Nel gettare discredito sull’università sembrano tutti d’accordo, anche dalle opposte collocazioni dei fautori o dei detrattori di chi attualmente ci governa. Un solo esempio, tra i tanti: Repubblica, un giornale che in questo momento si colloca all'opposizione, pochi giorni fa ospitava in prima pagina, un articolo che plaudendo alla recente proposta di riforma Gelmini per l’università si rammaricava soltanto della sua lentezza applicativa.
L’università è decisamente ridotta male e per questo risultava difficile, prima di tale testo, immaginare una proposta che potesse addirittura peggiorarne la condizione. Ormai, però, in ogni ambito la realtà supera la stessa fantascienza. Si tratta, infatti, di un progetto teso a peggiorare i mali già presenti nell’Università: rendendo più gerarchizzata e autoritaria l’articolazione interna, limitando ulteriormente le possibilità per i giovani meritevoli, creando una più netta separazione tra ricerca e amministrazione (con la supremazia di quest’ultima, cioè non delle ragioni scientifiche) e, soprattutto, tagliando ancor più impietosamente i fondi la cui gestione passerebbe direttamente al Ministero per l’economia, esautorando e disarmando quello dell’Università e ricerca; non è forse analoga la condizione del settore salute, privo di un proprio ministero?
“Non ci saranno più soldi a pioggia!”, scandisce la ministra: io di piogge di soldi, però, non ne ho viste mai.
Sullo stesso numero del quotidiano viene poco più avanti riportata con grande enfasi la notizia del solito professore che contraccambiava con dei 30 e lode eventuali prestazioni sessuali di studentesse. Esistono casi così, non ne dubito; ma in ogni ambito professionale e non solo nell’Università. Perchè, allora, generalizzare come se la cosa riguardasse tutti i professori universitari maschi in quanto tali? Poche pagine dopo in un piccolo trafiletto c’è anche la notizia di un bidello che palpava e molestava le bambine della scuola elementare nella quale lavorava; non per questo si generalizza rispetto alla categoria, anche se bidelli palpatori, in passato, sono già saliti alla ribalta della cronaca. Avrà offerto alle bambine, nel suo piccolo e rispetto al loro piccolo, una merendina o i soliti cioccolatini del pedofilo secondo stereotipo, cioè l’equivalente quanto al senso e data la diversa circostanza, del 30 e lode.
Il mondo accademico presenta molti aspetti criticabili e anche il fenomeno “parentopoli" lo attraversa , soprattutto in alcuni atenei tristemente noti; come potrebbe, del resto, in territorio mafioso, non essere mafiosamente colorata anche l’Università?
E’ sbagliato, però, estendere a tutto e tutti l’accusa. Siamo in molti tra i docenti universitari, la maggior parte, probabilmente, a non essere parenti di nessuno e a lavorare con passione portando avanti in condizioni sempre più indecorose sia la ricerca che la didattica; siamo in tanti a essere stati reclutati attraverso regolari concorsi e a non aver mai usufruito di “assistenti” servizievoli e in generale di favori.
Parentopoli è un male italiano ed è riscontrabile ovunque, anche se per altri contesti (per esempio in riferimento al mondo dello spettacolo o a quello giornalistico) si parla, chissà perché, con tenera indulgenza e quasi con orgoglio, di “figli d’arte”.
Distruggere l’università significa eliminare uno dei luoghi nei quali è ancora possibile creare cultura e formare le menti al pensiero critico. Quale futuro scenario si profila all’orizzonte di un paese che mette in ginocchio e umilia la cultura in tutti i suoi aspetti, dallo spettacolo, alla scuola, all’università?
Altre riflessioni sui fenomeni di nepotismo propri di alcuni atenei e utilizzati per gettare discredito su tutta l’università nel post “Un nuovo familismo amorale” di novembre 2008.
2 commenti:
Divide et impera è la strategia, neppure troppo nascosta, con la quale è stata resa innocua ogni opposizione.
La ricetta è molto semplice: si trova di volta in volta un capro espiatorio ben visibile, il pubblico impiego, la sanità, la scuola, l'università, i musicisti (!) e, dopo averne dimostrato con qualche caso esemplare la corruzione senza rimedio, si attribuisce a quella specifica categoria la responsabilità di drenare imponenti somme di denaro pubblico.
Di solito chi non fa parte della categoria sotto accusa si unisce prontamente al coro dei detrattori. Chi ne fa parte, invece, anziché indignarsi, si lascia attraversare da un acuto senso di colpa e resta muto.
La strategia si è dimostrata piuttosto efficace, soprattutto perché ha prodotto due importanti risultati: la frammentazione (e dunque il soffocamento) della protesta e la perdita di attenzione degli italiani verso il reale pericolo rappresentato da chi usa la cosa pubblica per il proprio interesse privato.
Infatti, Bruno, il fatto sorprendente, ma soltanto in superficie, è quello che nessuna protesta reale attraversi il mondo universitario. C'è molto mugugno, ma non si traduce in nessun tipo di proposta concordata (anche perché appare chiaro come non ci sia un referente cui inoltrarla).
D'altronde, ci sono stati nemmeno tanto velati (per esempio, un editoriale di Panebianco sul Corriere della Sera) richiami al fatto che in Italia ancora troppi si occupano di politica, invece di delegare ad una minoranza "qualificata" (o autoqualificantesi).
E' il solito invito a "lasciar lavorare", o, come Antonella più giustamente puntualizza, a "guardar distruggere", un esser relegati al ruolo di spettatori. Paganti, ovviamente, ed anche caro.
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