martedì 1 dicembre 2009

Dolls: bambole, marionette, pupazzi di Natale.


Siamo alle soglie del periodo natalizio e in città già si stanno allestendo gli spazi espositivi per la grande sarabanda consumistica che ogni anno mette a nudo solitudine, povertà, vacuità e apparenza delle relazioni interpersonali; nonché, piccolo particolare sul quale si glissa, le differenze economiche e sociali tra le persone. Cercare i regali è diventato da un po’ di tempo una specie di lavoro; e pesante, per giunta; un pedaggio obbligato, angosciante, stressante. Senza contare che quasi mai si coglie nel giusto, ma riceviamo e doniamo oggetti inutili o doppioni contribuendo a un vortice di circolazione di denaro che si alimenta di se stesso. Mi piace fare regali e riceverne, ma almeno con le persone più vicine ho deciso di soprassedere per il Natale (in accordo di reciprocità) e di aspettare altre occasioni; occasioni scelte piuttosto che subite, legate alle singole persone piuttosto che di massa. Il Natale, infatti, non è davvero più la festa preposta, anche da un punto di vista laico come il mio, a celebrare l’importanza degli affetti e dell’amore. Mi torna a mente “Dolls”, il bellissimo film, di pochi anni fa, di Takeshi Kitano, che parla proprio e soprattutto dell’amore, ma anche della perdita, della mancanza, del vuoto generato dal riporre la propria sicurezza nell’effimero agire convenzionale. La scena si apre con una rappresentazione di Bunrako, una delle forme giapponesi tradizionali di teatro nella quale ogni marionetta, grande quasi come il corpo umano, non è animata da fili, ma da tre persone: una per il corpo e la mano destra, una per la mano sinistra e una per le gambe. L’impressione è che le bambole si muovano di vita propria, ma anche che rappresentino una sorta di doppio, la parte profonda e perdente di ogni uomo. Gli animatori, tra l’altro, sono mostrati sul palcoscenico, anche se vestiti di nero e a volte incappucciati, quasi a suggerire un’invisibilità simbolica. Le voci sono innaturali (molto basse quelle maschili, in falsetto quelle femminili), proprio per creare la sensazione di irrealtà.
Il film ci ricorda come l’amore rappresenti la possibilità di trasformare tutto, le nostre relazioni e noi stessi, ma possa anche diventare facilmente l’occasione per venire incatenati nella dimensione opposta, del conformismo e del calcolo. Per i due innamorati legati l’un l’altra da una corda rossa (il filo rosso è un elemento tipico della mitologia giapponese, a simboleggiare l’unione intima e profonda tra due elementi o persone) ribellarsi a questo destino fatale significa farsi ridicoli e folli. Tenendosi per mano i due protagonisti abbandonano le sicure e veloci autostrade per inoltrarsi tra i ciliegi in fiore e tra i papaveri, per diventare una cosa sola con i colori della terra e dei suoi doni, ma mentre ne attraversano le stagioni, lo sguardo beffardo e superficiale degli altri li pietrifica trasformandoli in bambole di teatro. Cioè in figure che possono far parte solo della dimensione del sogno.

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