venerdì 12 febbraio 2010

Il concerto



Il potere della musica di unire le persone e le vite più disparate, di riaprire un percorso bruscamente interrotto, di superare le barriere fisiche e mentali che separano i popoli, di legare insieme un passato prigioniero del rimpianto e un presente altrettanto prigioniero di un senso di sconfitta, fino a dare loro una nuova dignità e un nuovo significato. Si ritrova questo, e molto altro, nell'ultimo, bellissimo film dell’autore di Train de Vie, il quale non rinuncia ad alcuni suoi piccoli marchi di fabbrica, come la derisione della patetica rigidità e delle ossessioni proprie degli apparati ideologici (il nazismo del Terzo Reich nella pellicola del ‘98, il comunismo sovietico in questa) e la bonaria ironia sul cliché dell’ebreo furbetto, pervaso fino al midollo da una sorta di insopprimibile furore mercantile. Non manca neppure uno sguardo ammirato sulla gioia di vivere espressa dai nomadi zigani e sul loro efficiente disordine, che salva più volte il protagonista dall’impasse.
Eroe tormentato della storia è un ex direttore d’orchestra russo che, negli ultimi anni dell'URSS di Breznev, viene accusato di 'tradimento del popolo'. La sua notorietà e i suoi successi si arrestano bruscamente e l'artista si ritrova privato della possibilità di proseguire la professione, complice l'ottusa perfidia di un funzionario di partito. Il pretesto che determina l’intervento delle autorità, cioè la critica esplicita che il protagonista aveva osato muovere ai dirigenti del partito, maschera l’invidia che le personalità mediocri e compiacenti con il regime sovietico sembrano nutrire per il talento, pericoloso quando eleva l’artista al di sopra del grigiore imposto per legge e per ideologia. Ai nostri giorni l’ex direttore d’orchestra, nel frattempo retrocesso a inserviente del teatro Bolshoi, viene casualmente a conoscenza di un invito da parte del teatro Chatelet di Parigi per un grande concerto riservato all’orchestra del teatro e, in un folle tentativo di recuperare il tempo perduto, si propone di mettere insieme in pochi giorni un’orchestra formata da sue vecchie conoscenze: lo scopo è quello di condurre i musicisti nella capitale francese e dirigerli nel primo concerto di Chaikovski, lo stesso che aveva segnato la fine della sua carriera.
Il percorso del film si dipana toccando a tratti i limiti del surreale, ma il regista mantiene con discreta abilità un livello di verosimiglianza nel quale è agevole immedesimarsi, in particolare nelle sequenze in cui domina il ricordo tragico delle vicende del passato e nei numerosi momenti in cui entra in gioco il dolore mai sopito, eppure sempre dignitoso, che pervade i principali protagonisti, la cui natura è profondamente russa e, allo stesso tempo, profondamente ebraica. Il dolore è da tutti accettato in silenzio, al pari di una punizione divina incomprensibile e indiscutibile, così come incomprensibili e indiscutibili erano apparse nel passato le ossessioni del regime. E’ proprio il dolore il legame che mostra maggiore forza nell’unire oggi questi russi-ebrei, come aveva unito un tempo i russi-sovietici. Un dolore denso e stratificato, ma ancora passibile di riscatto.
Il film inizia e termina con la musica, parla di musica, è pervaso dal senso di assolutezza dell’esperienza musicale. L’essere umano e le sue attività sono soggette alla legge ineludibile del tempo. Nascono e muoiono le ideologie, i funzionari di partito, i compositori, i direttori d’orchestra, i musicisti. La musica, quel suono che esce dai confini del tempo e conquista all’uomo un angolo di assoluto, resta.

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