lunedì 24 maggio 2010

Un premio per «La nostra vita»

Chissà se Pasolini avrebbe apprezzato l’ultimo film di Lucchetti sul neoproletariato, lui che ha teorizzato la mutazione antropologica che, a iniziare dal boom economico, poneva fine al ceto popolare, spazzando via in pochi anni un’etica millenaria, patrimoni di esperienza maturati in armonia con la natura, tradizioni, poesia. È ben vero che non tutto ciò che apparteneva al cosiddetto ‘popolo’ fosse un valore positivo, pensiamo ad esempio all’ignoranza, alle superstizioni, ai pregiudizi, che costituivano un terreno ben fertile per ogni assurda bestialità o caccia alle streghe. Tuttavia il paragone con l’oggi, con una minaccia di distopia incombente, di società fittizia, schizofrenica e deprivata di ogni umanità, senza dubbio presta il fianco a qualche tentazione di rimpianto.
Di sicuro a Cannes è piaciuta l’interpretazione di Elio Germano, al quale è andato a buon diritto il titolo di miglior attore. È un giovane operaio edile romano, che lavora “in nero”, come sembra sia usuale in questo ambiente (e anche in molti altri). Sposato con due figli piccoli e in attesa del terzo, appare abbastanza appagato dalla sua famiglia, dal rapporto con la moglie e di certo non coinvolto da questioni socio-politiche relative alla sua condizione, al suo ceto… A ben pensarci forse non è solo dei nostri quest’assenza di coscienza di classe, come si diceva un tempo. L’aspirazione, tra chi nasce nel ceto popolare, a compiere una scalata verso il benessere e la “rispettabilità” è cosa antica. Vengono in mente i noti personaggi di una novella e di un romanzo di Verga: Mazzarò, il protagonista de “La roba” e Mastro don Gesualdo che dà il titolo al libro. Entrambi di umili origini, dopo una vita di sacrifici disumani, conquistano una solida posizione di benessere economico, ma per entrambi, secondo il loro demiurgo, si prospetta una fine di solitudine e dolore. Proprio negli anni in cui Verga scriveva i suoi capolavori in Italia si diffondevano gli ideali marxiani, secondo i quali il povero non avrebbe più dovuto cercare di arricchirsi (del resto impresa disperata se condotta con metodi onesti), ma il suo compito sarebbe stato di creare una società di eguali e liberi, senza più sfruttati né sfruttatori. Ora viene da chiedersi: c’è mai stata realmente la coscienza di classe? Era effettivamente diffusa in tutti gli ambienti popolari della penisola? Oppure se ne parlava tanto perché se ne erano appropriati la cultura di sinistra e i mass-media vecchi e nuovi? Se ci fosse stata davvero si sarebbe potuto affermare il fascismo?... Personalmente non so dare una risposta, almeno per ora, dunque torno alla «nostra vita», alla contemporaneità, dove i soldi sono l’unico risarcimento possibile ad ogni dolore, per ogni ingiustizia. Soldi per comprare beni di consumo nei centri commerciali, per compensare la perdita di una moglie e di una madre. E in effetti, mai come oggi, nel nostro paese i soldi appaiono al primissimo posto: in tutte le professioni la priorità viene data al profitto anziché al servizio reso al prossimo tramite il proprio lavoro oppure al riconoscimento che ci deriva dall’aver svolto al meglio il nostro compito: come sembrano lontane le parole di Marx sull’alienazione dell’operaio rispetto all’artigiano che può cogliere il senso del suo lavoro e la gratificazione che ne deriva. Nel film di Lucchetti sono i rumeni a fare la morale, sono loro che verosimilmente vestono i panni della vecchia classe popolare che Pasolini vedeva tragicamente dissolversi: a voi italiani più che possederli realmente piace di far vedere che avete i soldi. E altre considerazioni sull’apparire e il valore dell’amicizia, dei sentimenti, di tutto quello che non può essere comprato. Apprezzabile che si cerchi di alleggerire il pregiudizio che grava sui rumeni, ma attenzione a non scivolare nel preconcetto opposto.

domenica 23 maggio 2010

Ironia, realtà, tasse e balzelli: gli inganni della comunicazione


Nel 1729 il grande scrittore Jonathan Swift scrisse, com’è noto, un opuscolo provocatorio e pungente intitolato “Una modesta proposta: per evitare che i figli degli Irlandesi poveri siano un peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli un beneficio per la comunità: quella di ingrassare i bambini degli irlandesi poveri per nutrire i ricchi proprietari terrieri”. I vantaggi di tale proposta sarebbero stati molteplici: una piccola rendita per i genitori dei bambini denutriti, fatti ingrassare e venduti a partire dall’età di un anno, il miglioramento dell’alimentazione dei ricchi e l’eliminazione in un sol colpo di sovraffollamento, disoccupazione e fame. Senza contare i vantaggi etico-morali: un incoraggiamento al matrimonio, l’aumento della cura delle madri per i bambini, un’onesta competizione fra le donne sposate nel portare al mercato il bambino più grasso e una maggiore considerazione da parte dei mariti nei confronti delle mogli in gravidanza alle quali sarebbero stati affezionati come alla cavalla o alla mucca o alla scrofa in procinto di figliare e che avrebbero trattate con riguardo, invece di minacciarle con pugni e calci, per paura di provocare un aborto. La lettura risulta ancora molto divertente - per quanto amara - con le statistiche improbabili e i suggerimenti grotteschi: per esempio sui possibili prezzi, ma anche sui modi di cucinare i bambini poveri, rosolando o stufando i più piccoli, più buoni e più nutrienti. Ci fu, tuttavia, all'epoca, anche chi non capì il carattere satirico della provocazione e questo fatto, naturalmente, ci genera una certa inquietudine nel riflettere sulla natura umana; ma sappiamo che si trattò di alcuni pochi... Mi sembra che oggi, invece, in questo paese, risulti sempre più difficile per la maggior parte delle persone distinguere tra realtà e simulazione ironica o satirica. Un paio di sere fa, mangiando in fretta perché in ritardo, ma con l’orecchio direzionato, sia pure distrattamente, verso il telegiornale, sono stata colpita dal tono spensierato, lieve e leggero, caratterizzato da una prosodia tutta ascendente e giuliva, con il quale il giornalista elencava gli imminenti tagli (pensioni, sanità, invalidi...). L’incongruenza tra la drammaticità di ciò che comunicava e il tono utilizzato per farlo mi ha fatto pensare, per una manciata di secondi (ascoltavo distrattamente, l’ho premesso), che potesse trattarsi di uno scherzo, di una parodia di telegiornale nell’ambito di qualche trasmissione di intrattenimento. Sono poi uscita, ma di tanto in tanto mi tornava alla mente l’episodio e continuavo a pensare a come avessi potuto scambiare un vero telegiornale con una caricatura satirica. La spiegazione risiede probabilmente nel fatto che la realtà sta rapidamente sovrapponendosi a ogni più inimmaginabile fantasia relativa alla catastrofe etica e culturale (oltre che, naturalmente, socio-economica e politica) della quale siamo vittime. La maggior parte delle persone che hanno ascoltato quel telegiornale, disabituate al dubbio e all’approfondimento critico, ingannate dalla suadente e rassicurante, per quanto incongrua, prosodia dell’annuncio, saranno cadute in un errore interpretativo ben più tragico del mio. Avranno inteso che per fortuna, attraverso quei tagli, si risolverà tutto quanto e che dunque ci sarebbe da festeggiare piuttosto che da preoccuparsi. Tanto più che anche i parlamentari saranno soggetti a misure analoghe, come annunciava la solita voce spensierata e ancor più leggera. Lo stupore di fronte a questo annuncio ha avuto, nel mio caso, la durata di un battito di ciglia: figurarsi, si tratta solo del 5 per cento dei loro stipendi!
La voce giuliva del giornalista lo è diventata ancora di più nel proseguire con la promessa paternalista e populista di non far pagare ulteriori tasse agli italiani! Come se tutti pagassero le tasse! Come se le tasse fossero proporzionalmente distribuite! Questo fomentare l’odio per le tasse è quanto di più amorale si possa concepire in tempi difficili, dato che le tasse (quelle dirette ed equamente modulate in relazione al reddito, naturalmente) rappresentano il segno tangibile del sentirsi parte di una comunità e del mostrarlo anche con un contributo economico (proporzionato alle proprie condizioni) atto a rendere alto il livello etico e politico di tale comunità stessa permettendole di farsi carico dei propri membri più fragili e indifesi. il senso della comunità e la capacità di essere solidali è quanto di più prezioso possa definire un'identità.