domenica 25 aprile 2010

La meglio gioventù

Ora che anche questo 25 aprile di 65 anni dopo sta per andarsene, vorrei ricordare qualcuno a cui, nonostante la giovane età, fu precluso vedere il ritorno del verde di primavera e la rinascita della speranza legata a questo storico giorno.
Mi limito a tratteggiare le loro biografie: due realtà diverse che hanno in comune una famiglia antifascista, una laurea da poco conseguita, l’anno di nascita (1919), una coscienza critica ed etica che li eleva sicuramente al di sopra della media.

Armando Ottaviano, nato nella provincia di Chieti si trasferisce a Roma con la famiglia, anche per le idee del padre socialista. In quanto sorvegliato politico non ha un’occupazione stabile e si arrangia con lavori saltuari di manovalanza. Armando frequenta l’istituto professionale ma poi riesce a prendere la maturità classica e a laurearsi in lettere con una tesi su Francesco IV di Modena, che è conservata in una bacheca del Museo di via Tasso a Roma. Non è stata una impresa facile nella università elitaria dell’epoca, non lo è stata neanche economicamente: le sorelle interruppero gli studi per aiutare il fratello meritevole, e la madre lavora come lavandaia. Roma è occupata dai nazisti e Armando milita con Bandiera Rossa, un movimento alla sinistra del PCdI, ma di fatto collabora con la Matteotti costituita da socialisti. La notte del 21 marzo 1944, alle ore tre, membri della banda Koch lo prelevano da casa, viene portato al settimo braccio del carcere di Regina Coeli e da lì condotto alle Fosse Ardeatine.

Federico Ferrari è di Cremona, nasce in una famiglia borghese e molto cattolica. Il padre, avvocato, è un seguace di Guido Miglioli (per le sue avanzati programmi sociali fu espulso dal partito popolare, e nel dopoguerra la DC non accettò la sua iscrizione), uno dei fondatori del partito popolare a Cremona e antifascista. E’ anche musicista e critico letterario nonché animatore di incontri culturali nella sua casa. Passioni che trasmette al figlio insieme a intelligenza e sensibilità fuori dal comune. Muore prematuramente, lasciando un vuoto profondo in Federico appena sedicenne. Il ragazzo, conseguita la maturità, si iscrive a giurisprudenza, seguendo le orme del padre. La guerra lo porta in Russia, come ufficiale degli alpini, ed è uno dei pochi a tornare sano e salvo da quell’inferno di ghiaccio. Fa appena in tempo a rientrare da casa per una licenza che una nuova avventura lo attende. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre, è catturato dai nazisti e, poiché decide di non optare per la Repubblica di Salò, viene internato nei lager in Polonia e in Germania. Verrà ucciso per vendetta da un nazista a guerra quasi conclusa, il 24 aprile 1945. Testimonianze affermano che gli assassini vennero salvati a stento dal linciaggio della popolazione civile, perché evidentemente era riuscito a costruire un buon rapporto con gli abitanti del luogo.

Riportare alla luce le storie degli uomini del passato, forse può renderci migliori non solo culturalmente, ma anche da un punto di vista morale. Penso ora ai passi della ‘Divina Commedia’, dove varie anime chiedono con insistenza a Dante di essere ricordate al mondo dei vivi. Cercare di salvare la memoria di persone che hanno subito delle gravi ingiustizie, può rappresentare un parziale risarcimento, una sorta di consolazione per i vivi e forse, ovunque si trovino, per i ragazzi della nostra meglio gioventù.

mercoledì 21 aprile 2010

Fare politica per desiderio di felicità.

Un tempo, per molti, la politica era passione e nasceva dalla rabbia e dal desiderio: di difendere il vecchio mondo rassicurante, per alcuni, o di costruire un mondo nuovo, per altri. Accanto alla politica come passione, però, è sempre stato presente un altro modo di concepirla, venato di moralismo, grigio, rigido. Un modo ormai vecchio e poco accattivante, ma inesorabilmente in incremento perché del tutto consono ai tempi che viviamo, caratterizzati dalla valorizzazione del calcolo, del cinismo e dell’indifferenza. Si tratta di un modo di concepire la politica trasversale rispetto a persone di diversa appartenenza partitica; e quasi par che ci sia un ammiccarsi reciproco, una complicità da parte di alcuni, di opposti schieramenti, nel continuare a praticarlo.
Questo vecchio modo di intendere la politica è rassicurante, in un certo senso, perché si lega molto alla paura; la politica si presenta, in questo caso, come una pratica di difesa, un modo per dare voce alla propria diffidenza nei confronti dell’altro che potrebbe toglierti tutto: il lavoro, gli affetti e gli averi, persino l’identità. La politica diviene, allora, costruzione di un’identità esclusivamente in negativo, di un’identità per differenza e sottrazione, di un’identità “contro”. Dall’una e dall’altra parte c’è un “noi”, spesso legato a un patto di silenzio o di omertà, e un nemico esterno; ci sono le virtù e le ragioni del territorio del “noi” e i difetti e i torti del territorio del nemico. Territori, confini, recinti, incapacità di trasformare se stessi per trasformare creativamente il mondo: le parole d’ordine delle quali è intessuto questo modo di fare politica, che oggi sembra godere di un rinnovato vigore e credibilità, sono la diffidenza, la paura, l’intolleranza per le differenze individuali e il desiderio di omologazione simbiotica come sinonimo di appartenenza. La politica si appiattisce, così, alla dimensione di tecnica e in questo modo facilmente scivola nel calcolo, nella menzogna, nell’autogiustificazionismo, trasformandosi in rincorsa competitiva del linguaggio del “nemico” e così rinunciando al proprio. Le categorie tradizionali di questo modo di concepire la politica sono legate all’idea di “pubblico” inteso come nettamente contrapposto a “privato”; di ambiti istituzionali distanti rispetto alla società civile (ridotta alla somma dei votanti) e di conta numerica: importano i voti, ma non le idee che riempiono la testa dei votanti e le loro convinzioni profonde. La politica, garzie a questo modo di concepirla, non certo minoritario, purtroppo, vive ormai da tempo la sua lenta, inarrestabile agonia; ma l’unica alternativa sembra quella del vuoto, della mancanza di orizzonti, dell’incapacità di volare alto sopra la terra per guardarla con occhio critico e perciò distante, ma continuamente ridiscendere e abitarla, nello stesso tempo, con il cuore, con le viscere, con le lacrime, con la rabbia e con la capacità di godere della compagnia degli altri esseri umani e delle cose belle e buone del mondo. La crisi della politica va letta uscendo fuori dalle sue categorie tradizionali e utilizzando, invece, concetti e termini che siamo abituati a collocare in ambiti diversi relegandoli nella sfera del privato, dell’intimo, dell’individuale. Come il concetto di “felicità”, per quanto ambiguo, subdolo, sfuggente alla definizione possa essere. Concetto che spesso ci ostiniamo a pensare come assoluto (e proprio così, perseguendolo, ci rendiamo infelici) anziché come venato anche di sentimenti diversi quali la nostalgia, l’inquietudine e, talvolta, la stessa tristezza.

La felicità, è vero, può essere intesa come conseguenza della pura soddisfazione dei propri bisogni individuali, dai più nobili e alati ai più concreti, e in questa accezione si coniuga con l’egoismo. Ma in totale contrapposizione c’è un altro possibile modo di intenderla – che poi è quello nel quale mi riconosco – e cioè come conseguenza dello stare bene con se stessi e con gli altri: non solo in riferimento a quei pochi che ci sono intimi e che amiamo di diverse specie di amore, ma alla comunità della quale facciamo parte o, se vogliamo, all’umanità intera.

Si può fare politica per mestiere, per abitudine, per ambizione, per narcisismo e ,qualche volta, persino per espiazione. E si può invece farla per dare voce a un desiderio prepotente, irrefrenabile, non di rado intrecciato con la rabbia, di trasformare il mondo, i rapporti degli esseri umani tra di loro e con la natura. Si può fare politica, insomma, per desiderio di felicità; o, per meglio dire, di felicità condivisa (per me non sarebbe neanche tale, altrimenti) resa possibile da da pratiche di giustizia sociale, ma anche da sentimenti di solidarietà e di fiducia negli altri. Occorre, forse, tornare a fare politica prima di tutto per passione: perché la passione è contagiosa e coinvolgente e rappresenta la più efficace motivazione all’agire creativo.


mercoledì 14 aprile 2010

Coniugare "distanza" e "vicinanza", in politica e in amore.


Quando siamo molto piccoli pensiamo i rapporti affettivi in termini simbiotici. E’ attraverso un percorso psichico assai faticoso che impariamo, se tutto va bene, ad attraversare la distanza dall’altro che si ama e ad acquisire la consapevolezza che la forza di un legame è data dalla capacità di tenerlo dentro di noi. Tuttavia, anche da adulti ci si rende spesso infelici pensando che volere bene significhi farsi uguali, avere gli stessi comportamenti improntati agli stessi valori, frequentare gli stessi luoghi e persone, professare le stesse idee politiche o religiose. E’ quanto succede, per esempio, tra genitori e figli e il rapporto s’incrina nell’incapacità di riconoscere e accettare le differenze che si determinano con il trascorrere delle generazioni; poiché i figli, una volta adolescenti e poi giovani adulti, devono intraprendere un proprio percorso per vivere esperienze al di fuori di quelle condivise nel gruppo familiare di origine, incontrando persone che portano parole o emozioni nuove.

Penso spesso al fatto che siamo abituati a considerare “distanza” e “vicinanza” come due termini del tutto opposti. O si è coinvolti o si è indifferenti. O si è immersi completamente in una dimensione di vita o le si è estranei. E' quanto accade anche a proposito della politica: un territorio che non abito direttamente, in questo momento della mia vita (non ho tessere, non frequento sedi...), ma rispetto al quale, tuttavia, non riesco a sentirmi indifferente. Mi arrabbio, dalla mia distanza (o presunta tale), di quelle che a volte mi appaiono come incoerenze manifeste della parte che sento più vicina alla mia visione del mondo. Mi arrabbio quando il linguaggio scimmiotta, sia pure inconsapevolmente, quello dell’avversario. Mi arrabbio quando in nome del realismo viene derisa la motivazione profonda che è alla base di ogni desiderio di trasformazione del mondo: la capacità di appassionarsi, di rischiare, di mettersi in gioco con i propri sogni, di ricordare che la politica riguarda il desiderio di felicità, di una qualità della vita migliore per tutti in un mondo che sia capace di misurare il proprio grado di civiltà a partire dalla disponibilità a farsi carico di chi è più fragile, contrattualmente debole, incapace di difendersi con lo strumento raffinato della parola.

Vorrei riuscire a essere insieme distante e vicina rispetto alla dimensione della politica: in grado di coinvolgermi, appassionarmi, sperare in ciò che appare difficilmente realizzabile e nello stesso tempo restare anche un po’ distante, cioè capace di sguardo critico, di nutrire dubbi e valorizzare l’inquietudine. In questo modo un partito potrebbe funzionare bene: se riuscisse a coniugare passione e dubbio autocritico, mettendosi in discussione quando necessario, accettando come tali le sconfitte e facendone tesoro per nuove e più profonde riflessioni.

Penso, in parallelo, che lo stesso ragionamento valga per i rapporti interpersonali: l'amicizia, la genitorialità e persino, o soprattutto, l’amore. Una buona relazione, che sia di sostegno reciproco, di complicità solidale, non deve essere basata sull’annullamento delle differenze, dei dubbi, delle inquietudini. Omologarsi all’altro, credo, non esprime quasi mai il fatto che lo amiamo di più, ma piuttosto che ne abbiamo paura di più e in qualche modo cerchiamo di compiacerlo per non essere rifiutati. Proprio così, però, il rapporto che lega le persone si carica di distruttività: perché la creatività nasce dove c’è capacità di coniugare le differenze e integrare distanza e vicinanza. In politica, come in amore, bisogna avere curiosità e coraggio e imparare, da Alice (nel paese delle meraviglie), ad attraversare lo specchio:cioè uscire fuori da una dimensione di realtà e prenderne le distanze per tornare a visitarla con occhi nuovi e disposti a vedere.

lunedì 5 aprile 2010

Giungla di carrelli


Mi è capitato, sabato scorso, di dovermi avventurare al supermercato (è proprio il caso di usare questo verbo, dato che era la vigilia di Pasqua). Una volta riconsiderata e per l’ennesima volta dovuta scartare la possibilità di farne a meno ho scelto l’ora di minor frequenza, quella del pranzo. La situazione, però, è apparsa subito insopportabile: improvvisamente mi sono trovata imprigionata in una giungla di carrelli guidati goffamente da persone nevrotizzate, tutte prese dall’accumulo insensato: non solo di cibi e bevande, ma anche di uova, conigli, paperi, capretti, pulcini e agnelli di peluche, campanine in miniatura e simili insulsi simboli che ora ho quasi pudore a elencare al completo. Un amico che se ne stava uscendo mentre entravo, con la faccia disgustata come la mia, mi ha raccontato di avere appena assistito a uno scontro tra carrelli con il ribaltamento di uno dei due e il rovesciamento del suo contenuto seguito dallo scontato litigio tra i guidatori.

Guardo sconsolata i carrelli ricolmi in maniera iperbolica (nemmeno si trattasse di dover accumulare riserve in vista di un conflitto mondiale) che si incrociano e sfrecciano davanti a me prendendo rapidamente la fisionomia di un incubo diurno a occhi aperti. Poi passo in rassegna, sbigottita, le torri baroccheggianti di colombe farcite in mille estrosi modi e di carni che li riempiono: quei carrelli mi sembrano quasi grondare sangue, colare vistosamente grassi di ogni specie, olezzare in anticipo prefigurando i futuri soffritti, fritti, arrosti e così via.

Amo la buona tavola e ancora di più la possibilità di condividerla con persone amiche: tuttavia, in queste circostanze, sono colta da una specie di nausea, alla prospettiva. Ma non è il cibo che mi disgusta: sono le persone che lo accatastano nei carrelli con mani adunche e si guardano come nemici, con sguardi cattivi e minacciosi: c’ero prima io, l’avevo visto io l’uovo con sorpresa-per giovane-ragazzina-non-più-bambina, io quello con i gormiti, mi dispiace se le sono passata su un piede con il carrello, ma d’altra parte è colpa sua che sta in mezzo senza muoversi, faccia la fila come tutti ... e così via. Che brutta umanità si trova in giro per essere la vigilia di una festa tutta color pastello e fiorellini della primavera!

E’ uno sguardo diverso sulla stessa deriva che ha portato alla recente delusione elettorale, gettato su uno spicchio di quotidianità apparentemente distante dalla politica e dalla sua crisi; apparentemente, perché la crisi della politica è crisi della partecipazione dal basso, cioè della capacità di esercitare la cittadinanza per essere invece considerati (e considerarsi) solo o prevalentemente come consumatori. Esistere, ormai, ed essere riconosciuti come esistenti, sembra significare solo questo: consumare. Solo gli oggetti (e il cibo, tra questi) sembrano esprimere simbolicamente il possesso di un’identità forte e stabile. Non li selezioniamo neanche più in base al fatto che ci sono utili o, almeno, che ci potrebbero servire, o perché alcuni ci piacciono più di altri, ma solo per il gusto (o il dovere) di accumularli, di averne di più, di più, di più: più di tutti! Così ci comportiamo rispetto al cibo, oggetto fra gli oggetti, simbolo di benessere e, dunque, perversamente destinato allo spreco e non più asservito al piacere naturale di gustare i doni della terra, rispettandola. L’imperativo è quello di accumularne senza porsi limiti né domande e poi gettare i'enorme sopravanzo nel pozzo senza fondo dei rifiuti che basterebbero – sembra - da soli, a eliminare la fame nel mondo.