
Ieri mi aggiravo in un mercatino di antiquariato di quelli che offrono oggetti accessibili anche per tasche meno fornite. Non ci vado per comprare, anche se qualche volta mi capita, soprattutto in relazione a piccoli cose: una penna, una tazzina, al massimo una lampada. Mi piace, invece, carezzare gli oggetti con lo sguardo o posarvi la mano; è come se sentissi il senso delle cose perdute e il mio sguardo carezzevole dotasse per qualche secondo di vita ciò che appartiene – cose e persone – al passato. Vecchie cartoline e foto sono quanto, di solito, mi attrae di più. E poi le macchine da scrivere, gli orologi da panciotto, i servizi di spazzole e pettini che le signore e signorine tenevano nella loro specchiera, le borsette da sera o i giocattoli di una volta. E’ un po’ come prendere confidenza con la perdita, o con la morte; e attraversarle per poi sentirsi ancora più in grado di apprezzare le cose buone del mondo e soprattutto quelle che non hanno un valore in termini di denaro: come un sole primaverile capace di sorprenderti in un autunno piovoso che è già quasi inverno.
Sempre ieri, in un secondo momento, mi è capitato di discutere di come alcune persone tendano più di altre a non voler vedere i lati negativi, o inquietanti, o struggenti di quanto le circonda. Si potrebbe quasi dire che questo è un discrimine che separa in due grandi schiere gli esseri umani; ma anche una variabile che a seconda del grado con il quale si presenta ci rende differenti gli uni dagli altri definendo le diverse personalità di ciascuno. Niente a che fare con ottimismo o pessimismo, credo; è piuttosto l’abitudine alla censura, l'accettarla e l'utilizzarla come una sorta di difesa. Così, per abitudine, si è finito negli ultimi decenni per censurare gradualmente la tristezza, il dolore e persino la morte. I bambini, ormai, crescono lontani dai luoghi che ce ne ricordano l’esistenza e non solo i cimiteri, ma persino gli ospedali sono loro interdetti. Ci si stordisce in qualche modo e li si stordisce, rendendoli fragili e dipendenti da un’idea di felicità ad ogni costo e intesa come condizione permanente; rendendoli incapaci di comprendere il nodo inestricabile che tiene insieme felicità e tristezza, vuoto e pieno, solitudine e relazionalità; perfetti, dunque, per quella fatica di Sisifo alla quale ci si sottopone: il consumo sfrenato anche di ciò di cui non avremmo bisogno, credendo, così, di colmare un vuoto che non sappiamo attraversare. Del resto è già iniziato il rito di compra-vendita che precede, snaturandola, l'imminente ricorrenza natalizia.