In questi giorni sono particolarmente in evidenza le questioni legate alla discriminazione culturale: Rosarno, nella sua drammaticità, ma anche il funereo decreto Gelmini sugli alunni stranieri o, su un piano diverso, la vicenda del calciatore Balotelli. Riflettendo su questi ultimi avvenimenti in relazione a convivenza, conflitto e democrazia, appare chiaro come l’idea di politica non possa esaurirsi nella dimensione istituzionale, anche se importante; né, tanto meno, debba essere compito esclusivo dei raggruppamenti partitici, anche se possono e debbono svolgere un ruolo significativo. La politica, infatti, è anche insita nelle pratiche della società civile, nell’esercitare il confronto mediando il conflitto oppure nell’esasperarlo; nel cercare gli elementi trasversali alla comune condizione dell’essere uomini, sia pure facendo i conti con le differenze, oppure nel sottolineare la propria distanza. La patria, sono convinta, non si definisce come il suolo (che calpestiamo) recintato da precisi confini, ma come la cornice delle pratiche comunitarie che ci fanno sentire o meno fratelli, capaci di piangere per il dolore di un altro che sentiamo simile al proprio o di condividerne la gioia. Per questo voglio ricordare una storia che mi è sempre piaciuta e che inizia dieci anni fa, nel 1999; una anno che si inseriva, come qualcuno ricorderà, in una fase particolarmente dura nella dolorosa vicenda dei rapporti tra israeliani e palestinesi. E’ una storia che riguarda la politica, ma anche un’altra dimensione: la musica. Amo la musica, molto. Credo che abbia un potere immenso su di noi, scioccamente sottovalutato. Elena Cheah è una violoncellista e ha scritto il libro che sto terminando di leggere (“Insieme” è il suo semplicissimo titolo), nel quale racconta un’esperienza straordinaria, quella della “West-Eastern Divan orchestra”, attraverso la voce dei co-protagonisti. Un’orchestra formata da musicisti diversi gli uni dagli altri, diffidenti e ostili perché cresciuti nel pregiudizio reciproco; giovani (dai 14 ai 25 anni) provenienti da Israele, Siria, Palestina, Giordania, Egitto, Libano. L’orchestra venne fondata dal pianista e direttore Daniel Barenboim (di origine e cultura ebraica) e dallo scrittore palestinese Edward W. Said che si erano incontrati in un hotel londinese e avevano discusso di tutto, ma in particolare di politica, di territori, di identità e differenza, di musica e dell’intreccio tra tutte queste cose.
"Fondata” è una parola grossa: si dette intanto forma a un insieme che doveva perfezionarsi per fondarsi davvero come orchestra in grado di suonare in pubblico: occorreva lavorare faticosamente (ma con il privilegio di una guida musicale straordinaria). Unica condizione posta ai giovani musicisti che ne volevano far parte era quella di aderire a due principi: 1) che il conflitto Israeliano-Palestinese non dovesse essere gestito militarmente 2) che la terra contesa, chiamata dagli uni Palestina e dagli altri Israele (o Grande Israele) fosse considerata come terra di due popoli.
Si studiava musica, ma anche si partecipava ai seminari sui libri di Said discutendone le idee. All’orchestra venne messo un nome ripreso dal titolo di una raccolta di liriche (“Il divano occidentale-orientale”) di Goethe centrate sull’idea dell’altro e ispirate dallo studio e dall’amore per la poesia persiana e per la cultura islamica. La sfida consisteva nel creare una sorta di microcosmo o cittadella ideale, quasi un modello generato in laboratorio, per dimostrare che si può scoprire la comune appartenenza anche utilizzando altri linguaggi, diversi dalle parole quando queste risultano logorate; per esempio la musica. Così come fanno i bambini che anche se sono di origine, cultura e persino lingua diversa, convivono subito, se lasciati liberi, e s’intendono alla meglio per giocare, ma proprio in questo modo imparano a conoscersi, ad apprezzarsi e persino a parlare la lingua dell’altro (cara ministra Gelmini) meglio di quanto si possa fare a scuola. Mi piace terminare con le parole di Baremboim:
“Edward Said ed io credevamo nell’opportunità di lasciare che le voci contrastanti si esprimessero simultaneamente. (...) Questa nostra idea traeva spunto dal principio del contrappunto musicale, dove una voce di accompagnamento che agisce in maniera sovversiva può giungere ad arricchire una melodia, anziché impoverirla. A tutt’oggi non cerchiamo di ridurre o ammorbidire le differenze presenti fra i vari membri dell’orchestra: facciamo l’esatto contrario. E confrontando le differenze cerchiamo di comprendere gli uni le ragioni degli altri” (Daniel Baremboim, Introduzione a “Insieme” di Elena Cheah)
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