domenica 22 marzo 2009

Una storia del nostro tempo


Una storia del nostro tempo, che non a caso ha come titolo il nome di un’automobile, lo status symbol per antonomasia, che si può esibire pubblicamente, a differenza ad esempio dell’abitazione, visibile solo a una cerchia ristretta di persone. Si tratta però di una Ford Gran Torino fabbricata nei primi anni ’70, a cui Kowalski (Eastwood), in un deserto di relazioni umane autentiche, è molto affezionato. Dunque, una storia del nostro tempo con le radici che affondano nel passato; non è un caso se il protagonista-regista è classe 1930.
Kowalski è un vecchio meccanico della Ford in pensione, che non ha mai abbandonato il suo Garand M1 dalla guerra di Corea, un fucile che lo accompagna quotidianamente insieme ad altre armi. Le prime scene ci mostrano il funerale dell’amata moglie, durante il quale le figure di figli e nipoti appaiono scialbe, opportuniste e quasi nauseanti; tali caratteristiche li accompagnano per tutta la durata del film, tanto che ad un certo punto Kowalski adotta e si fa adottare da una famiglia di vicini asiatici, da lui in precedenza manifestamente disprezzati.
Fra le molteplici tematiche che emergono nel film (razzismo, traumi della guerra malamente rimossi, società disgregata, vecchiaia, malattia, morte, assenza di valori e di modelli positivi, ecc.), non ultima è lo sfaldamento della famiglia (almeno quella occidentale), che presentato da un noto conservatore come Eastwood, ci offre un ulteriore motivo di riflessione.
Sentendosi sempre più lontano dai suoi, il vecchio reduce inizia a conoscere e a proteggere i vicini asiatici, che sono così simili ai suoi nemici coreani di un tempo. Scopre in loro una cultura con usanze stravaganti ai suoi occhi, ma che in compenso mostra gentilezza, gratitudine e rispetto per il prossimo.
Forse si assiste ad uno sviluppo un po’ retorico e moralistico, ma nell’assenza di una bussola etica, che caratterizza questi tempi, alcune certezze e un po’ di coraggio possono fare la differenza. E allora vediamo in azione il vecchio protagonista dai modi a volte fumettistici (ghigni di sdegno e disprezzo, espressioni granitiche, modi da duro), che castiga i giovanotti delle gang (non so quanto verosimilmente…).
Mentre su un versante si dedica all’attività del giustiziere solitario, dall’altro, Kowalski inizia ad occuparsi dell’adolescente vicino asiatico, che si è dimostrato ingenuo, imbranato, in balia degli eventi. L’educazione all’approccio dialogico, non senza una buona dose di autoironia, ci mostra il ragazzo asiatico apostrofare il barbiere italo-americano, amico del protagonista, con parole pesanti, offensive, sarcastiche ma “virili”. Possiamo non condividere una simile forma di relazionarsi, tuttavia viene da pensare che in una pesante assenza di affidabili modelli di riferimento per le nuove generazioni, meglio imparare un linguaggio rozzo e cinico con probabile annesso inaridimento emotivo, che rimanere in un vuoto insostenibile, anticamera di pericolosi sbandamenti verso alienazione, droga o reclutamento delle gang.
E’ un film che nonostante qualche pennellata di moralismo e di retorica, emoziona e forse ci dice che in un mondo dove valori e relazioni si vanno disgregando, l’amicizia, anche fra persone di “razze” diverse, a volte può contare molto più dei legami di sangue.

2 commenti:

bruno sales ha detto...

Come un conservatore statunitense possa, nei film che dirige, scavare così a fondo nell'humus di certi stereotipi culturali americani da riuscire a trarne intatta l'essenza dell'animo umano, utilizzando un linguaggio cinematografico mai banale e raggiungendo, in alcune sequenze, vette poetiche altissime, resta per me un mistero.
E il mistero Eastwood si infittisce dopo questo 'Gran Torino', un film spiazzante per la non convenzionalità del messaggio, che sembra riassumere una lunga e sofferta riflessione del regista sulle contraddizioni della società americana, oggi sempre più somiglianti a quelle di casa nostra.

maria antonella galanti ha detto...

“Cos’è-dov’è la famiglia per me?” Mi sono chiesta tante volte nel corso dell’esistenza. “E’ dove ci si sente a casa”. Mi sono sempre risposta. Ogni volta pensando che non sono i legami di sangue di per sé, ma quelli di solidarietà che ci fanno sentire a casa. Non è in crisi la famiglia, secondo la rappresentazione terroristica della disgregazione del modello attuale che ci viene offerta, ma il suo aspetto contrattuale; e lo è a favore di quello affettivo che, finalmente, assume maggiore rilievo. Si sceglie di stare insieme perché insieme si sta bene, non in virtù di un contratto, di un patto difensivo (nei confronti degli altri) e di sangue che si traduce spesso in omertà, egoismo, violenza. La violenza si annida, non di rado, proprio nel cuore dei vincoli di parentela e tanto più quanto più tali vincoli non permettono a ciascuno di essere se stesso senza perdere l’appoggio solidale degli altri membri. Questo, in fondo, si rappresenta (con una buona e apprezzabile dose di ironia, soprattutto nelle parti di esibizione delle virtù mascoline) anche nel bel film di Clint Eastwood.