che ci sta di fronte, perché potrebbe lasciar affiorare ogni diversità che è in noi scoprendo i nostri lati più reconditi e oscuri, le nostre inquietudini, o quelle che viviamo come le nostre debolezze.

E’ un luogo comune pensare che la tolleranza rappresenti un modo per risolvere i conflitti e per convivere in maniera rispettosa gli uni nei confronti degli altri. La tolleranza, invece, si lega alla sopportazione, non all’apprezzamento dell’altro nella sua diversità. Nel tollerare si sottolinea la propria differenza. Tolleranza e intolleranza, quindi, hanno la stessa radice: si tollera un elemento definito come diverso e negativo; ma lo si fa fino a un determinato limite, oltre il quale si comincia a odiare e si procede all’eliminazione fisica o simbolica. Lo si capisce bene spingendosi a ritroso fino a Tommaso D’Aquino, per il quale i sentimenti di tolleranza potevano riguardare coloro che professavano altre religioni, come i pagani, o i musulmani o anche gli ebrei, non per colpa, ma per una condizione non scelta, e non coloro che, collocati all’interno della religione cattolica, producevano critiche o idee considerabili eretiche o, ancora, se ne discostavano pur avendo fatto una promessa di fede. Per questi c’era, invece, l’inquisizione e quasi sempre il rogo. Cercare le differenze, così come è implicito nel concetto di tolleranza, significa avere paura di riconoscere le affinità: tra chi è malato o folle e me che sono sano; tra chi è delinquente e me che sono onesto; tra chi è invidioso o cinico e me che sono generoso ed eticamente irreprensibile. Cercare nella differenza la colpa o il motivo di una minaccia (non importa che si reagisca con l’eliminazione o con la tolleranza del colpevole) significa sollevare se stessi da responsabilità di qualsiasi natura. Per proteggersi rispetto alla propria scarsa autostima; o per proiettare sull’altro, come avviene in ogni idea di natura razzista, le parti di sé considerate disdicevoli e relegate nelle zone d’ombra della propria interiorità. E’ più semplice e meno oneroso cercare l’altro fuori di sé, sottolineando le differenze, anziché comprenderlo in se stessi, sottolineando le somiglianze.

Accettare l'altro significa ricercare e sottolineare le affinità, non le differenze. Farsi iliberi dal timore dell’altro e della sua differenza significa, quindi, per tutti, poter vivere maggiori possibilità di felicità.

Nelle immagini: Ganimede.



martedì 16 febbraio 2010

Sciacalli

Nei giorni del terremoto che ha colpito L’Aquila c’è stato un gran movimento mediatico dall’alto, per dimostrare efficienza nei soccorsi e nella ricostruzione, nonché umana solidarietà che si è espressa fino alle lacrime. Poiché un sisma in quanto evento naturale non è imputabile a nessuno, con un po’ di fantasia si è cercato di creare un capro espiatorio, forse anche per allontanare le vere responsabilità di costruttori senza scrupoli, di ieri, di oggi e di domani. Si è detto che era in agguato l’immorale ed empia minaccia dello ‘sciacallaggio’ e sono stati presi dei provvedimenti ad hoc per colpire senza pietà chi si fosse macchiato di questo reato. In realtà è dal terremoto di Messina (1908) che in Italia non si registrano episodi diffusi di sciacallaggio. Per quanto mi ricordo, in Abruzzo sono stati arrestati soltanto dei Romeni nei pressi di Onna, processati per direttissima e poi assolti da questa accusa infamante perché risultati non colpevoli.
Oggi dopo le registrazioni telefoniche, dopo lo scandaloso compiacimento di individui senza scrupoli, dopo le risate di chi ha visto nel terremoto un business su cui lucrare, mentre le abitazioni crollavano, cittadini onesti e dignitosi morivano, o restavano feriti, annichiliti dall’angoscia, senza casa, senza persone care, senza più i luoghi del loro quotidiano, delle loro radici, oggi forse abbiamo le idee più chiare su chi fossero gli sciacalli.
Questo riguardo all’umana solidarietà e le lacrime. Per quanto attiene invece all’efficienza e alla ricostruzione, la risposta ce l’hanno data domenica i cittadini dell’Aquila che in una pacifica manifestazione hanno varcato la “zona rossa”, sono cioè entrati nel centro storico della città ancora invaso dalle macerie prodotte dal sisma di un anno fa, esibendo cartelli sui cui si legge: “Riprendiamoci la città” e “Noi non ridevamo”.

sabato 13 febbraio 2010

Chiostri

Monastero di clausura di Santo Spirito, fondato nel XIII° secolo. Ho sempre trovato molto affascinanti i chiostri nella loro ambivalenza: rappresentano una possibile via di fuga, ma anche l’ingresso in uno stato di prigionia; possiamo definirli sia come dentro che come fuori; ci fanno vedere, ma anche ci nascondono; rendono impossibile non essere visti, ma permettono anche di sottrarsi alla vista. Il chiostro di questo convento di clausura è tessuto di giochi di archi, di passaggi, di grate, di pesanti portoni sbarrati, di scuri serrati, di cipressi, di rovi e di muschio. Il colore delle pietre è il giallo caldo del tufo: un colore sensuale che evoca carnalità non represse, odori forti, profumi inebrianti, cibi, bevande, luce, vita e che qui genera un contrasto insopportabile con il senso del luogo (la fuga dalla materialità dell’esistenza che definisce la condizione di clausura) e lo rende particolarmente affascinante. Monache. Donne delle quali mi figuro i silenzi, l’alacrità dei lavori d’ago e dell’impastare i dolci e il pane, le preghiere a ritmare il silenzio della notte, le palpebre abbassate e i corpi diafani ravvolti nelle vesti scure. Mute donne nere che intravedo, in una sorta di rêverie diurna, rasentare attraverso i secoli i muri di corridoi interminabili, con gli occhi bassi, il volto in ombra, il sorriso appena accennato e quasi timoroso di esistere. Non riesco a immaginare scelta di donna più distante dalle mie (e so che forse mi pentirò, tra poco, di quello che sto per scrivere); eppure, ora, mentre cerco di catturare le sensazioni con la macchina fotografica senza riuscire ad accontentarmi dei miei scatti, sono sorpresa da un senso repentino e quasi grottesco di vicinanza che mi possiede tutta. E non posso fare a meno di pensare che noi donne, in qualche modo o in mille diversi modi, siamo ridotte spesso, almeno simbolicamente, al silenzio. E’ il silenzio dei nostri corpi ai quali è vietato invecchiare o farsi di tanto in tanto davvero fragili; è il silenzio delle nostre proteste inespresse che potrebbero risultare tediose o pesanti; è il silenzio, il più crudele di tutti, del nostro inascoltato chiedere di essere guardate così come siamo, senza dover mettere in atto calcoli di seduzione legati all’indulgenza comprensiva, alla sensibilità pietosa e accogliente costi quel che costi e alla cura degli altri disgiunta da quella di sé.

venerdì 12 febbraio 2010

Il concerto



Il potere della musica di unire le persone e le vite più disparate, di riaprire un percorso bruscamente interrotto, di superare le barriere fisiche e mentali che separano i popoli, di legare insieme un passato prigioniero del rimpianto e un presente altrettanto prigioniero di un senso di sconfitta, fino a dare loro una nuova dignità e un nuovo significato. Si ritrova questo, e molto altro, nell'ultimo, bellissimo film dell’autore di Train de Vie, il quale non rinuncia ad alcuni suoi piccoli marchi di fabbrica, come la derisione della patetica rigidità e delle ossessioni proprie degli apparati ideologici (il nazismo del Terzo Reich nella pellicola del ‘98, il comunismo sovietico in questa) e la bonaria ironia sul cliché dell’ebreo furbetto, pervaso fino al midollo da una sorta di insopprimibile furore mercantile. Non manca neppure uno sguardo ammirato sulla gioia di vivere espressa dai nomadi zigani e sul loro efficiente disordine, che salva più volte il protagonista dall’impasse.
Eroe tormentato della storia è un ex direttore d’orchestra russo che, negli ultimi anni dell'URSS di Breznev, viene accusato di 'tradimento del popolo'. La sua notorietà e i suoi successi si arrestano bruscamente e l'artista si ritrova privato della possibilità di proseguire la professione, complice l'ottusa perfidia di un funzionario di partito. Il pretesto che determina l’intervento delle autorità, cioè la critica esplicita che il protagonista aveva osato muovere ai dirigenti del partito, maschera l’invidia che le personalità mediocri e compiacenti con il regime sovietico sembrano nutrire per il talento, pericoloso quando eleva l’artista al di sopra del grigiore imposto per legge e per ideologia. Ai nostri giorni l’ex direttore d’orchestra, nel frattempo retrocesso a inserviente del teatro Bolshoi, viene casualmente a conoscenza di un invito da parte del teatro Chatelet di Parigi per un grande concerto riservato all’orchestra del teatro e, in un folle tentativo di recuperare il tempo perduto, si propone di mettere insieme in pochi giorni un’orchestra formata da sue vecchie conoscenze: lo scopo è quello di condurre i musicisti nella capitale francese e dirigerli nel primo concerto di Chaikovski, lo stesso che aveva segnato la fine della sua carriera.
Il percorso del film si dipana toccando a tratti i limiti del surreale, ma il regista mantiene con discreta abilità un livello di verosimiglianza nel quale è agevole immedesimarsi, in particolare nelle sequenze in cui domina il ricordo tragico delle vicende del passato e nei numerosi momenti in cui entra in gioco il dolore mai sopito, eppure sempre dignitoso, che pervade i principali protagonisti, la cui natura è profondamente russa e, allo stesso tempo, profondamente ebraica. Il dolore è da tutti accettato in silenzio, al pari di una punizione divina incomprensibile e indiscutibile, così come incomprensibili e indiscutibili erano apparse nel passato le ossessioni del regime. E’ proprio il dolore il legame che mostra maggiore forza nell’unire oggi questi russi-ebrei, come aveva unito un tempo i russi-sovietici. Un dolore denso e stratificato, ma ancora passibile di riscatto.
Il film inizia e termina con la musica, parla di musica, è pervaso dal senso di assolutezza dell’esperienza musicale. L’essere umano e le sue attività sono soggette alla legge ineludibile del tempo. Nascono e muoiono le ideologie, i funzionari di partito, i compositori, i direttori d’orchestra, i musicisti. La musica, quel suono che esce dai confini del tempo e conquista all’uomo un angolo di assoluto, resta.

giovedì 11 febbraio 2010

Utopie politiche, sogni e conigli immaginari

“Harvey” è un bellissimo film di Henry Koster del 1950. Non ero ancora nata, all’epoca, dunque l’ho visto solo in televisione e ogni volta ho sentito di amarlo ancor di più della precedente. Il protagonista, Elwood P. Dowd, interpretato da James Stewart, è un uomo dolce, affabile, sensibile e simpatico che afferma di avere come amico un coniglio bianco alto due metri (Harvey) con il quale condivide le passeggiate, la conversazione e ogni altra esperienza. Questa sua bizzarria genera non pochi imbarazzi alla sorella, che di per sé lo accetterebbe anche così com’è se non avesse a che fare con le reazioni degli altri. Elwood viene internato, ma alla fine la sua illusione avrà la meglio e l’amico immaginario apparirà sulla scena dimostrando la propria esistenza allo psichiatra e agli stessi spettatori. Ho amato questo film, molti anni fa, perché parlava in maniera intelligente e tenera allo stesso tempo dell’universo della follia; cioè di qualcosa che non mi riguardava direttamente, ma toccava in maniera molto intensa la mia sensibilità e i miei interessi, allora come oggi. In questi giorni il film mi è tornato alla mente spesso, ma in una luce totalmente diversa. Ripensandolo mi sono detta, infatti, che ciascuno di noi esseri umani, folle o normale (e i normali, forse, più dei folli) ha i propri Harvey: che possono essere gruppi di persone o anche singoli esseri umani. La fiducia nel gruppo di cui si è parte – facciamo il caso, ad esempio, di una formazione di tipo politico – è direttamente proporzionale all’impegno e alle attese che riponiamo nel gruppo stesso rispetto agli obiettivi e agli ideali che ne definiscono l’identità. Quando si fa parte di un gruppo i cui singoli membri sono accomunati da determinati ideali si dà per certo che le loro mosse saranno abbastanza coerenti rispetto ad essi e il contrario ci provoca un’intensa delusione e magari la decisione del distacco. In maniera analoga anche nei confronti di persone che a vario titolo ci sono care noi riteniamo spesso di sapere per certo quali comportamenti metterebbero in atto in determinate circostanze e quali, invece, non potrebbero mai e poi mai appartenere loro. Questo sentimento di certezza ha a che fare con la fiducia e, in ugual misura, con i sogni. E’ ciò che ci permette di lasciarci andare, di allentare le difese, di stabilire territori di intimità ben distinti rispetto a quelli nei quali ci sentiamo soli e incompresi; ma è, nello stesso tempo, ciò che ci rende fragili e dipendenti da coloro che amiamo, dall’immagine che abbiamo di loro che non solo ci piace, ma ci conforta e ci dà certezze e speranze indispensabili per attraversare i marosi della vita senza venirne spazzati via. Capita di rimanere feriti dal comportamento di un gruppo o di una persona inconciliabile con l’immagine che ne avevamo e che ci piaceva, confortava, dava speranze e incrementava la nostra fiducia nell’umanità. Allora, se il dolore è particolarmente intenso e la delusione insopportabile, quando ci sembra di dover ridefinire tutto, i contorni delle cose e di noi stessi tra le cose e la natura, ci chiediamo, anche per il passato, se abbiamo avuto a che fare con persone reali o con amici immaginari da noi stessi creati per poter attraversare il vuoto e la mancanza di senso. Quando questa domanda si affaccia alla nostra coscienza ci lascia scossi e come spersi in un universo che improvvisamente appare immenso e cattivo: un deserto freddo, notturno, senza orizzonti, mentre la sabbia si solleva in rapide spirali di vento e si posa sulla pelle, sui capelli e sulle vesti cancellando le nostre impronte e annullando, così, anche i ricordi più cari. Ma, forse, la domanda che dovremmo porci in questi casi è un’altra e ci viene suggerita dal film stesso il cui protagonista, in una delle scene più toccanti, spiega allo psichiatra che sua madre gli ricordava spesso come nella vita occorra scegliere se essere astuti o amabili e che lui, pur sapendo che sarebbe stato più conveniente farsi astuto, aveva sempre ritenuto preferibile essere amabile.Forse dovremmo chiederci se l’aver creato illusioni di solidarietà e condivisione rispetto a gruppi o a singole persone sia comunque importante. L’illusione, infatti, non è menzogna e inganno, ma testimonianza del nostro poter essere creativi; l’illusione è fatica e costruzione razionale, ma anche, nello stesso tempo, leggerezza e gioco. L’illusione testimonia della soggettività del nostro affidarci ad altri mettendoci anche, talvolta, nelle loro mani e della nostra capacità di credere ai sogni al di là del riscontro, del tornaconto finale, del risultato materiale. Forse dovremmo più semplicemente convincerci che è importante coltivare l’illusione (cioè il sogno) di un’utopia indipendentemente dal suo realizzarsi o meno (come, del resto, vuole la tradizione di questo concetto) e dalle delusioni alle quali, probabilmente, andremo incontro. Perché proprio il nostro non voler rinunciare a sogni e ideali rende la vita degna di essere vissuta.