lunedì 5 aprile 2010

Giungla di carrelli


Mi è capitato, sabato scorso, di dovermi avventurare al supermercato (è proprio il caso di usare questo verbo, dato che era la vigilia di Pasqua). Una volta riconsiderata e per l’ennesima volta dovuta scartare la possibilità di farne a meno ho scelto l’ora di minor frequenza, quella del pranzo. La situazione, però, è apparsa subito insopportabile: improvvisamente mi sono trovata imprigionata in una giungla di carrelli guidati goffamente da persone nevrotizzate, tutte prese dall’accumulo insensato: non solo di cibi e bevande, ma anche di uova, conigli, paperi, capretti, pulcini e agnelli di peluche, campanine in miniatura e simili insulsi simboli che ora ho quasi pudore a elencare al completo. Un amico che se ne stava uscendo mentre entravo, con la faccia disgustata come la mia, mi ha raccontato di avere appena assistito a uno scontro tra carrelli con il ribaltamento di uno dei due e il rovesciamento del suo contenuto seguito dallo scontato litigio tra i guidatori.

Guardo sconsolata i carrelli ricolmi in maniera iperbolica (nemmeno si trattasse di dover accumulare riserve in vista di un conflitto mondiale) che si incrociano e sfrecciano davanti a me prendendo rapidamente la fisionomia di un incubo diurno a occhi aperti. Poi passo in rassegna, sbigottita, le torri baroccheggianti di colombe farcite in mille estrosi modi e di carni che li riempiono: quei carrelli mi sembrano quasi grondare sangue, colare vistosamente grassi di ogni specie, olezzare in anticipo prefigurando i futuri soffritti, fritti, arrosti e così via.

Amo la buona tavola e ancora di più la possibilità di condividerla con persone amiche: tuttavia, in queste circostanze, sono colta da una specie di nausea, alla prospettiva. Ma non è il cibo che mi disgusta: sono le persone che lo accatastano nei carrelli con mani adunche e si guardano come nemici, con sguardi cattivi e minacciosi: c’ero prima io, l’avevo visto io l’uovo con sorpresa-per giovane-ragazzina-non-più-bambina, io quello con i gormiti, mi dispiace se le sono passata su un piede con il carrello, ma d’altra parte è colpa sua che sta in mezzo senza muoversi, faccia la fila come tutti ... e così via. Che brutta umanità si trova in giro per essere la vigilia di una festa tutta color pastello e fiorellini della primavera!

E’ uno sguardo diverso sulla stessa deriva che ha portato alla recente delusione elettorale, gettato su uno spicchio di quotidianità apparentemente distante dalla politica e dalla sua crisi; apparentemente, perché la crisi della politica è crisi della partecipazione dal basso, cioè della capacità di esercitare la cittadinanza per essere invece considerati (e considerarsi) solo o prevalentemente come consumatori. Esistere, ormai, ed essere riconosciuti come esistenti, sembra significare solo questo: consumare. Solo gli oggetti (e il cibo, tra questi) sembrano esprimere simbolicamente il possesso di un’identità forte e stabile. Non li selezioniamo neanche più in base al fatto che ci sono utili o, almeno, che ci potrebbero servire, o perché alcuni ci piacciono più di altri, ma solo per il gusto (o il dovere) di accumularli, di averne di più, di più, di più: più di tutti! Così ci comportiamo rispetto al cibo, oggetto fra gli oggetti, simbolo di benessere e, dunque, perversamente destinato allo spreco e non più asservito al piacere naturale di gustare i doni della terra, rispettandola. L’imperativo è quello di accumularne senza porsi limiti né domande e poi gettare i'enorme sopravanzo nel pozzo senza fondo dei rifiuti che basterebbero – sembra - da soli, a eliminare la fame nel mondo.

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