martedì 16 aprile 2013

Il pianto muto della gru


                                                                                                                 14 aprile 2013

Come discernere il pianto della gru
nei cantieri che annaspano la crisi
e derubano ancora squarci
allo stremato verde suburbano
che pure implica tracce
e semi di vita e prospettiva.

Mute impalcature domenicali
nel sole d’aprile, esondano
ferri e sudore di fabbri,
lattonieri e fabbriche, laterizi
pozzolane, argille calcinate,
legni sagomati di carpentieri.

Dove molecola vitale
nell’ondivago inerte vagare
di macchine d’asfalto
si posa a riscuotere affetti
e legittima senso all’esistere?
È l’incessante ciangottìo
dei pulcini di merlo o cardellino
o passero, che ancora invade
ariosa la scena di primavera?

Sento ora nei versi che in presa
diretta si compongono
di amare tutti voi sconosciuti
che mi attorniate, anche voi
anziani alla finestra, ai veroni
nelle inflessioni dialettali
che destano conforto, esseri
senzienti o cose in parvenza
inanimate, e mi commuovo alle lacrime
senza vergogna ma dubitando
di essere per un momento folle o di avere
lambito un momento
di fusione col mondo
che chiamano i buddha nirvana.

Il cantiere a riposo richiama
il vecchio pianto della scavatrice
immortale in poesia germogliato
nella Roma di metà Cinquanta
svicolata dal nostro tempo eppure
inquieta e avida, nel mutamento analoga
alla presente crisi di futuro
che in labirinti di perdizione
infonde ansia da competizione
negli alunni-studenti che ambiscono
dogmatici dieci o trenta e lode
senza passione ignari del piacere
appagante del tempo votato allo studio
che diletta e ci colma la vita
e da solo gratifica l’uomo
senza il peso di esiti al top.
Altri allievi reagiscono al caos
di rovinose afose sfide
rifiutando lo studio e fiutando
nell’ozio picaresche soluzioni
coniugando passivi bagordi
a giustifiche astute, a rinvii
senza lumi di rivalsa vivendo
nel carpe diem, dileggiando
il docente e la scuola
segmenti di stolido ozio.

Come ignorare la banale
barbarie nei baratri di decadenza
dove almeno dai Fiori di Baudelaire
si balocca incredulo il West,
aggravati da inaudite iniquità
da colossali forbici
a segnare il divario tra il ricco
e chi muore di fame o vergogna.

Attivando di nuovo lo sguardo
sul cantiere silente di aprile

ci si chiede chi è che si giova
delle esose dimore che presto
la gru nel suo pianto perduto
nella crisi che sbrana cristiani
si convince straniata a ultimare.

(Enrico Meloni)




 

lunedì 25 aprile 2011

Chissà dov’ero quel 25 aprile

Dopo le polemiche che hanno accompagnato la celebrazione dell’Unità d’Italia, anche la festa nazionale del 25 aprile, data simbolo di libertà e democrazia viene messa in discussione da chi, a quanto sembra, non si riconosce nei valori della Resistenza e verosimilmente in quelli della Costituzione. In questo giorno non si commemora soltanto la vittoria della Resistenza, della libertà contro il totalitarismo ma anche la fine di un conflitto mondiale che ha distrutto il nostro paese e ha causato decine di milioni di morti, e un’infinità di vite offese nel corpo e nella mente, che hanno lasciato un’eredità di dolore oltre la loro fine. Il 25 aprile è anche una festa della pace.
Lasciamo la parola a un testimone che disse uno di quei numerosi no senza clamori, rimasti sottaciuti per molti anni.




Chissà dov’ero quel 25 aprile


Oggi, dopo aver consultato un libro, Bomben auf Graz, acquistato in quella città tre anni or sono, presumo che fossimo lì giunti la sera del 2 aprile, poco dopo il cinquantunesimo attacco aereo angloamericano, che fu il più drammatico. Ci misero subito a sgombrare macerie finché venne buio.
Nostri nuovi angeli custodi erano delle SS ungheresi, arrivate fino in Stiria sotto l’incalzare dell’Armata Rossa. Furono i peggiori, i più bestiali uomini che mi fu dato di incontrare.
Durò così per giorni: a sgomberare macerie di giorno e di notte rinchiusi in un Lager alla periferia della città. […]
Quando l’allarme capitava di giorno, allora ci cacciavano con urla e bastonate verso le gallerie scavate sotto il castello, le Schlossbergstollen, nel cuore della città. Era lì sotto che si erano trasferiti per sopravvivere migliaia di cittadini portandosi le cose più essenziali: qualche materasso, coperte, pentole, patate, acqua. Donne, bambini, vecchi. Una silenziosa umanità dolente che aspettava la fine della guerra, nel cuore maledicendo il Führer Adolf Hitler.
Un giorno stavo scavando e mi si avvicinò un signore anziano e canuto. Osservava con insistenza il mio cappello d’alpino. La mattina dopo mi ritrovò e mi porse una fetta di pane nero. Mi disse anche che a Vienna erano arrivati i russi e che lui, nel 1917, aveva combattuto sull’Altipiano contro gli alpini del mio reggimento. Così gli dissi di dov’ero. Lui mi consigliò di andare via, di scappare, che la guerra stava per finire.
Quando questo accadeva non posso sapere che giorno fosse. Era il 22 aprile? Leggo sempre su questo libro, Bomben auf Graz, che il 27 aprile tra le nove e le dieci del mattino ci fu l’ultimo attacco aereo e io, questo sì lo ricordo, non c’ero. I russi erano arrivati a Vienna il 13 aprile e da qui dilagavano per l’Austria. Ma io camminavo verso casa. A baita. Come avevo camminato in Russia e in tanti altri posti d’Europa. Sarebbe stata l’ultima marcia forzata? Andavo lentamente, guardingo, magro, affamato, come un cane randagio. Ma andavo. Anche se sentivo la febbre. Ancora un passo dopo l’altro.
Ma quel 25 aprile del 1945, dov’ero? Quel tempo cerco di ricostruirlo guardando una carta geografica, calcolando il mio passo. Quanti chilometri potevo fare in quelle condizioni tra quelle montagne?
Certamente ero leggero, non dovevo consumare tante energie per portare avanti un corpo così magro. Anche se le calorie a disposizione erano molto poche potevo fare trenta chilometri al giorno. Tra le macerie di Graz, rischiando di essere ucciso sul posto da una fucilata, potevo mandar giù qualcosa e così, pensando al peggio, mi ero fatto una piccola riserva di pane. Camminando e riposando nel bosco accompagnavo qualche pezzetto di pane con germogli d’alberi ed erbe commestibili.

Mario Rigoni Stern

giovedì 21 aprile 2011

Habemus papam

Senza scivolare nella retorica dell’apocalisse, l’ultimo racconto filmico di Nanni Moretti sembra volerci comunicare la fine di un’età, una svolta epocale che ci sospinge nel baratro che i nostri occhi rifiutano di vedere.
La vicenda è attraversata da un’insanabile perdita di senso, dall’ impossibilità di risollevarsi e di rianimare usi, credenze, istituzione che sono giunte al capolinea.
L’incarico di riportare le cose entro il loro presunto alveo naturale viene affidato ad un accreditato psicanalista, che piuttosto prevedibilmente dopo poche scene dimostrerà di essere disturbato almeno quanto chi dovrebbe essere da lui risanato.
La tradizione è slegata dalla realtà di oggi e le reazioni degli eminenti depositari del passato nonché eredi dell’autorità spirituale e temporale, reagiscono con una regressione all’infanzia. Per chi non può o non vuole guardare dentro e fuori di sé con occhi disincantati, l’unica via d’uscita per non impazzire sembra essere la fuga dalla propria maschera. Riassaporare gesti semplici come una passeggiata solitaria per le vie cittadine, o ripercorrere il passato incontrando le proprie origini e il rimpianto soffocato da strati di tempo e di oblio per desideri non realizzati, per antichi sogni dell’infanzia e dell’adolescenza.
Il neopontefice è un anziano infante soffocato nel suo dissonante vagito di angoscia, che non vuole vedere la luce. E il popolo di fedeli, suore, frati, porporati da ogni angolo del pianeta, siamo noi tutti, che continuiamo ad avere bisogno di una guida che ci rassicuri, ci garantisca che tutto va bene, che tutto è come sempre, che non ci obblighi a guardare i cambiamenti nella loro crudezza e destabilizzante complessità. Ma prima o poi anche chi ha per tradizione il compito di rassicurare, se il suo ruolo non è più autentico in rapporto ai mutamenti, è destinato ad essere spazzato via dagli eventi esterni o da irrimediabili crisi dell’anima.

giovedì 31 marzo 2011

Discreto disastro, Tripoli 1911-2011




filastrocca improvvisata


Discreto disastro

sul mare alabastro


insane insolvenze

inani insolenze

colonia fugace

e nubi di pace

ritorna l’orrore

nel “suol dell’amore”

chi ieri era santo

è un bieco tiranno

adesso che l’onde

cavalcano sorde

superbo stantìo

sistema: l’oblìo

per gli umili oppressi

bugie compromessi

e bombe bollenti

su chi ha giacimenti.

Cent’anni di niente?

trasmuta il potente?


Discreto nerastro

nel mare disastro.


(enrico meloni)

sabato 1 gennaio 2011

RaiScuola e BBC World News: chi li ha visti?



Non so se vi siete accorti che Rai Scuola nel corso del 2010 è sparita fra i canali della Rai digitale. Rai Scuola offriva, con mezzi molto modesti, a tutti coloro in grado di sintonizzarsi, la possibilità di arricchire il proprio bagaglio di conoscenze. In particolare agli esclusi, alle fasce sociali più deboli (analfabeti di ritorno, anziani, immigrati ...) comprese le vittime, spesso innocenti della cosiddetta dispersione scolastica. Ragazzini che a causa di gravi problemi familiari, bullismo, malattie rinunciano a frequentare o collezionano un pesante numero di assenze. Dava anche la possibilità di apprendere l'inglese a chi non può permettersi si pagare un corso o di soggiornare all’estere. L’inglese ci rende meno soggetti al localismo, è la lingua che ci consente di dialogare con il mondo, e di sapere, ad esempio come il mondo vede l’Italia e quello che sta accadendo nel nostro paese.
La conoscenza dell’inglese ci consentiva anche di seguire i programmi di BBC World News, che da novembre sono spariti dal digitale terrestre. Per quale ragione? Su un articolo in rete si legge che «BBC World News era nel pacchetto Mediaset 2, quello che comprende i maggiori canali dell'azienda, quindi il motivo della sparizione del canale è da ricercarsi nei rapporti tra l'emittente britannica e Mediaset.» Qualche inguaribile malizioso sostiene che l’assenza dell’emittente inglese sia dovuta ad alcuni servizi che non hanno messo in buona luce il nostro premier. Comunque sia l’assenza di questa emittente impoverisce il panorama dell’offerta del digitale terrestre molto popolato da banalità e business.
Per l’anno appena nato auspico che i suddetti canali (magari Rai Scuola con più risorse e meno programmi pseudo-burocratici) tornino a farsi vedere nel digitale terrestre nazionale, che è stato avviato così sbrigativamente in mezza Italia (l’altra metà a breve) per garantire, almeno negli intenti, ai cittadini pluralismo e democrazia nell’informazione e non per consolidare monopoli e privilegi.

(Augurando a tutti un buon anno, auspico che anche altri vogliano auspicare qualcosa.)

sabato 20 novembre 2010

Come perdere le elezioni con il marketing politico

Alcuni manuali sottolineano con enfasi l’importanza del marketing politico nel determinare l’esito vittorioso delle campagne elettorali e nel garantire il consenso. Ci sono testi che lo evidenziano fin dal titolo, come il volume Winning Elections with Political Marketing, curato da Philip John Davies e Bruce I. Newman, oppure il saggio (E)lezioni di successo di Cattaneo e Zanetto, che si presenta esplicitamente come manuale di marketing politico. Sorvolando sulla complessità della questione, che a rigore impedirebbe di guardare al marketing politico come unica condizione determinante, per quanto influente, sull’esito delle elezioni, suggeriamo di ribaltare il punto di vista. Nel corso degli ultimi anni, ho raccolto abbastanza materiali per scrivere un libro che si potrebbe intitolare COME PERDERE LE ELEZIONI CON IL MARKETING POLITICO.

Oggetto d’indagine sarebbe, principalmente, la storia di partiti e candidati politici che si sono detti in vario modo, con maggiore o minore convinzione, “di sinistra”. Per comprendere la natura del problema, dobbiamo intrecciare due storie: quella del marketing politico – che ha radici negli anni Cinquanta ma si sviluppa sensibilmente in Europa a partire dalla fine degli anni Settanta – e quella dell’evoluzione dei principali partiti verso la forma del “partito pigliatutto”, ovvero di un partito fondato non più su visioni d’insieme della società umana e del “vivere bene”, ma sull’opinione di volta in volta prevalente nei sondaggi.

Ci si è inizialmente affidati al marketing e alle tecniche dell’advertising per affrontare i format e gli stili comunicativi imposti dalla televisione – sviluppando le precedenti tecniche di “propaganda” – e, soprattutto negli anni Novanta, per compensare il deficit di legittimazione della classe politica e l’incapacità di elaborare narrazioni e visioni del mondo su cui confliggere e cercare consenso.

Affidandosi al marketing politico, in occasione degli appuntamenti elettorali e durante le “campagne permanenti” tra un’elezione e l’altra, l’arcipelago delle “sinistre” italiane ha finito col cadere spesso in alcuni frames della destra, anzitutto nel frame dei frames della destra: quello della comunicazione politica spettacolarizzata, incentrata sul leader telegenico e su altri personaggi mediaticamente visibili. Il sondaggio, lo slogan, il maquillage ed il collage dei simboli sono diventati aspetti cruciali su cui concentrarsi, accettando come tendenza irreversibile quella della “politica pop”. Tutto questo – e non il solo Berlusconi col suo seguito – è il berlusconismo.

È nella logica del “partito pigliatutto” il tentativo di stare sia a sinistra che al centro. Se si sceglie questa opzione, a definire l’equilibro migliore non potrà che essere, di volta in volta, l’ultimo sondaggio e, possibilmente, la disponibilità di un leader al tempo stesso capace di entusiasmare e di accomodare. Ecco che la disperata ricerca di un leader dalla doppia personalità – abbastanza di sinistra e abbastanza di centro – prevale sulla preoccupazione per idee nette sulle relazioni sociali, sui diritti, sull’ambiente, sull’eguaglianza, sulla differenza, sulla laicità, sul merito e così via. Si arrivano a preferire imprenditori o personaggi mediatici, che poi si dichiarano “trascinati” in politica, a tante donne ed uomini che sono cresciuti impegnandosi socialmente e politicamente.

Chi ha preteso di collocarsi in una posizione di sinistra “autentica” e non disposta a compromessi, è stato altrettanto cedevole nei confronti dei frames della “politica pop”. Perciò si è arrivati a paragonare a Barack Obama una Vladimir Luxuria vittoriosa all’Isola dei Famosi, sognando di tradurre i televoti in voti. Un caso di studio singolare è rappresentato dal simbolo con cui, durante una campagna elettorale, il Partito della Rifondazione Comunista di Paolo Ferrero e quello dei Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto hanno segnalato la propria disponibilità ad unirsi elettoralmente: nella cornice del simbolo, oltre a “Socialismo 2000”, “Sinistra europea”, “GUE/NGL”, compariva la denominazione “Consumatori uniti”. Merita un approfondimento il fatto che in un Paese così ricco di idee da elaborare due varianti del comunismo, talmente definite da dividersi in due partiti distinti (per quanto elettoralmente unibili), ci si presenti come comunisti e come consumatori uniti. Meriterebbe un saggio a parte lo scivolamento d’accento così esibito, dal lavoro e dal vecchio appello all’unione dei lavoratori al consumo e all’unione dei consumatori.

La storia degli ultimi anni insegna che concentrarsi solo sul packaging non premia. Non si può certo prescindere, con un esame di realtà, dal tener conto dell’evoluzione delle piattaforme mediali e dagli stili comunicativi che esse, per certi versi, impongono. Ma il lavoro sui frames e sulle parole chiave non può prescindere da quello sui contenuti e sulla riapertura di spazi pubblici, in cui confliggere sulle idee e sulle proposte. Concentrarsi sul packaging produce disaffezione in chi sarebbe più disposto a “prender parte” e ad impegnarsi. La storia degli ultimi anni insegna che, se anche il marketing politico può aiutare a vincere le elezioni, non basta a far durare un governo per un’intera legislatura e, soprattutto, non basta a fare davvero politica.

domenica 24 ottobre 2010

Miseria culturale e macabri gitanti

“Quando l’unico imperativo di una società è quello che la chiama a godere, ciò di cui si finisce inevitabilmente per godere è la crudeltà.” È una frase del filosofo Alain Badiou, citata giorni fa da Antonio Scurati in un suo intervento a Parla con me. La prima associazione che viene di fare è probabilmente quella con l’antica Roma e gli spettacoli di fiere e gladiatori, e poi la guerra, dove tutto è concesso, e dunque sembra lo sbocco ideale, fisiologico di una società avviata a godere della crudeltà. Ma nell’impero romano i valori erano ben diversi da quelli di oggi e la guerra di conquista era il motore primo che muoveva l’economia, la politica, su di essa Roma aveva fondato la propria esistenza: dopo aver conquistato tutto il conquistabile iniziò il suo declino. Tuttavia la crudeltà fine a se stessa non giova neanche a una conduzione razionale della guerra, perché non è producente fare azioni che non convengono all’economia bellica, soprattutto nella fase in cui si devono gestire i popoli assoggettati. E difatti (secondo un’antica tradizione storiografica) la decadenza di Roma fu causata anche dalla corruzione dei costumi.
Venendo al nostro tempo, alla morbosa attenzione che circonda certi episodi di cronaca nera e in questi giorni i fatti di Avetrana, penso che non poche responsabilità siano da attribuire a persistenti politiche volte all’impoverimento culturale del paese. Le gite macabre nel luogo del delitto avvengono come se si andasse a visitare il sito dove fu bruciata Giovanna D’Arco o lasciata morire d’inedia Pia de’ Tolomei o decapitata Beatrice Cenci. È mai possibile che si confonda così facilmente, in un modo becero e insieme disarmante e inquietante la storia con l’attualità. I genitori che mostrano ai figli piccoli la scena del delitto, riportano alle mente le pubbliche esecuzioni di epoche pre-illuministiche o quelle delle mafie. Sarà forse colpa dell’appiattimento sensazionalistico di certa TV, che ha (mal)educato gli spettatori a seguire eventi storici non per conoscere il passato (come si vorrebbe dare a intendere) ma per un banale appagamento di inclinazioni pruriginose o – molto peggio – di pulsioni di crudeltà.
Forse si è manifestato qualcosa già latente da tempo, forse si può ipotizzare la seguente equazione: i gitanti del macabro stanno all’imbarbarimento del costume degli italiani come le torri gemelle stanno al mutamento degli equilibri internazionali. Sta di fatto che il sindaco di Avetrana ha dovuto proibire con un’ordinanza il pellegrinaggio presso le abitazioni dei parenti della vittima, e non ricordo che ci siano precedenti del genere a seguito di simili episodi di cronaca nera di ambito familiare.
Per par condicio si potrebbe chiedere al Presidente della Repubblica di promulgare un’ordinanza simbolica che abolisca tutte le trasmissioni che speculano su questi disgraziati casi, facendo sentire il morboso spettatore dalla parte del bene perché a commettere azioni empie che tanto seducono la sua attenzione, sono sempre gli altri, veri o presunti colpevoli poco importa. È vero che molte persone tendono ormai a confondere la realtà con la finzione, poiché in televisione da alcuni anni il reality è fiction e la fiction è reality; come è vero che simili spettacoli consentono a milioni di spettatori nascosti nelle proprie confortevoli abitazioni, di fare quello che centinaia o migliaia di gitanti hanno fatto e (verosimilmente) continueranno a fare sotto gli occhi di tutti.

martedì 19 ottobre 2010

un mattone da sogno

So che molti non saranno d’accordo ma preferisco non tacere: Inception, checché ne abbia detto la critica, su di me che non sono un fan del genere videogame tecnologico e che dunque non so apprezzare il prodigio di simili artifici visivi, ha avuto l’effetto di una mattonata. La continua intrusione nei sogni altrui per dirottarli a tutto vantaggio di operazioni di spionaggio industriale, mi ha dirottato verso Shutter Island (sempre con Di Caprio) e Avatar (che ho trovato più ‘umano’ e coinvolgente) e poi Matrix (certamente di un altro spessore) che forse è la madre di questo recente filone cinematografico che mette in dubbio la realtà e le sue certezze. Sembra quasi che a fronte dei cambiamenti, della caduta dei valori, dell’ipocrisia destabilizzante, l’inquietudine sia tale che si cerchi rifugio nel sogno: niente paura se va tutto alla deriva, la vera realtà è ben riposta nei nostri sogni.

Probabilmente anche il successo delle saghe filo-vampiresche deriva dalla medesima radice: un bisogno di evasione da una realtà che non corrisponde alle aspettative, che appare minacciosa, che non si riesce a decifrare. Sembra però trattarsi di un’evasione fine a se stessa, un rifugio individualistico, infecondo che anestetizza temporaneamente e poco spazio accorda alla riflessione e alla conoscenza.

sabato 16 ottobre 2010

La meraviglia dell'indifferenza

Due fatti tragici di pochi giorni fa: a Milano un tassista investe un cocker che non è riuscito ad evitare, esce per giustificarsi, viene linciato e versa in gravi condizioni; a Roma, a seguito di un banale diverbio, un ragazzo colpisce una donna con un pugno che avrà esiti fatali.
Ho visto in tv politici invitati a commentare questi fatti, lamentarsi dell’indifferenza, della scarsa solidarietà, della mancanza di senso civico da parte dei cittadini, tirando in ballo anche le agenzie educative che non svolgono bene il loro compito. Hanno però dimenticato di commentare anche l’esempio che viene dall’alto. Che dire dell’indifferenza nei confronti di precari e disoccupati che, anzi, vengono presentati come colpevoli perché non in grado di guadagnare e consumare? Dell’indifferenza nei confronti di chi pur incassando uno stipendio medio-basso non è in condizione di comprare o affittare una casa a causa della “bolla immobiliare”… Lavoro e casa, diritti fondamentali in ogni paese civile, che vengono bellamente ignorati a tutto vantaggio di chi diventa sempre più ricco speculandoci sopra. E ancora, con quale coraggio si tirano in ballo le agenzie educative, visto il trattamento riservato alla scuola pubblica ridotta al collasso dall’accanimento dei tagli, della burocrazia, del cambiamento continuo dei programmi, e che, tra l’altro, è anch’essa vittima dell’indifferenza dello Stato nei confronti del disagio di alunni, docenti, genitori. Per non parlare delle paure indotte dai mass-media che generano insicurezza e diffidenza, dello spettro dei clandestini, di aviarie e mucche pazze, delle amplificazioni morbose di episodi delittuosi che si prestano a fare audience... Alla luce di tutto questo e di tanto altro, se fossi un politico (specie selegato alla compagine governativa) non penso che farei una bella figura a meravigliarmi o a stigmatizzare l’indifferenza o la paura del comune cittadino.

lunedì 4 ottobre 2010

Il punto

Ieri pomeriggio ho fatto un salto a San Giovanni per rendermi conto dell’entità della manifestane del popolo viola. Neanche io ero al corrente che si fosse organizzato un nuovo No-B-Day. L’ho sentito al giornale radio sabato mattina. Non che faccia parte del movimento viola, ma che le cose in questo paese non vadano al meglio lo vedo chiaramente. Non appena ho potuto guardare oltre le mura che delimitano la piazza mi sono reso conto che l’affluenza era scarsa. Niente a che vedere col fiume interminabile di gente dello scorso dicembre e neppure con la più contenuta manifestazione di piazza del Popolo a marzo. Significa che la spinta propulsiva si è già esaurita? Può darsi, anche se non si può certo dire che la situazione sia migliorata.
Mandiamo truppe all’estero esponendo i soldati e mille rischi, ma possiamo in tutta coscienza affermare di riuscire a controllare il nostro territorio? Chi ha letto Gomorra o ha visto il film (che tra l’altro RaiTre ha trasmesso venerdì sera) si può rendere conto che zone del paese, alcune a poco più di cento chilometri da Roma, vivono un feroce medioevo di barbarie e violenza, dove il cittadino onesto è senza difese e senza dignità, zone che sembrano più lontane dalla civiltà (senso civico) e dalla democrazia dell’Africa nera o del nazismo di Hitler. Non entro nelle altre questioni: barzellette o quartierini offshore con tutto quello che si trascinano dietro. Mi limito a concludere con input positivi (o quasi).
Lo slogan della manifestazione: svegliati Italia!
L’intervento dell’ottimo Rodotà, che si rammarica della memoria (tragicamente) corta degli Italiani e invita tutti a fare un passo indietro, cioè a rinunciare a piccoli o grandi privilegi, per cambiare il paese.
E il sorprendente storico inglese Paul Ginsborg che in un periodo di grande, disperata fuga di cervelli, si dice fiero di essere diventato cittadino italiano.

martedì 31 agosto 2010

Pubblicità ingannevole in politica.

Se si dovessero avvicinare le elezioni, oltre ai dibattiti sulla legge elettorale sarebbe forse il caso di interrogarsi su una singolare lacuna nell’estensione della logica commerciale al mondo politico. Molti fautori dell’idea che il libero mercato possa far evolvere i conflitti e compensare il merito meglio di qualunque intervento regolativo statale, arrivando a ritenere che sia pericoloso attribuire alla politica il compito di formulare giudizi su cosa possa significare «vivere bene», non hanno considerato con altrettanto zelo i rischi della pubblicità e le contromisure che andrebbero adottate.

Un’Autorità garante della «libera concorrenza» e del «mercato» ha il compito di definire e colpire la pubblicità commerciale ingannevole, comparativa o meno, relativa ai più svariati prodotti, dai dadi per brodo agli oggetti tecnologici più evoluti. Immagino che sia per questa ragione, se non per uno scrupolo benevolo del produttore, che sulla confezione di brodo granulare con verdure leggo che «l’immagine ha il solo scopo di presentare il prodotto», dove l’immagine rappresenta due cipolle, alcune carote, del sedano e un piatto di brodo. Anche senza l’avvertimento, non avrei pensato di trovare carote o cipolle nei quattro centimetri cubici della confezione, né di ricavarne poi un brodo dello stesso colore.

Proporrei di imporre un’analoga avvertenza in corrispondenza delle immagini dei politici che, pagando profumatamente i loro consulenti, fanno circolare immagini fotoritoccate e generosamente più giovani di quel che sono effettivamente: basterebbe scrivere che «l’immagine non corrisponde all’aspetto attuale».

Sempre per la «libera concorrenza», a partire da un rendiconto preciso delle promesse non mantenute da chi si candida più di una volta, si dovrebbe poi associare alle nuove promesse dei vecchi candidati – in sovraimpressione quando sono proclamate dalla televisione, e ai margini dei cartelloni su cui sono scritte a caratteri cubitali – l’avvertenza che «le promesse del tal candidato hanno un puro valore illustrativo».

Senza simili precauzioni, un cittadino come tanti, che potrebbe essere raggirato nello scegliere il brodo granulare o una pasta surgelata e che da ciò deve essere tutelato, sarà mai in grado di scegliere dei buoni politici senza farsi ingannare?

venerdì 23 luglio 2010

Parabole e astrazioni

L’intervento di Carlo mi ha riportato all’infanzia quando, come molti di noi, ero dentro alla dimensione cattolica per via dell’insegnamento scolastico e del catechismo. Penso che l’efficacia e il “successo” millenario della parola di Cristo, e in particolare delle parabole, sia dovuto anche alla loro concreta semplicità. Ci pongono di fronte a esempi di condotta morale che possiamo toccare con mano. Il samaritano che aiuta il malcapitato ce lo abbiamo sotto i nostri occhi mentre silenziosamente, con molta discrezione ci mostra qual è la via.
Comunicare l’etica attraverso astrazioni è comunque necessario in certe situazioni: se pensiamo ad esempio alla Costituzione, sarebbe impossibile fare in pochi commi dodicimila o più esempi di possibili situazioni in cui il legislatore è tenuto a garantire ai cittadini la solidarietà delle istituzioni. Però a parlare solo per astrazioni si rischia di cadere nell’errore di scribi e farisei che - secondo il Nazareno - ostentano insegnamenti di alto valore religioso e morale, che poi puntualmente disattendono. Viene in mente a questo proposito le parole di una nota canzone di Giorgio Gaber: “Un’idea, un concetto, un’idea, finché resta un’idea è soltanto un’astrazione, se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione.”
Fondandosi solo sulle astrazioni si rischia di diventare dei Don Chisciotte che si illudono di stare dalla parte del giusto condannando le iniquità e le storture del mondo, ma che poi non vedono o fingono di non vedere quello che accade accanto al loro, cioè al prossimo, quello vero, che non vive a diecimila chilometri da noi, ma quello che ci sta accanto, quello in cui si imbatte il buon samaritano.
Capita a volte di sorprenderci nel constatare che persone con ideali più o meno simili ai nostri, che si lamentano dell’assenza di solidarietà del nostro tempo, voltare le spalle di fronte ad una piccolissima richiesta di aiuto che viene loro rivolta dal “prossimo”. In situazioni simili, di fronte ad una risposta negativa, ci si può chiedere quale sia la fonte dell’errore: perché l’individuo X non fa neppure uno sforzo insignificante per aiutare o addirittura sembra provarci gusto a causare un danno senza magari trarne alcun beneficio? Agisce in questo modo per qualche imponderabile ragione, per malignità, perfidia o perché è disturbato psichicamente?
A questo punto si pone un interrogativo spinoso: esiste un confine fra un comportamento che deliberatamente va contro l’etica della solidarietà e il disagio mentale che porta (a volte involontariamente) ad arrecare danno al prossimo?



domenica 11 luglio 2010

Il Samaritano oggi

Io sono cattolico: è un senso di appartenenza in cui mi ritrovo, insomma, anche se alle volte la vorrei un po' meglio di com'è, è casa mia.
Ciò non toglie che alle volte accolga certe dichiarazioni della Chiesa, o di alcuni suoi esponenti, con un certo imbarazzo: non è il fatto, rabbioso e irrazionale, di non condividere, è che mi spiazzano abbastanza (alle volte dico, umoristicamente, ma non tanto, che devono avere un'altra edizione della Bibbia...ma temo non sia così: è soltanto che interpretano certe affermazioni in modo differente).
Poi succede, come oggi, che nelle chiese si legge la parabola del Buon Samaritano, come narrata dall'evangelista Luca ed allora vedo che posso dare un significato al senso di appartenenza di cui sopra: mi sento a mio agio (non perché io riesca a fare sempre come il samaritano), ma perché vedo che è una proposta che porterebbe a quello che ingenuamente, ma non astrattamente, potremmo definire un mondo migliore.
Il Samaritano chi è? E' uno straniero, uno super partes insomma, che trova un poveraccio lasciato mezzo morto dai briganti, non un parente o un amico certamente, e si occupa in prima persona, senza badare a spese del suo Pronto Soccorso, trasferendolo poi, sempre a sue spese, in una struttura più idonea (potremmo dire allo stato dell'arte), dove vuole che si ristabilisca (costi quel che costi).
Quindi diciamo che il primo aspetto di sconvolgente modernità (perché son cose di cui ancora oggi si discute, anche se non in parabole) che la cura del malato e la sua guarigione sono un bene in sé, non c'è discorso di dare-avere che tenga: si deve fare tutto il possibile.
Il secondo aspetto è che il Samaritano non è un moralista: non si sofferma sul fatto che il tale potrebbe essersela cercata (come direbbero i tipici commentatori intervistati dal TG serale, non so se avete presente), recandosi in zona frequentata dai briganti. L'unica cosa di cui si preoccupa è che sta male e che è suo diritto star bene come gli altri, quanto lui per esempio. Anche questo è molto d'attualità: si è letto spesso di recente che c'è chi propone di rifiutare il Pronto Soccorso o il ricovero gratuito a chi non è in regola con qualche cosa (siano le carte di immigrazione, il tasso alcoolico o la condizione sociale). Il Samaritano non sarebbe stato d'accordo (potremmo anzi dire che non avrebbe capito proprio il ragionamento).
C'è poi un terzo e conclusivo aspetto che racchiude i primi due: l'assistenza del Samaritano è del tutto indipendente da qualunque considerazione di qualunque tipo sull'assistito (la parabola non dà nessun dettaglio sociale o culturale sull'uomo ferito dai briganti). Ci sei, hai un problema e devi essere curato al meglio, questa è la sua logica: al limite, non mi interessa nemmeno il tuo nome e la tua condizione, se non vuoi rivelarmelo per tuoi motivi, su cui non discuto. Però, attenzione: non è la privacy di cui si parla adesso, quella del decreto anti-intercettazioni, è rispetto per il malato, non copertura per il malfattore. La parabola, letta in senso moderno, vuol dire: io sono un medico che curo, non un giudice che condanna, sono due ruoli diversi e che tali devono restare. Il medico che si erge a giudice o che si confonde con esso è il simbolo di una società arretrata, in cui la parità di opportunità è vista con diffidenza se non con spavento. Io spero che non ricadremo in quest'errore: non possiamo permettercelo.

venerdì 9 luglio 2010

Sabbia frontiera

Versi discorsivi sul nulla

In questa zona di spiaggia frontiera
sento il limite umano delle cose
principio e fine di ogni esistenza.
Si capisce qua al confine
fra il mugugno del mare
eterno e un viadotto scalcinato,
su un letto disseccato di torrente,
che non c’è differenza fra l’essere
umano e i grani di sabbia,
tra il fronte di gabbiani che fende
il cielo e il vento che scompone.

Attutita appare l’ intrusa
umanità, all'oscuro del nulla
o dannata nel dimenticarlo.
Persino meschine baruffe o legnate
politiche in piazza e in parlamento
sono anelato svago
al peso del nulla che agghiaccia
lo sprovveduto (o il saggio)
nell’afa meridiana.
Muti ragazzi con lo sguardo
a cespugliose dune
riposano insoliti silenzi
rotti dal moto d’una pulisabbia
che netta una spiaggia dal seriale
pattume della nostra età.

Annichilente accerchiamento (il nulla)?
sbrecciare o diventare sasso?
Pausa per adesso di empatia
(sia un raro animale o tipo umano)
scelgo una tregua di tecnologia
e parlo distante a un amico.

domenica 20 giugno 2010

La chiesa nel terzo millennio e le pecorelle smarrite



Di fronte alla morte, di solito, si riconosce, quando c’è, la grandezza del nemico; per la dottrina cattolica, poi, si dovrebbe comunque anche rispettare prima di tutto l’umanità di chi è scomparso, o, in qualche modo, riscattarla. Non così nei confronti di José Saramago, secondo quanto si può leggere nell’Osservatore romano, che il giorno dopo quello della morte dello scrittore ne dà notizia esprimendosi con toni durissimi e particolarmente aspri in un articolo intitolato “ L’onnipotenza (presunta) del narratore” nel quale si trovano frasi di questo tenore:

“Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle 'purghe', dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi. (...) uncinata com'è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico (...). Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza"

L’acrimonia della chiesa nei confronti di Saramago si era acuita nel 1991, all’uscita del suo “Il Vangelo secondo Gesù” nel quale, per raccontare la vita di Gesù ,non si era limitato ad attingere ai soli quattro vangeli canonici. Il Gesù di Saramago è infatti presentato come un fratello, un uomo tra uomini, nato “...sporco del sangue di sua madre, vischioso delle sue mucosità e soffrendo in silenzio...” come tutti gli altri uomini, capace di attraversare ogni esperienza umana e persino di innamorarsi di amore carnale, ma anche e soprattutto conflittuale rispetto al padre-Dio. E’ un’immagine di Gesù analoga a quella che emerge, anche se in mnaiera più sfumata e allusiva, dal film di Pasolini "Il Vangelo secondo Matteo", ma ancor di più dal bellissimo album di Fabrizio De André, “La buona novella” che quando uscì, nel 1970, nutrì le inquietudini di quelli che erano allora adolescenti e che vivevano il conflitto tra gli ideali religiosi di uguaglianza e solidarietà che sentivano propri e la faccia del potere ecclesiastico, delle gerarchie rigide, del pensare per dogma e del perdono concesso a chi poteva pagarselo. Per alcuni - e si è trattato del mio caso - l’esito del conflitto fu quello della perdita della fede; per altri la scelta fu invece quella di mantenere un dialogo, sia pure conflittuale, con l’istituzione – chiesa. La quale, oggi, come del resto è consono ai tempi, sembra scegliere la via delle porte chiuse al dubbio e all’inquieto interrogarsi sul Bene e sul Male, cacciando via, anche nel ricordo, quelle che secondo il proprio Vangelo dovrebbe considerare come pecorelle smarrite.