mercoledì 25 marzo 2009

Affondamento scuola pubblica



Mentre negli altri paesi del mondo, almeno quelli più evoluti, è ormai assodato che investire nella formazione, la cultura, la ricerca rappresenta una priorità indiscussa, in Italia si procede bellamente a sferrare le ultime picconate per demolire quello che rimane ancora in piedi della scuola statale. Soltanto per il prossimo anno scolastico sono previsti oltre 42.000 tagli di cattedre.
A dispetto di quanto i mass-media hanno lasciato passare, i tagli non riguardano principalmente la scuola elementare (maestro unico, orario di 24 ore, ecc.), perché in realtà a perdere di più è la scuola media dove secondo le cifre ufficiali del disastro sono previste 15.542 cattedre in meno, mentre nella primaria si perderanno “soltanto” 9.968 posti. Considerando che la scuola elementare dura cinque anni rispetto ai tre delle medie, non ci vuole un genio della matematica per capire che il rapporto si amplia ulteriormente (un’altra situazione in cui i canali ufficiali della comunicazione – impegnati a dedicare ore su ore a banali fatti di cronaca - hanno falsificato, distorto la realtà dei fatti…).
Quali saranno le conseguenze pratiche oltre ai posti di lavoro che andranno persi? Per brevità, ne prendo in considerazione due soltanto.
A) Il ruolo dell’insegnante diventerà sempre più simile a quello del guardiano dello zoo.
Abolendo le ore a disposizione, ogni volta che si assenta un insegnante i suoi alunni verranno divisi nelle altre classi; ciò comporterà che mediamente ci saranno in ogni aula da 5 a 10 alunni in più, senza contare l’aumento degli alunni per classe deciso dal governo. Si comprende bene che a questo punto il lavoro del docente sarà di mera sorveglianza, visto che già oggi si spendono molte energie per indurre i “pierini” di turno a più miti consigli.
B) considerando la fatiscenza di molti edifici scolastici e la capienza delle aule, si direbbero quantomeno azzardati questi provvedimenti che causeranno direttamente o indirettamente un consistente aumento di alunni per classe.
A chi giova questa bella manovra?... Le risposte (come direbbe Lubrano) sorgono spontanee, e perciò lascio ad ognuno di voi il gusto di immaginarle.
Quello che ancora mi stupisce è che tutto sembra avvenire fra l’indifferenza e la rassegnazione dei più che appaiono non troppo dissimili dagli orchestrali del Titanic i quali, si racconta, non smisero di suonare fino al completo affondamento della nave.


martedì 24 marzo 2009

Le tigri di Ligabue



Le tigri di Ligabue si avventano contro di te, fameliche, feroci, spietate. Appena un istante prima, agitando il fuoco rovente delle loro fauci immense e assassine, mentre già aprivano con astuta arroganza la corona dei denti aguzzi e immacolati, ti avevano catturato in un’ipnosi senza vie di fuga.
Non puoi che restare immobile, cristallizzato come loro nell’impeto della caccia che le ha trasformate in una torsione spasmodica di dolore oscuro, serpeggiante nel tripudio di righe infinite che si stagliano dal manto, ancora e ancora e ancora, fino a raggiungere la lunga coda da mammifero-scorpione, ritorta in avanti ad ammonire l’incauto che ha osato guardare, che ha osato avvicinarsi.
L’atmosfera si satura di colore e di forme ubriache, la stanza inizia a ruotare, la vista si annebbia, la paura acquista consistenza di tela, le gambe sembrano non reggere. L’intero universo è risucchiato nel vortice che congiunge il quadro ai tuoi occhi e i tuoi occhi al quadro.
E bevi la follia, ammiccante dalle palpebre socchiuse della belva, da quelle pupille più umane dell’umano, dalle zampe-braccia protese, dalle mani-artigli affilate, dalle vibrisse sollevate a ventaglio. La senti insinuarsi nel tuo respiro di visitatore ormai preda, giù, fino alla gola, e avanti, fino ai polmoni, e ancora più a fondo, fino al cuore.
Il dipinto urla la follia e la bellezza, trapassandoti la mente come uno shock da alta tensione e gettandoti in un mondo dove non troverai più parole, né ragionamenti, né riflessione.
Potrai anche riuscire a staccartene, se ne avrai la forza. Ma sei, ormai e per sempre, perduto.


Ho potuto ammirare in questi giorni a Siena, in una delle sezioni della mostra “Arte, genio, follia”, alcuni dipinti originali di Antonio Ligabue. L’emozione che queste tele mi hanno suscitato è stata, come si può intuire, straordinariamente profonda e intensa.

domenica 22 marzo 2009

Una storia del nostro tempo


Una storia del nostro tempo, che non a caso ha come titolo il nome di un’automobile, lo status symbol per antonomasia, che si può esibire pubblicamente, a differenza ad esempio dell’abitazione, visibile solo a una cerchia ristretta di persone. Si tratta però di una Ford Gran Torino fabbricata nei primi anni ’70, a cui Kowalski (Eastwood), in un deserto di relazioni umane autentiche, è molto affezionato. Dunque, una storia del nostro tempo con le radici che affondano nel passato; non è un caso se il protagonista-regista è classe 1930.
Kowalski è un vecchio meccanico della Ford in pensione, che non ha mai abbandonato il suo Garand M1 dalla guerra di Corea, un fucile che lo accompagna quotidianamente insieme ad altre armi. Le prime scene ci mostrano il funerale dell’amata moglie, durante il quale le figure di figli e nipoti appaiono scialbe, opportuniste e quasi nauseanti; tali caratteristiche li accompagnano per tutta la durata del film, tanto che ad un certo punto Kowalski adotta e si fa adottare da una famiglia di vicini asiatici, da lui in precedenza manifestamente disprezzati.
Fra le molteplici tematiche che emergono nel film (razzismo, traumi della guerra malamente rimossi, società disgregata, vecchiaia, malattia, morte, assenza di valori e di modelli positivi, ecc.), non ultima è lo sfaldamento della famiglia (almeno quella occidentale), che presentato da un noto conservatore come Eastwood, ci offre un ulteriore motivo di riflessione.
Sentendosi sempre più lontano dai suoi, il vecchio reduce inizia a conoscere e a proteggere i vicini asiatici, che sono così simili ai suoi nemici coreani di un tempo. Scopre in loro una cultura con usanze stravaganti ai suoi occhi, ma che in compenso mostra gentilezza, gratitudine e rispetto per il prossimo.
Forse si assiste ad uno sviluppo un po’ retorico e moralistico, ma nell’assenza di una bussola etica, che caratterizza questi tempi, alcune certezze e un po’ di coraggio possono fare la differenza. E allora vediamo in azione il vecchio protagonista dai modi a volte fumettistici (ghigni di sdegno e disprezzo, espressioni granitiche, modi da duro), che castiga i giovanotti delle gang (non so quanto verosimilmente…).
Mentre su un versante si dedica all’attività del giustiziere solitario, dall’altro, Kowalski inizia ad occuparsi dell’adolescente vicino asiatico, che si è dimostrato ingenuo, imbranato, in balia degli eventi. L’educazione all’approccio dialogico, non senza una buona dose di autoironia, ci mostra il ragazzo asiatico apostrofare il barbiere italo-americano, amico del protagonista, con parole pesanti, offensive, sarcastiche ma “virili”. Possiamo non condividere una simile forma di relazionarsi, tuttavia viene da pensare che in una pesante assenza di affidabili modelli di riferimento per le nuove generazioni, meglio imparare un linguaggio rozzo e cinico con probabile annesso inaridimento emotivo, che rimanere in un vuoto insostenibile, anticamera di pericolosi sbandamenti verso alienazione, droga o reclutamento delle gang.
E’ un film che nonostante qualche pennellata di moralismo e di retorica, emoziona e forse ci dice che in un mondo dove valori e relazioni si vanno disgregando, l’amicizia, anche fra persone di “razze” diverse, a volte può contare molto più dei legami di sangue.

lunedì 9 marzo 2009

"Stella" di Sylvie Verheyde: la scuola e la vita


E’ una delle più famose foto di Robert Doisneau (“L'information scolaire”, Paris, 1956). Ne viene in mente anche un’altra, molto meno nota, guardando “Stella”, il bellissimo film di Sylvie Verheyde distribuito da Nanni Moretti; è sempre di Doisneau e s’intitola “Au coin”: “all’angolo”; “nel cantuccio”, si direbbe nell’antico toscano popolare; cioè in disparte, in castigo, ai margini, nella dimensione dell’esclusione; o in quella, invece, che dà la possibilità di guardare il mondo con altri occhi.


Non è rappresentato, nelle foto come nel film, il punto di vista dell’adulto: maestro, educatore, osservatore più o meno distante; e non c’è, neanche dietro le quinte, alcuna figura esemplare di insegnante capace di coinvolgere, trasfigurare, convertire alle gioie e delizie della cultura, secondo il topos ormai collaudato di molti films (anche belli, magari...) atti a redimerci dai nostri sensi di colpa e inadeguatezza. C’è, al contrario, una suggestione indefinibile, l'allusione a qualcosa di sfuggente e impalpabile; a un tesoro prezioso con il quale alcuni adulti hanno la ventura di venire a contatto come insegnanti o genitori e che resta alla fine inattingibile alla maggior parte di loro/noi; è ciò che ci fa amare quelle foto capaci di suscitare in noi tenerezza, e ancor più ci fa apprezzare il film, che, temo, circolerà poco e male. Era stato persino vietato ai minori di 14 anni (in Italia, naturalmente).
Dal mondo colorato della banlieue parigina degli anni ’70 la bambina-adulta viene proiettata, per caso e attraverso una coetanea, in una dimensione di vita inimmaginabile fatta di letteratura e musica, ma anche di riferimenti affettivi certi, in grado di fungere da cornice ai sogni adolescenti. Mentre la coetanea, ricca e valorizzata, getta a sua volta uno sguardo stupito e affascinato su una dimensione sconosciuta che le era stata interdetta nell'intento di proteggerla: quella della crudezza del mondo.
Gli occhi di Stella (che ha un pessimo profitto scolastico, almeno all'inizio del film) e quelli di Gladys (che è la prima della classe) dipingono il mondo distante della scuola.
Quella rappresentata nel film è definita come una scuola per ricchi. Una scuola che tutto sommato, però,propone modelli del tutto sovrapponibili, nel loro senso profondo, a quelli del bar operaio di periferia gestito dai genitori di Stella, ma della quale, alla fine, Stella saprà anche cogliere le opportunità senza esserne ingannata. Come accade a Truffaut adolescente che fugge da scuola per rifugiarsi, clandestino, nel buio di un cinema fumoso di sigarette o nel ventre ovattato e caldo della metropolitana a leggere Balzac e Dumas, la salvezza scaturisce da un altrove. Anche Stella incontra Balzac, Cocteau e persino Marguerite Duras di “Un barrage contre le Pacifique”: un libro non certo diffuso, ma considerato lettura raffinata ed elitaria, che tuttavia fa scorrere lacrime e sentimenti sulle guance della lettrice-bambina.

Un film intelligente; una lezione importante, nella stagione della lenta agonia della scuola.