“Harvey” è un bellissimo film di Henry Koster del 1950. Non ero ancora nata, all’epoca, dunque l’ho visto solo in televisione e ogni volta ho sentito di amarlo ancor di più della precedente. Il protagonista, Elwood P. Dowd, interpretato da James Stewart, è un uomo dolce, affabile, sensibile e simpatico che afferma di avere come amico un coniglio bianco alto due metri (Harvey) con il quale condivide le passeggiate, la conversazione e ogni altra esperienza. Questa sua bizzarria genera non pochi imbarazzi alla sorella, che di per sé lo accetterebbe anche così com’è se non avesse a che fare con le reazioni degli altri. Elwood viene internato, ma alla fine la sua illusione avrà la meglio e l’amico immaginario apparirà sulla scena dimostrando la propria esistenza allo psichiatra e agli stessi spettatori. Ho amato questo film, molti anni fa, perché parlava in maniera intelligente e tenera allo stesso tempo dell’universo della follia; cioè di qualcosa che non mi riguardava direttamente, ma toccava in maniera molto intensa la mia sensibilità e i miei interessi, allora come oggi. In questi giorni il film mi è tornato alla mente spesso, ma in una luce totalmente diversa. Ripensandolo mi sono detta, infatti, che ciascuno di noi esseri umani, folle o normale (e i normali, forse, più dei folli) ha i propri Harvey: che possono essere gruppi di persone o anche singoli esseri umani. La fiducia nel gruppo di cui si è parte – facciamo il caso, ad esempio, di una formazione di tipo politico – è direttamente proporzionale all’impegno e alle attese che riponiamo nel gruppo stesso rispetto agli obiettivi e agli ideali che ne definiscono l’identità. Quando si fa parte di un gruppo i cui singoli membri sono accomunati da determinati ideali si dà per certo che le loro mosse saranno abbastanza coerenti rispetto ad essi e il contrario ci provoca un’intensa delusione e magari la decisione del distacco. In maniera analoga anche nei confronti di persone che a vario titolo ci sono care noi riteniamo spesso di sapere per certo quali comportamenti metterebbero in atto in determinate circostanze e quali, invece, non potrebbero mai e poi mai appartenere loro. Questo sentimento di certezza ha a che fare con la fiducia e, in ugual misura, con i sogni. E’ ciò che ci permette di lasciarci andare, di allentare le difese, di stabilire territori di intimità ben distinti rispetto a quelli nei quali ci sentiamo soli e incompresi; ma è, nello stesso tempo, ciò che ci rende fragili e dipendenti da coloro che amiamo, dall’immagine che abbiamo di loro che non solo ci piace, ma ci conforta e ci dà certezze e speranze indispensabili per attraversare i marosi della vita senza venirne spazzati via. Capita di rimanere feriti dal comportamento di un gruppo o di una persona inconciliabile con l’immagine che ne avevamo e che ci piaceva, confortava, dava speranze e incrementava la nostra fiducia nell’umanità. Allora, se il dolore è particolarmente intenso e la delusione insopportabile, quando ci sembra di dover ridefinire tutto, i contorni delle cose e di noi stessi tra le cose e la natura, ci chiediamo, anche per il passato, se abbiamo avuto a che fare con persone reali o con amici immaginari da noi stessi creati per poter attraversare il vuoto e la mancanza di senso. Quando questa domanda si affaccia alla nostra coscienza ci lascia scossi e come spersi in un universo che improvvisamente appare immenso e cattivo: un deserto freddo, notturno, senza orizzonti, mentre la sabbia si solleva in rapide spirali di vento e si posa sulla pelle, sui capelli e sulle vesti cancellando le nostre impronte e annullando, così, anche i ricordi più cari. Ma, forse, la domanda che dovremmo porci in questi casi è un’altra e ci viene suggerita dal film stesso il cui protagonista, in una delle scene più toccanti, spiega allo psichiatra che sua madre gli ricordava spesso come nella vita occorra scegliere se essere astuti o amabili e che lui, pur sapendo che sarebbe stato più conveniente farsi astuto, aveva sempre ritenuto preferibile essere amabile.Forse dovremmo chiederci se l’aver creato illusioni di solidarietà e condivisione rispetto a gruppi o a singole persone sia comunque importante. L’illusione, infatti, non è menzogna e inganno, ma testimonianza del nostro poter essere creativi; l’illusione è fatica e costruzione razionale, ma anche, nello stesso tempo, leggerezza e gioco. L’illusione testimonia della soggettività del nostro affidarci ad altri mettendoci anche, talvolta, nelle loro mani e della nostra capacità di credere ai sogni al di là del riscontro, del tornaconto finale, del risultato materiale. Forse dovremmo più semplicemente convincerci che è importante coltivare l’illusione (cioè il sogno) di un’utopia indipendentemente dal suo realizzarsi o meno (come, del resto, vuole la tradizione di questo concetto) e dalle delusioni alle quali, probabilmente, andremo incontro. Perché proprio il nostro non voler rinunciare a sogni e ideali rende la vita degna di essere vissuta.
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