Scene come se fosse vita. Sensazioni che escono dallo schermo. E alle parole, ai sussulti, alle risate dei personaggi corrisponde un eco del pubblico, che si lascia coinvolgere da una narrazione che ha il passo di una commedia tradizionale e nuova, leggera e intensa.
Protagonista è una famiglia benestante del Salento, che gestisce un noto panificio, piuttosto conformista e attenta alla reputazione, come accade tra la borghesia meridionale (e non solo) che Pirandello ci ha presentato in svariate opere narrative e teatrali. Stavolta la pietra dello scandalo è qualcosa che scotta anzi che esplode, proprio come le mine vaganti del titolo. L’omosessualità, pubblicamente dichiarata dal figlio maggiore, genera una crepa nel rispettabile clan dopo aver incrinato all'istante, il fisico, il cuore del capo famiglia, forse per il suo ruolo più esposto degli altri nella tutela dell’onore domestico. E alla stimata famiglia sembrano venire meno i solidi ammortizzatori di cui pareva dotata, di fronte alla minaccia dello spietato, inflessibile, onnivoro giudizio degli altri.
La vicenda si snoda accattivante e ben orchestrata assumendo a tratti tinte grottesche e sembianze espressioniste. Si ride parecchio e ci si commuove anche. Gli stessi pregiudizi che causano tanta miseria e dolore finiscono per essere presentati con umanità, perché in fondo sono radicate costruzioni dell’ambiente, che chiedono tempo per essere scardinate.
Forse si riscontra qualche piccolo passo falso nella sceneggiatura, qualche ingenuità nei dialoghi, che però si fanno ampiamente perdonare nel contesto di una grande commedia mediterranea nuova e di qualità.
Non mancano momenti di riflessione, tra tutti una battuta di Tommaso (Scamarcio), il protagonista: - Siamo nel 2010, non nel 2000 - a sottolineare una regressione sociale avvenuta negli ultimi anni, che a ben pensare non investe solo una sconsiderata e becera omofobia, ma tutti gli aspetti della vita, ponendo ostacoli sempre più pesanti alla realizzazione di se stessi.
Il finale sembra superare il tradizionale rapporto morte-vita. È come se il rimpianto, l’eredità morale di una persona che non è più tra noi possa dare corpo all’immaginazione, ai desideri riposti di ognuno. E la morte si innesta nella vita oltre le umane possibilità di incontrarsi, raggiungersi, amare.
Protagonista è una famiglia benestante del Salento, che gestisce un noto panificio, piuttosto conformista e attenta alla reputazione, come accade tra la borghesia meridionale (e non solo) che Pirandello ci ha presentato in svariate opere narrative e teatrali. Stavolta la pietra dello scandalo è qualcosa che scotta anzi che esplode, proprio come le mine vaganti del titolo. L’omosessualità, pubblicamente dichiarata dal figlio maggiore, genera una crepa nel rispettabile clan dopo aver incrinato all'istante, il fisico, il cuore del capo famiglia, forse per il suo ruolo più esposto degli altri nella tutela dell’onore domestico. E alla stimata famiglia sembrano venire meno i solidi ammortizzatori di cui pareva dotata, di fronte alla minaccia dello spietato, inflessibile, onnivoro giudizio degli altri.
La vicenda si snoda accattivante e ben orchestrata assumendo a tratti tinte grottesche e sembianze espressioniste. Si ride parecchio e ci si commuove anche. Gli stessi pregiudizi che causano tanta miseria e dolore finiscono per essere presentati con umanità, perché in fondo sono radicate costruzioni dell’ambiente, che chiedono tempo per essere scardinate.
Forse si riscontra qualche piccolo passo falso nella sceneggiatura, qualche ingenuità nei dialoghi, che però si fanno ampiamente perdonare nel contesto di una grande commedia mediterranea nuova e di qualità.
Non mancano momenti di riflessione, tra tutti una battuta di Tommaso (Scamarcio), il protagonista: - Siamo nel 2010, non nel 2000 - a sottolineare una regressione sociale avvenuta negli ultimi anni, che a ben pensare non investe solo una sconsiderata e becera omofobia, ma tutti gli aspetti della vita, ponendo ostacoli sempre più pesanti alla realizzazione di se stessi.
Il finale sembra superare il tradizionale rapporto morte-vita. È come se il rimpianto, l’eredità morale di una persona che non è più tra noi possa dare corpo all’immaginazione, ai desideri riposti di ognuno. E la morte si innesta nella vita oltre le umane possibilità di incontrarsi, raggiungersi, amare.
1 commento:
Ho visto il film qualche giorno fa e anch'io l'ho apprezzato come quasi tutti quelli di questo regista, che spesso gioca con il registro dell'improbabile per mettere in scena il probabilissimo e banalissimo quotidiano mostrandolo sotto una luce diversa e straniante: penso in particolare all'incompreso "Cuore sacro", che considero un po' il suo capolavoro. "Mine vaganti" sono tutti quelli che si lasciano guidare dai propri sentimenti piuttosto che dagli stereotipi e dalle convenzioni sociali. Essere una mina vagante significa portare in sé il germe del disordine e dello scompiglio: ma solo così è possibile imparare ad accettarsi e a convivere restando fedeli ciascuno alla propria diversità, ma senza sopraffazione gli uni rispetto agli altri. Il film ci ricorda in maniera intelligente e ironica che avere paura della diversità significa costruire gabbie di infelicità e intolleranza prima di tutto rispetto a se stessi.
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