lunedì 25 aprile 2011

Chissà dov’ero quel 25 aprile

Dopo le polemiche che hanno accompagnato la celebrazione dell’Unità d’Italia, anche la festa nazionale del 25 aprile, data simbolo di libertà e democrazia viene messa in discussione da chi, a quanto sembra, non si riconosce nei valori della Resistenza e verosimilmente in quelli della Costituzione. In questo giorno non si commemora soltanto la vittoria della Resistenza, della libertà contro il totalitarismo ma anche la fine di un conflitto mondiale che ha distrutto il nostro paese e ha causato decine di milioni di morti, e un’infinità di vite offese nel corpo e nella mente, che hanno lasciato un’eredità di dolore oltre la loro fine. Il 25 aprile è anche una festa della pace.
Lasciamo la parola a un testimone che disse uno di quei numerosi no senza clamori, rimasti sottaciuti per molti anni.




Chissà dov’ero quel 25 aprile


Oggi, dopo aver consultato un libro, Bomben auf Graz, acquistato in quella città tre anni or sono, presumo che fossimo lì giunti la sera del 2 aprile, poco dopo il cinquantunesimo attacco aereo angloamericano, che fu il più drammatico. Ci misero subito a sgombrare macerie finché venne buio.
Nostri nuovi angeli custodi erano delle SS ungheresi, arrivate fino in Stiria sotto l’incalzare dell’Armata Rossa. Furono i peggiori, i più bestiali uomini che mi fu dato di incontrare.
Durò così per giorni: a sgomberare macerie di giorno e di notte rinchiusi in un Lager alla periferia della città. […]
Quando l’allarme capitava di giorno, allora ci cacciavano con urla e bastonate verso le gallerie scavate sotto il castello, le Schlossbergstollen, nel cuore della città. Era lì sotto che si erano trasferiti per sopravvivere migliaia di cittadini portandosi le cose più essenziali: qualche materasso, coperte, pentole, patate, acqua. Donne, bambini, vecchi. Una silenziosa umanità dolente che aspettava la fine della guerra, nel cuore maledicendo il Führer Adolf Hitler.
Un giorno stavo scavando e mi si avvicinò un signore anziano e canuto. Osservava con insistenza il mio cappello d’alpino. La mattina dopo mi ritrovò e mi porse una fetta di pane nero. Mi disse anche che a Vienna erano arrivati i russi e che lui, nel 1917, aveva combattuto sull’Altipiano contro gli alpini del mio reggimento. Così gli dissi di dov’ero. Lui mi consigliò di andare via, di scappare, che la guerra stava per finire.
Quando questo accadeva non posso sapere che giorno fosse. Era il 22 aprile? Leggo sempre su questo libro, Bomben auf Graz, che il 27 aprile tra le nove e le dieci del mattino ci fu l’ultimo attacco aereo e io, questo sì lo ricordo, non c’ero. I russi erano arrivati a Vienna il 13 aprile e da qui dilagavano per l’Austria. Ma io camminavo verso casa. A baita. Come avevo camminato in Russia e in tanti altri posti d’Europa. Sarebbe stata l’ultima marcia forzata? Andavo lentamente, guardingo, magro, affamato, come un cane randagio. Ma andavo. Anche se sentivo la febbre. Ancora un passo dopo l’altro.
Ma quel 25 aprile del 1945, dov’ero? Quel tempo cerco di ricostruirlo guardando una carta geografica, calcolando il mio passo. Quanti chilometri potevo fare in quelle condizioni tra quelle montagne?
Certamente ero leggero, non dovevo consumare tante energie per portare avanti un corpo così magro. Anche se le calorie a disposizione erano molto poche potevo fare trenta chilometri al giorno. Tra le macerie di Graz, rischiando di essere ucciso sul posto da una fucilata, potevo mandar giù qualcosa e così, pensando al peggio, mi ero fatto una piccola riserva di pane. Camminando e riposando nel bosco accompagnavo qualche pezzetto di pane con germogli d’alberi ed erbe commestibili.

Mario Rigoni Stern

giovedì 21 aprile 2011

Habemus papam

Senza scivolare nella retorica dell’apocalisse, l’ultimo racconto filmico di Nanni Moretti sembra volerci comunicare la fine di un’età, una svolta epocale che ci sospinge nel baratro che i nostri occhi rifiutano di vedere.
La vicenda è attraversata da un’insanabile perdita di senso, dall’ impossibilità di risollevarsi e di rianimare usi, credenze, istituzione che sono giunte al capolinea.
L’incarico di riportare le cose entro il loro presunto alveo naturale viene affidato ad un accreditato psicanalista, che piuttosto prevedibilmente dopo poche scene dimostrerà di essere disturbato almeno quanto chi dovrebbe essere da lui risanato.
La tradizione è slegata dalla realtà di oggi e le reazioni degli eminenti depositari del passato nonché eredi dell’autorità spirituale e temporale, reagiscono con una regressione all’infanzia. Per chi non può o non vuole guardare dentro e fuori di sé con occhi disincantati, l’unica via d’uscita per non impazzire sembra essere la fuga dalla propria maschera. Riassaporare gesti semplici come una passeggiata solitaria per le vie cittadine, o ripercorrere il passato incontrando le proprie origini e il rimpianto soffocato da strati di tempo e di oblio per desideri non realizzati, per antichi sogni dell’infanzia e dell’adolescenza.
Il neopontefice è un anziano infante soffocato nel suo dissonante vagito di angoscia, che non vuole vedere la luce. E il popolo di fedeli, suore, frati, porporati da ogni angolo del pianeta, siamo noi tutti, che continuiamo ad avere bisogno di una guida che ci rassicuri, ci garantisca che tutto va bene, che tutto è come sempre, che non ci obblighi a guardare i cambiamenti nella loro crudezza e destabilizzante complessità. Ma prima o poi anche chi ha per tradizione il compito di rassicurare, se il suo ruolo non è più autentico in rapporto ai mutamenti, è destinato ad essere spazzato via dagli eventi esterni o da irrimediabili crisi dell’anima.