mercoledì 6 gennaio 2010

Un altro Natale


Nel dicembre 1944 due personaggi rilevanti del mondo della politica e della vita culturale del nostro paese, si trovarono a “festeggiare” nella stessa località: lo Stammlager di Sandbostel. Ora qualcuno potrebbe pensare che nelle disagiate condizioni in cui si viveva in un lager tedesco, si riesca a mettere da parte questioni politiche per tirare avanti nel modo migliore. Invece le cose sembra che non sempre andassero per questo verso, e pare che tra Alessandro Natta (futuro dirigente e poi segretario del PCI) e Giovannino Guareschi (cattolico, con simpatie monarchiche e anarchico al contempo) non corresse buon sangue.
Inutile dire che anche Guareschi era antifascista: altrimenti sarebbe rimasto ad Alessandria, nella Repubblica di Salò, dove era tenente di complemento. Per tenere alto il morale suo e dei suoi compagni di sventura, scriveva a modo suo ( malgrato tutto) con brillante ironia e organizzava spettacolini sulla base di suoi testi, tra cui una “Favola di Natale” scritta il 17 dicembre del ’44, che rappresentò con successo, grazie alla collaborazione del musicista Coppola e di altri internati. “Sta per arrivare il Natale: perché non scrivi una bella favola per questi pezzenti divorati, come te, dalla fame, dalle pulci e dalla nostalgìa? E’ un modo come un altro per riportarli ai pascoli domestici, per riattaccarli alla vita”.
Nel libro di Natta sull’esperienza di internato militare, che per disciplina di partito, pubblicò oltre quaranta anni dopo averlo scritto, si legge: “Dalla resistenza etica e politica fu necessario distinguere quelle espressioni lacrimose e qualunquistiche, tipo le favolette di Natale dei Guareschi”. Nel corso di questi quattro decenni il dirigente del PCI aveva avuto modo di rimproverare Guareschi per altre vie, se l’autore di Don Camillo, nel 1965 racconta: “E c’era chi mi rimproverava aspramente queste mie pubbliche manifestazioni sentimentali e piagnucolose. Gente convinta che bisogna approfittare delle sciagure nazionali per cavar fuori all’uomo ciò che ha di peggiore in fondo all’anima. Personaggi, insomma, che vedono nell’umanità solo masse da avvelenare, scatenare e mandare allo sbaraglio, per sventolare poi le insanguinate spoglie dei morti come bandiera”.
Con tutto il rispetto per Alessandro Natta, per la coerenza, la rettitudine, la dedizione, l’impegno politico e quant’altro, non so se sia possibile condividere la sua opinione, anche perché Guareschi se in qualche punto della sua “Favola di Natale” può essersi avvicinato al “sentimental-piagnucoloso”, di sicuro ne è stato ben lontano in quasi tutto il resto della sua produzione, sia nel corso della prigionia che fuori. E forse, col senno del poi, a far pendere l'ago della bilancia dalla parte di Giovannino è la consapevolezza che il comunismo, malgrado le sue buone intenzioni teoriche, si è rivelato nell’attuazione concreta anche fonte di tante atrocità.
Non solo Natta fu una persona onesta e degna di stima, come sappiamo lo fu anche Guareschi, che pagò a caro prezzo il suo essere libertariamente di destra, senza appartenere a partiti o camarille. Scontò infatti una reclusione di ben 409 giorni, oltre a sei mesi di libertà vigilata, per diffamazione a mezzo stampa (il diffamato fu niente meno che Alcide De Gasperi…). Non presentò domanda di grazia e neppure il ricorso in appello dato che si riteneva vittima di un’ingiustizia.
L’esperienza del carcere lo minò nel fisico e nel morale, e probabilmente lo amareggiò più del periodo trascorso nei lager, che tornò a visitare, senza odio, poco dopo la fine della condanna subita nella democratica Italia.

Benché siamo ancora nell’ultimo giorno delle feste natalizie (anzi negli ultimi minuti…), evito di concedermi anch’io uno spazio, una morale “sentimental-piagnucolosa”, e lascio le conclusioni a chi avrà avuto la bontà di leggere.

3 commenti:

maria antonella galanti ha detto...

Mi sono trovata, molti anni fa e per caso, a visitare una mostra temporanea su Guareschi; ero forse a Piacenza o forse in un paese della sua provincia. Leggendo le indicazioni-guida, le lettere, gli appunti e le battute delle vignette, ma anche osservando oggetti e ricordi di vario genere, mi sembrava di poter comprendere tutta la conflittualità interna alla sua persona e di intravedere una sorta di malinconica rassegnazione disincantata dietro la facciata dello sbandierato qualunquismo. I suoi libri, letti da ragazzina più o meno quattordicenne, mi erano apparsi incredibilmente fedeli alla realtà nella quale ero immersa: quella di un piccolo paese di collina, piuttosto chiuso e isolato, nel quale le differenze politiche si stemperavano, poi, nella condivisione di stereotipi e luoghi comuni relativi sopratutto alla differenza uomo-donna o al senso rigido delle gerarchie. La condivisione riguardava anche la maschera di facciata da indossare, che per alcuni consisteva in una sorta di prescrizione rispetto al non dover indulgere a sentimentalismi di alcuna natura. Come se gli ideali di chi si riconosceva nel comunismo non nascessero dal sentimento di insofferenza verso ingiustizie e disuguaglianze sociali, anche al di là del proprio interesse personale o della propria classe economica di origine.

luca mori ha detto...

Anch'io lessi Guareschi da bambino. Ripensandoci oggi, in effetti non credo che quella del "sentimentalismo" un po' piagnucoloso sia la chiave di lettura appropriata.
C'è la descrizione semplificata di due appartenenze (quella al comunismo e quella alla Chiesa) e la costruzione letteraria e un po' enfatica di "tipi" che rappresentino il nocciolo delle due "fedi". La cosa che dà a pensare è il modo in cui quei due mondi convivevano e comunicavano: stavano assieme un po' per la superficialità della vita quotidiana, un po' per l'impulso coesivo dato da qualche situazione "grave"... Entrambe le parti erano a loro modo "superstiziose". Ma ho l'impressione che venissero evidenziate soprattutto le superstizioni dei comunisti: il sindaco che ha comunque bisogno del battesimo per il figlio, ecc.
Pensando al paesino dei miei nonni, era talmente piccolo e isolato che di comunisti sostanzialmente non mi sembra ce ne fossero... Eppure gli uomini (non tutti, e dai quaranta in su) la domenica accompagnavano le donne della famiglia alla Messa, ma rimanevano rigorosamente a parlare nel piazzale antistante (la porta della chiesa era aperta). Le volte che la nonna andava, sarebbe piaciuto anche a me restare fuori, ma non mi era concesso. Ecco, questa è una parte dell'Italia di quegli anni che forse nessuno ha mai raccontato: tra le due fedi, dove collocare quelli che restavano sul piazzale senza mai entrare? Ricordo l'impressione stranissima che mi fece una volta vedere che mio nonno era entrato...

enrico meloni ha detto...

La prima risposta, forse banale e semplicistica, che mi viene in mente è la seguente: secondo un’etica contadina (ma non solo) la donna che non andava a messa veniva considerata non morigerata e dunque una poco di buono, mentre all’opposto l’uomo che non entrava in chiesa appariva come uno che la sa lunga, uno che sa farsi rispettare, che non porge l’altra guancia e magari anche “cacciatore”. Questa mentalità era diffusa anche prima del conflitto fra le due fedi.