Chissà se Pasolini avrebbe apprezzato l’ultimo film di Lucchetti sul neoproletariato, lui che ha teorizzato la mutazione antropologica che, a iniziare dal boom economico, poneva fine al ceto popolare, spazzando via in pochi anni un’etica millenaria, patrimoni di esperienza maturati in armonia con la natura, tradizioni, poesia. È ben vero che non tutto ciò che apparteneva al cosiddetto ‘popolo’ fosse un valore positivo, pensiamo ad esempio all’ignoranza, alle superstizioni, ai pregiudizi, che costituivano un terreno ben fertile per ogni assurda bestialità o caccia alle streghe. Tuttavia il paragone con l’oggi, con una minaccia di distopia incombente, di società fittizia, schizofrenica e deprivata di ogni umanità, senza dubbio presta il fianco a qualche tentazione di rimpianto.
Di sicuro a Cannes è piaciuta l’interpretazione di Elio Germano, al quale è andato a buon diritto il titolo di miglior attore. È un giovane operaio edile romano, che lavora “in nero”, come sembra sia usuale in questo ambiente (e anche in molti altri). Sposato con due figli piccoli e in attesa del terzo, appare abbastanza appagato dalla sua famiglia, dal rapporto con la moglie e di certo non coinvolto da questioni socio-politiche relative alla sua condizione, al suo ceto… A ben pensarci forse non è solo dei nostri quest’assenza di coscienza di classe, come si diceva un tempo. L’aspirazione, tra chi nasce nel ceto popolare, a compiere una scalata verso il benessere e la “rispettabilità” è cosa antica. Vengono in mente i noti personaggi di una novella e di un romanzo di Verga: Mazzarò, il protagonista de “La roba” e Mastro don Gesualdo che dà il titolo al libro. Entrambi di umili origini, dopo una vita di sacrifici disumani, conquistano una solida posizione di benessere economico, ma per entrambi, secondo il loro demiurgo, si prospetta una fine di solitudine e dolore. Proprio negli anni in cui Verga scriveva i suoi capolavori in Italia si diffondevano gli ideali marxiani, secondo i quali il povero non avrebbe più dovuto cercare di arricchirsi (del resto impresa disperata se condotta con metodi onesti), ma il suo compito sarebbe stato di creare una società di eguali e liberi, senza più sfruttati né sfruttatori. Ora viene da chiedersi: c’è mai stata realmente la coscienza di classe? Era effettivamente diffusa in tutti gli ambienti popolari della penisola? Oppure se ne parlava tanto perché se ne erano appropriati la cultura di sinistra e i mass-media vecchi e nuovi? Se ci fosse stata davvero si sarebbe potuto affermare il fascismo?... Personalmente non so dare una risposta, almeno per ora, dunque torno alla «nostra vita», alla contemporaneità, dove i soldi sono l’unico risarcimento possibile ad ogni dolore, per ogni ingiustizia. Soldi per comprare beni di consumo nei centri commerciali, per compensare la perdita di una moglie e di una madre. E in effetti, mai come oggi, nel nostro paese i soldi appaiono al primissimo posto: in tutte le professioni la priorità viene data al profitto anziché al servizio reso al prossimo tramite il proprio lavoro oppure al riconoscimento che ci deriva dall’aver svolto al meglio il nostro compito: come sembrano lontane le parole di Marx sull’alienazione dell’operaio rispetto all’artigiano che può cogliere il senso del suo lavoro e la gratificazione che ne deriva. Nel film di Lucchetti sono i rumeni a fare la morale, sono loro che verosimilmente vestono i panni della vecchia classe popolare che Pasolini vedeva tragicamente dissolversi: a voi italiani più che possederli realmente piace di far vedere che avete i soldi. E altre considerazioni sull’apparire e il valore dell’amicizia, dei sentimenti, di tutto quello che non può essere comprato. Apprezzabile che si cerchi di alleggerire il pregiudizio che grava sui rumeni, ma attenzione a non scivolare nel preconcetto opposto.
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Contattare il vuoto, quello immenso - una voragine - lasciato dalla perdita irreversibile di una persona cara, e quello delle piccole o grandi perdite di sé o di altri, legato alla quotidianità e all'esperienza del passare del tempo, della trasformazione, della vita che scorre: anche di questo ci parla il film; del fatto che il vuoto immnenso e i piccoli o grandi vuoti fisiologici legati al vivere, dal punto di vista del senso non sono poi così distanti o differenti. Il consumismo non nasce certo da questo, ma si nutre anche di questo, vi trova le radici del consenso; comprare oggetti diventa, spesso, un tentativo vano e superficiale, sapientemente indotto, subdolamente pilotato, di riempire il vuoto evitando di attraversarlo. Nel film i bambini insegnano al padre ad attraversare il vuoto nella bellissima scena (devo dire che mi ha molto commosso) nella quale si tengono le mani per evocare, con gli occhi chiusi, una presenza. Riescono ad attraversare il vuoto, con coraggio, riempiendolo non di oggetti, ma di parole, sentimenti e pensieri, trasformando così la perdita in occasione di un percorso introspettivo di crescita che rende possibili nuove felicità. Come quella dei corpi bambini abbracciati a quello grande del padre nel lettone matrimoniale, trasformato da sacrario inviolabile, testimone muto di una perdita, a luogo di giochi e carezze, testimone vivo di un dono.
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