Gli anni di piombo rappresentato una ferita ancora aperta per il nostro paese, in fondo ci dividono poco più di un paio di decenni. Un tempo forse troppo breve per lenire il dolore che provano ancora le persone direttamente coinvolte. Si è trattato di una guerra civile a bassa intensità, che ha prodotto centinaia di morti e più di mille ferite, secondo le cifre ufficiali, che verosimilmente non tengono conto di tanti episodi che non furono denunciati.
Due ragione mi hanno portato a vedere questo film, quando ormai era presente solo in due sale di Roma: l’anniversario dell’attentato di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) che ha dato l’avvio agli anni di piombo e soprattutto la scelta di Andrea Occhipinti che, unico fra i produttori italiani, ha deciso di rinunciare ai finanziamenti statali.
La prima linea è quella più vicina al fronte, è il luogo dove si rischia di più, dove maggiore è la disperazione, soprattutto quando si realizza che le ragioni per cui si combatte sono sbagliate, che non portano a niente di buono, che anche quelli che prima sembravano appoggiarti non sono più dalla tua parte e parlano di te come si parla dei pazzi. Le possibilità che il film susciti comportamenti emulativi sono praticamente nulle: in una società in cui dallo yuppismo in avanti si è affermato con prepotenza il mito del vincente, mi chiedo chi fra i giovani di oggi, se la sentirebbe di seguire l’esempio di un pugno di “sfigati” che con determinazione uccidono, gambizzano, seminano paura, distruzione, dolore, senza tornaconto alcuno, anzi causando al contempo la propria rovina. Nel film c’è poco spazio per l’avventura, forse solo nell’assalto al carcere di Rovigo si avverte un minimo di pathos, non dissimile da quello che trasmettono i film di guerra. I personaggi appaiono freddi, sebbene (e non sarebbe possibile il contrario) emerga a tratti anche il loro lato umano, quasi sempre accompagnato dalla caparbia volontà di sopprimerlo.
Dunque in questo gruppo di disperati che, come accade nelle peggiori ‘ndrine, provocano disperazione sotto forma di orrore e morte anche fra i loro compagni giudicati traditori, si respira lo stesso fascino che si proverebbe ad avere 40 di febbre in una campagna isolata, rigida e bagnata dalla pioggia. Il mito della “ribellione” è relegato nei racconti che un amico di Sergio (il protagonista) fa durante un breve incontro, nel suo locale, a saracinesche abbassate. Bevendo una bottiglia il compagno della contestazione disarmata, ricorda manifestazioni rocambolesche, un impegno totale, volantinaggi nelle fabbriche, discussioni furibonde e festose riconciliazioni. Ma l’incontro è rotto dalle esortazioni, rivolte a Sergio, a tirarsi fuori dalla “pazzia”, a rinunciare alla lotta armata. Si avverte un blackout comunicativo. I due ora appartengono a due mondi diversi, antitetici: vita e morte. All’uno sta per nascere un figlio, l’altro ha le mani sporche di sangue.
A differenza di quanto accade in altre nazioni che hanno vissuto il fenomeno del terrorismo, in Italia è ancora molto difficile parlarne, e anche fare un film sull’argomento, ha dato luogo a numerose, aspre polemiche. Rimuovere aspetti dolorosi della vita di un popolo, penso non giovi a nessuno, perché continueranno a lavorare nella zona d’ombra in cui vengono relegati, e prima o poi, quando le condizioni si renderanno favorevoli, finiranno per manifestarsi di nuovo. Se di “pazzia” si trattò, dovremmo domandarci perché si è scatenata questa forma di pazzia e cosa si può fare per evitare che si verifichi nuovamente in futuro. Dovremmo avvicinarci a quel tragico e complesso fenomeno sociale, politico, storico, conoscerlo meglio, studiarlo e - nel rispetto di tutti - raccontarlo, "riviverlo" nella penna, nelle rappresentazioni artistiche. Non giova a molto la paura (o il pudore) di ricordare, perché la “memoria” è forse l’arma più potente che abbiamo per sconfiggere la guerra in ogni sua manifestazione e dire no ad ogni forma di violenza.
Due ragione mi hanno portato a vedere questo film, quando ormai era presente solo in due sale di Roma: l’anniversario dell’attentato di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) che ha dato l’avvio agli anni di piombo e soprattutto la scelta di Andrea Occhipinti che, unico fra i produttori italiani, ha deciso di rinunciare ai finanziamenti statali.
La prima linea è quella più vicina al fronte, è il luogo dove si rischia di più, dove maggiore è la disperazione, soprattutto quando si realizza che le ragioni per cui si combatte sono sbagliate, che non portano a niente di buono, che anche quelli che prima sembravano appoggiarti non sono più dalla tua parte e parlano di te come si parla dei pazzi. Le possibilità che il film susciti comportamenti emulativi sono praticamente nulle: in una società in cui dallo yuppismo in avanti si è affermato con prepotenza il mito del vincente, mi chiedo chi fra i giovani di oggi, se la sentirebbe di seguire l’esempio di un pugno di “sfigati” che con determinazione uccidono, gambizzano, seminano paura, distruzione, dolore, senza tornaconto alcuno, anzi causando al contempo la propria rovina. Nel film c’è poco spazio per l’avventura, forse solo nell’assalto al carcere di Rovigo si avverte un minimo di pathos, non dissimile da quello che trasmettono i film di guerra. I personaggi appaiono freddi, sebbene (e non sarebbe possibile il contrario) emerga a tratti anche il loro lato umano, quasi sempre accompagnato dalla caparbia volontà di sopprimerlo.
Dunque in questo gruppo di disperati che, come accade nelle peggiori ‘ndrine, provocano disperazione sotto forma di orrore e morte anche fra i loro compagni giudicati traditori, si respira lo stesso fascino che si proverebbe ad avere 40 di febbre in una campagna isolata, rigida e bagnata dalla pioggia. Il mito della “ribellione” è relegato nei racconti che un amico di Sergio (il protagonista) fa durante un breve incontro, nel suo locale, a saracinesche abbassate. Bevendo una bottiglia il compagno della contestazione disarmata, ricorda manifestazioni rocambolesche, un impegno totale, volantinaggi nelle fabbriche, discussioni furibonde e festose riconciliazioni. Ma l’incontro è rotto dalle esortazioni, rivolte a Sergio, a tirarsi fuori dalla “pazzia”, a rinunciare alla lotta armata. Si avverte un blackout comunicativo. I due ora appartengono a due mondi diversi, antitetici: vita e morte. All’uno sta per nascere un figlio, l’altro ha le mani sporche di sangue.
A differenza di quanto accade in altre nazioni che hanno vissuto il fenomeno del terrorismo, in Italia è ancora molto difficile parlarne, e anche fare un film sull’argomento, ha dato luogo a numerose, aspre polemiche. Rimuovere aspetti dolorosi della vita di un popolo, penso non giovi a nessuno, perché continueranno a lavorare nella zona d’ombra in cui vengono relegati, e prima o poi, quando le condizioni si renderanno favorevoli, finiranno per manifestarsi di nuovo. Se di “pazzia” si trattò, dovremmo domandarci perché si è scatenata questa forma di pazzia e cosa si può fare per evitare che si verifichi nuovamente in futuro. Dovremmo avvicinarci a quel tragico e complesso fenomeno sociale, politico, storico, conoscerlo meglio, studiarlo e - nel rispetto di tutti - raccontarlo, "riviverlo" nella penna, nelle rappresentazioni artistiche. Non giova a molto la paura (o il pudore) di ricordare, perché la “memoria” è forse l’arma più potente che abbiamo per sconfiggere la guerra in ogni sua manifestazione e dire no ad ogni forma di violenza.
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