sabato 20 novembre 2010

Come perdere le elezioni con il marketing politico

Alcuni manuali sottolineano con enfasi l’importanza del marketing politico nel determinare l’esito vittorioso delle campagne elettorali e nel garantire il consenso. Ci sono testi che lo evidenziano fin dal titolo, come il volume Winning Elections with Political Marketing, curato da Philip John Davies e Bruce I. Newman, oppure il saggio (E)lezioni di successo di Cattaneo e Zanetto, che si presenta esplicitamente come manuale di marketing politico. Sorvolando sulla complessità della questione, che a rigore impedirebbe di guardare al marketing politico come unica condizione determinante, per quanto influente, sull’esito delle elezioni, suggeriamo di ribaltare il punto di vista. Nel corso degli ultimi anni, ho raccolto abbastanza materiali per scrivere un libro che si potrebbe intitolare COME PERDERE LE ELEZIONI CON IL MARKETING POLITICO.

Oggetto d’indagine sarebbe, principalmente, la storia di partiti e candidati politici che si sono detti in vario modo, con maggiore o minore convinzione, “di sinistra”. Per comprendere la natura del problema, dobbiamo intrecciare due storie: quella del marketing politico – che ha radici negli anni Cinquanta ma si sviluppa sensibilmente in Europa a partire dalla fine degli anni Settanta – e quella dell’evoluzione dei principali partiti verso la forma del “partito pigliatutto”, ovvero di un partito fondato non più su visioni d’insieme della società umana e del “vivere bene”, ma sull’opinione di volta in volta prevalente nei sondaggi.

Ci si è inizialmente affidati al marketing e alle tecniche dell’advertising per affrontare i format e gli stili comunicativi imposti dalla televisione – sviluppando le precedenti tecniche di “propaganda” – e, soprattutto negli anni Novanta, per compensare il deficit di legittimazione della classe politica e l’incapacità di elaborare narrazioni e visioni del mondo su cui confliggere e cercare consenso.

Affidandosi al marketing politico, in occasione degli appuntamenti elettorali e durante le “campagne permanenti” tra un’elezione e l’altra, l’arcipelago delle “sinistre” italiane ha finito col cadere spesso in alcuni frames della destra, anzitutto nel frame dei frames della destra: quello della comunicazione politica spettacolarizzata, incentrata sul leader telegenico e su altri personaggi mediaticamente visibili. Il sondaggio, lo slogan, il maquillage ed il collage dei simboli sono diventati aspetti cruciali su cui concentrarsi, accettando come tendenza irreversibile quella della “politica pop”. Tutto questo – e non il solo Berlusconi col suo seguito – è il berlusconismo.

È nella logica del “partito pigliatutto” il tentativo di stare sia a sinistra che al centro. Se si sceglie questa opzione, a definire l’equilibro migliore non potrà che essere, di volta in volta, l’ultimo sondaggio e, possibilmente, la disponibilità di un leader al tempo stesso capace di entusiasmare e di accomodare. Ecco che la disperata ricerca di un leader dalla doppia personalità – abbastanza di sinistra e abbastanza di centro – prevale sulla preoccupazione per idee nette sulle relazioni sociali, sui diritti, sull’ambiente, sull’eguaglianza, sulla differenza, sulla laicità, sul merito e così via. Si arrivano a preferire imprenditori o personaggi mediatici, che poi si dichiarano “trascinati” in politica, a tante donne ed uomini che sono cresciuti impegnandosi socialmente e politicamente.

Chi ha preteso di collocarsi in una posizione di sinistra “autentica” e non disposta a compromessi, è stato altrettanto cedevole nei confronti dei frames della “politica pop”. Perciò si è arrivati a paragonare a Barack Obama una Vladimir Luxuria vittoriosa all’Isola dei Famosi, sognando di tradurre i televoti in voti. Un caso di studio singolare è rappresentato dal simbolo con cui, durante una campagna elettorale, il Partito della Rifondazione Comunista di Paolo Ferrero e quello dei Comunisti Italiani di Oliviero Diliberto hanno segnalato la propria disponibilità ad unirsi elettoralmente: nella cornice del simbolo, oltre a “Socialismo 2000”, “Sinistra europea”, “GUE/NGL”, compariva la denominazione “Consumatori uniti”. Merita un approfondimento il fatto che in un Paese così ricco di idee da elaborare due varianti del comunismo, talmente definite da dividersi in due partiti distinti (per quanto elettoralmente unibili), ci si presenti come comunisti e come consumatori uniti. Meriterebbe un saggio a parte lo scivolamento d’accento così esibito, dal lavoro e dal vecchio appello all’unione dei lavoratori al consumo e all’unione dei consumatori.

La storia degli ultimi anni insegna che concentrarsi solo sul packaging non premia. Non si può certo prescindere, con un esame di realtà, dal tener conto dell’evoluzione delle piattaforme mediali e dagli stili comunicativi che esse, per certi versi, impongono. Ma il lavoro sui frames e sulle parole chiave non può prescindere da quello sui contenuti e sulla riapertura di spazi pubblici, in cui confliggere sulle idee e sulle proposte. Concentrarsi sul packaging produce disaffezione in chi sarebbe più disposto a “prender parte” e ad impegnarsi. La storia degli ultimi anni insegna che, se anche il marketing politico può aiutare a vincere le elezioni, non basta a far durare un governo per un’intera legislatura e, soprattutto, non basta a fare davvero politica.

domenica 24 ottobre 2010

Miseria culturale e macabri gitanti

“Quando l’unico imperativo di una società è quello che la chiama a godere, ciò di cui si finisce inevitabilmente per godere è la crudeltà.” È una frase del filosofo Alain Badiou, citata giorni fa da Antonio Scurati in un suo intervento a Parla con me. La prima associazione che viene di fare è probabilmente quella con l’antica Roma e gli spettacoli di fiere e gladiatori, e poi la guerra, dove tutto è concesso, e dunque sembra lo sbocco ideale, fisiologico di una società avviata a godere della crudeltà. Ma nell’impero romano i valori erano ben diversi da quelli di oggi e la guerra di conquista era il motore primo che muoveva l’economia, la politica, su di essa Roma aveva fondato la propria esistenza: dopo aver conquistato tutto il conquistabile iniziò il suo declino. Tuttavia la crudeltà fine a se stessa non giova neanche a una conduzione razionale della guerra, perché non è producente fare azioni che non convengono all’economia bellica, soprattutto nella fase in cui si devono gestire i popoli assoggettati. E difatti (secondo un’antica tradizione storiografica) la decadenza di Roma fu causata anche dalla corruzione dei costumi.
Venendo al nostro tempo, alla morbosa attenzione che circonda certi episodi di cronaca nera e in questi giorni i fatti di Avetrana, penso che non poche responsabilità siano da attribuire a persistenti politiche volte all’impoverimento culturale del paese. Le gite macabre nel luogo del delitto avvengono come se si andasse a visitare il sito dove fu bruciata Giovanna D’Arco o lasciata morire d’inedia Pia de’ Tolomei o decapitata Beatrice Cenci. È mai possibile che si confonda così facilmente, in un modo becero e insieme disarmante e inquietante la storia con l’attualità. I genitori che mostrano ai figli piccoli la scena del delitto, riportano alle mente le pubbliche esecuzioni di epoche pre-illuministiche o quelle delle mafie. Sarà forse colpa dell’appiattimento sensazionalistico di certa TV, che ha (mal)educato gli spettatori a seguire eventi storici non per conoscere il passato (come si vorrebbe dare a intendere) ma per un banale appagamento di inclinazioni pruriginose o – molto peggio – di pulsioni di crudeltà.
Forse si è manifestato qualcosa già latente da tempo, forse si può ipotizzare la seguente equazione: i gitanti del macabro stanno all’imbarbarimento del costume degli italiani come le torri gemelle stanno al mutamento degli equilibri internazionali. Sta di fatto che il sindaco di Avetrana ha dovuto proibire con un’ordinanza il pellegrinaggio presso le abitazioni dei parenti della vittima, e non ricordo che ci siano precedenti del genere a seguito di simili episodi di cronaca nera di ambito familiare.
Per par condicio si potrebbe chiedere al Presidente della Repubblica di promulgare un’ordinanza simbolica che abolisca tutte le trasmissioni che speculano su questi disgraziati casi, facendo sentire il morboso spettatore dalla parte del bene perché a commettere azioni empie che tanto seducono la sua attenzione, sono sempre gli altri, veri o presunti colpevoli poco importa. È vero che molte persone tendono ormai a confondere la realtà con la finzione, poiché in televisione da alcuni anni il reality è fiction e la fiction è reality; come è vero che simili spettacoli consentono a milioni di spettatori nascosti nelle proprie confortevoli abitazioni, di fare quello che centinaia o migliaia di gitanti hanno fatto e (verosimilmente) continueranno a fare sotto gli occhi di tutti.

martedì 19 ottobre 2010

un mattone da sogno

So che molti non saranno d’accordo ma preferisco non tacere: Inception, checché ne abbia detto la critica, su di me che non sono un fan del genere videogame tecnologico e che dunque non so apprezzare il prodigio di simili artifici visivi, ha avuto l’effetto di una mattonata. La continua intrusione nei sogni altrui per dirottarli a tutto vantaggio di operazioni di spionaggio industriale, mi ha dirottato verso Shutter Island (sempre con Di Caprio) e Avatar (che ho trovato più ‘umano’ e coinvolgente) e poi Matrix (certamente di un altro spessore) che forse è la madre di questo recente filone cinematografico che mette in dubbio la realtà e le sue certezze. Sembra quasi che a fronte dei cambiamenti, della caduta dei valori, dell’ipocrisia destabilizzante, l’inquietudine sia tale che si cerchi rifugio nel sogno: niente paura se va tutto alla deriva, la vera realtà è ben riposta nei nostri sogni.

Probabilmente anche il successo delle saghe filo-vampiresche deriva dalla medesima radice: un bisogno di evasione da una realtà che non corrisponde alle aspettative, che appare minacciosa, che non si riesce a decifrare. Sembra però trattarsi di un’evasione fine a se stessa, un rifugio individualistico, infecondo che anestetizza temporaneamente e poco spazio accorda alla riflessione e alla conoscenza.

sabato 16 ottobre 2010

La meraviglia dell'indifferenza

Due fatti tragici di pochi giorni fa: a Milano un tassista investe un cocker che non è riuscito ad evitare, esce per giustificarsi, viene linciato e versa in gravi condizioni; a Roma, a seguito di un banale diverbio, un ragazzo colpisce una donna con un pugno che avrà esiti fatali.
Ho visto in tv politici invitati a commentare questi fatti, lamentarsi dell’indifferenza, della scarsa solidarietà, della mancanza di senso civico da parte dei cittadini, tirando in ballo anche le agenzie educative che non svolgono bene il loro compito. Hanno però dimenticato di commentare anche l’esempio che viene dall’alto. Che dire dell’indifferenza nei confronti di precari e disoccupati che, anzi, vengono presentati come colpevoli perché non in grado di guadagnare e consumare? Dell’indifferenza nei confronti di chi pur incassando uno stipendio medio-basso non è in condizione di comprare o affittare una casa a causa della “bolla immobiliare”… Lavoro e casa, diritti fondamentali in ogni paese civile, che vengono bellamente ignorati a tutto vantaggio di chi diventa sempre più ricco speculandoci sopra. E ancora, con quale coraggio si tirano in ballo le agenzie educative, visto il trattamento riservato alla scuola pubblica ridotta al collasso dall’accanimento dei tagli, della burocrazia, del cambiamento continuo dei programmi, e che, tra l’altro, è anch’essa vittima dell’indifferenza dello Stato nei confronti del disagio di alunni, docenti, genitori. Per non parlare delle paure indotte dai mass-media che generano insicurezza e diffidenza, dello spettro dei clandestini, di aviarie e mucche pazze, delle amplificazioni morbose di episodi delittuosi che si prestano a fare audience... Alla luce di tutto questo e di tanto altro, se fossi un politico (specie selegato alla compagine governativa) non penso che farei una bella figura a meravigliarmi o a stigmatizzare l’indifferenza o la paura del comune cittadino.

lunedì 4 ottobre 2010

Il punto

Ieri pomeriggio ho fatto un salto a San Giovanni per rendermi conto dell’entità della manifestane del popolo viola. Neanche io ero al corrente che si fosse organizzato un nuovo No-B-Day. L’ho sentito al giornale radio sabato mattina. Non che faccia parte del movimento viola, ma che le cose in questo paese non vadano al meglio lo vedo chiaramente. Non appena ho potuto guardare oltre le mura che delimitano la piazza mi sono reso conto che l’affluenza era scarsa. Niente a che vedere col fiume interminabile di gente dello scorso dicembre e neppure con la più contenuta manifestazione di piazza del Popolo a marzo. Significa che la spinta propulsiva si è già esaurita? Può darsi, anche se non si può certo dire che la situazione sia migliorata.
Mandiamo truppe all’estero esponendo i soldati e mille rischi, ma possiamo in tutta coscienza affermare di riuscire a controllare il nostro territorio? Chi ha letto Gomorra o ha visto il film (che tra l’altro RaiTre ha trasmesso venerdì sera) si può rendere conto che zone del paese, alcune a poco più di cento chilometri da Roma, vivono un feroce medioevo di barbarie e violenza, dove il cittadino onesto è senza difese e senza dignità, zone che sembrano più lontane dalla civiltà (senso civico) e dalla democrazia dell’Africa nera o del nazismo di Hitler. Non entro nelle altre questioni: barzellette o quartierini offshore con tutto quello che si trascinano dietro. Mi limito a concludere con input positivi (o quasi).
Lo slogan della manifestazione: svegliati Italia!
L’intervento dell’ottimo Rodotà, che si rammarica della memoria (tragicamente) corta degli Italiani e invita tutti a fare un passo indietro, cioè a rinunciare a piccoli o grandi privilegi, per cambiare il paese.
E il sorprendente storico inglese Paul Ginsborg che in un periodo di grande, disperata fuga di cervelli, si dice fiero di essere diventato cittadino italiano.

martedì 31 agosto 2010

Pubblicità ingannevole in politica.

Se si dovessero avvicinare le elezioni, oltre ai dibattiti sulla legge elettorale sarebbe forse il caso di interrogarsi su una singolare lacuna nell’estensione della logica commerciale al mondo politico. Molti fautori dell’idea che il libero mercato possa far evolvere i conflitti e compensare il merito meglio di qualunque intervento regolativo statale, arrivando a ritenere che sia pericoloso attribuire alla politica il compito di formulare giudizi su cosa possa significare «vivere bene», non hanno considerato con altrettanto zelo i rischi della pubblicità e le contromisure che andrebbero adottate.

Un’Autorità garante della «libera concorrenza» e del «mercato» ha il compito di definire e colpire la pubblicità commerciale ingannevole, comparativa o meno, relativa ai più svariati prodotti, dai dadi per brodo agli oggetti tecnologici più evoluti. Immagino che sia per questa ragione, se non per uno scrupolo benevolo del produttore, che sulla confezione di brodo granulare con verdure leggo che «l’immagine ha il solo scopo di presentare il prodotto», dove l’immagine rappresenta due cipolle, alcune carote, del sedano e un piatto di brodo. Anche senza l’avvertimento, non avrei pensato di trovare carote o cipolle nei quattro centimetri cubici della confezione, né di ricavarne poi un brodo dello stesso colore.

Proporrei di imporre un’analoga avvertenza in corrispondenza delle immagini dei politici che, pagando profumatamente i loro consulenti, fanno circolare immagini fotoritoccate e generosamente più giovani di quel che sono effettivamente: basterebbe scrivere che «l’immagine non corrisponde all’aspetto attuale».

Sempre per la «libera concorrenza», a partire da un rendiconto preciso delle promesse non mantenute da chi si candida più di una volta, si dovrebbe poi associare alle nuove promesse dei vecchi candidati – in sovraimpressione quando sono proclamate dalla televisione, e ai margini dei cartelloni su cui sono scritte a caratteri cubitali – l’avvertenza che «le promesse del tal candidato hanno un puro valore illustrativo».

Senza simili precauzioni, un cittadino come tanti, che potrebbe essere raggirato nello scegliere il brodo granulare o una pasta surgelata e che da ciò deve essere tutelato, sarà mai in grado di scegliere dei buoni politici senza farsi ingannare?

venerdì 23 luglio 2010

Parabole e astrazioni

L’intervento di Carlo mi ha riportato all’infanzia quando, come molti di noi, ero dentro alla dimensione cattolica per via dell’insegnamento scolastico e del catechismo. Penso che l’efficacia e il “successo” millenario della parola di Cristo, e in particolare delle parabole, sia dovuto anche alla loro concreta semplicità. Ci pongono di fronte a esempi di condotta morale che possiamo toccare con mano. Il samaritano che aiuta il malcapitato ce lo abbiamo sotto i nostri occhi mentre silenziosamente, con molta discrezione ci mostra qual è la via.
Comunicare l’etica attraverso astrazioni è comunque necessario in certe situazioni: se pensiamo ad esempio alla Costituzione, sarebbe impossibile fare in pochi commi dodicimila o più esempi di possibili situazioni in cui il legislatore è tenuto a garantire ai cittadini la solidarietà delle istituzioni. Però a parlare solo per astrazioni si rischia di cadere nell’errore di scribi e farisei che - secondo il Nazareno - ostentano insegnamenti di alto valore religioso e morale, che poi puntualmente disattendono. Viene in mente a questo proposito le parole di una nota canzone di Giorgio Gaber: “Un’idea, un concetto, un’idea, finché resta un’idea è soltanto un’astrazione, se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione.”
Fondandosi solo sulle astrazioni si rischia di diventare dei Don Chisciotte che si illudono di stare dalla parte del giusto condannando le iniquità e le storture del mondo, ma che poi non vedono o fingono di non vedere quello che accade accanto al loro, cioè al prossimo, quello vero, che non vive a diecimila chilometri da noi, ma quello che ci sta accanto, quello in cui si imbatte il buon samaritano.
Capita a volte di sorprenderci nel constatare che persone con ideali più o meno simili ai nostri, che si lamentano dell’assenza di solidarietà del nostro tempo, voltare le spalle di fronte ad una piccolissima richiesta di aiuto che viene loro rivolta dal “prossimo”. In situazioni simili, di fronte ad una risposta negativa, ci si può chiedere quale sia la fonte dell’errore: perché l’individuo X non fa neppure uno sforzo insignificante per aiutare o addirittura sembra provarci gusto a causare un danno senza magari trarne alcun beneficio? Agisce in questo modo per qualche imponderabile ragione, per malignità, perfidia o perché è disturbato psichicamente?
A questo punto si pone un interrogativo spinoso: esiste un confine fra un comportamento che deliberatamente va contro l’etica della solidarietà e il disagio mentale che porta (a volte involontariamente) ad arrecare danno al prossimo?



domenica 11 luglio 2010

Il Samaritano oggi

Io sono cattolico: è un senso di appartenenza in cui mi ritrovo, insomma, anche se alle volte la vorrei un po' meglio di com'è, è casa mia.
Ciò non toglie che alle volte accolga certe dichiarazioni della Chiesa, o di alcuni suoi esponenti, con un certo imbarazzo: non è il fatto, rabbioso e irrazionale, di non condividere, è che mi spiazzano abbastanza (alle volte dico, umoristicamente, ma non tanto, che devono avere un'altra edizione della Bibbia...ma temo non sia così: è soltanto che interpretano certe affermazioni in modo differente).
Poi succede, come oggi, che nelle chiese si legge la parabola del Buon Samaritano, come narrata dall'evangelista Luca ed allora vedo che posso dare un significato al senso di appartenenza di cui sopra: mi sento a mio agio (non perché io riesca a fare sempre come il samaritano), ma perché vedo che è una proposta che porterebbe a quello che ingenuamente, ma non astrattamente, potremmo definire un mondo migliore.
Il Samaritano chi è? E' uno straniero, uno super partes insomma, che trova un poveraccio lasciato mezzo morto dai briganti, non un parente o un amico certamente, e si occupa in prima persona, senza badare a spese del suo Pronto Soccorso, trasferendolo poi, sempre a sue spese, in una struttura più idonea (potremmo dire allo stato dell'arte), dove vuole che si ristabilisca (costi quel che costi).
Quindi diciamo che il primo aspetto di sconvolgente modernità (perché son cose di cui ancora oggi si discute, anche se non in parabole) che la cura del malato e la sua guarigione sono un bene in sé, non c'è discorso di dare-avere che tenga: si deve fare tutto il possibile.
Il secondo aspetto è che il Samaritano non è un moralista: non si sofferma sul fatto che il tale potrebbe essersela cercata (come direbbero i tipici commentatori intervistati dal TG serale, non so se avete presente), recandosi in zona frequentata dai briganti. L'unica cosa di cui si preoccupa è che sta male e che è suo diritto star bene come gli altri, quanto lui per esempio. Anche questo è molto d'attualità: si è letto spesso di recente che c'è chi propone di rifiutare il Pronto Soccorso o il ricovero gratuito a chi non è in regola con qualche cosa (siano le carte di immigrazione, il tasso alcoolico o la condizione sociale). Il Samaritano non sarebbe stato d'accordo (potremmo anzi dire che non avrebbe capito proprio il ragionamento).
C'è poi un terzo e conclusivo aspetto che racchiude i primi due: l'assistenza del Samaritano è del tutto indipendente da qualunque considerazione di qualunque tipo sull'assistito (la parabola non dà nessun dettaglio sociale o culturale sull'uomo ferito dai briganti). Ci sei, hai un problema e devi essere curato al meglio, questa è la sua logica: al limite, non mi interessa nemmeno il tuo nome e la tua condizione, se non vuoi rivelarmelo per tuoi motivi, su cui non discuto. Però, attenzione: non è la privacy di cui si parla adesso, quella del decreto anti-intercettazioni, è rispetto per il malato, non copertura per il malfattore. La parabola, letta in senso moderno, vuol dire: io sono un medico che curo, non un giudice che condanna, sono due ruoli diversi e che tali devono restare. Il medico che si erge a giudice o che si confonde con esso è il simbolo di una società arretrata, in cui la parità di opportunità è vista con diffidenza se non con spavento. Io spero che non ricadremo in quest'errore: non possiamo permettercelo.

venerdì 9 luglio 2010

Sabbia frontiera

Versi discorsivi sul nulla

In questa zona di spiaggia frontiera
sento il limite umano delle cose
principio e fine di ogni esistenza.
Si capisce qua al confine
fra il mugugno del mare
eterno e un viadotto scalcinato,
su un letto disseccato di torrente,
che non c’è differenza fra l’essere
umano e i grani di sabbia,
tra il fronte di gabbiani che fende
il cielo e il vento che scompone.

Attutita appare l’ intrusa
umanità, all'oscuro del nulla
o dannata nel dimenticarlo.
Persino meschine baruffe o legnate
politiche in piazza e in parlamento
sono anelato svago
al peso del nulla che agghiaccia
lo sprovveduto (o il saggio)
nell’afa meridiana.
Muti ragazzi con lo sguardo
a cespugliose dune
riposano insoliti silenzi
rotti dal moto d’una pulisabbia
che netta una spiaggia dal seriale
pattume della nostra età.

Annichilente accerchiamento (il nulla)?
sbrecciare o diventare sasso?
Pausa per adesso di empatia
(sia un raro animale o tipo umano)
scelgo una tregua di tecnologia
e parlo distante a un amico.

domenica 20 giugno 2010

La chiesa nel terzo millennio e le pecorelle smarrite



Di fronte alla morte, di solito, si riconosce, quando c’è, la grandezza del nemico; per la dottrina cattolica, poi, si dovrebbe comunque anche rispettare prima di tutto l’umanità di chi è scomparso, o, in qualche modo, riscattarla. Non così nei confronti di José Saramago, secondo quanto si può leggere nell’Osservatore romano, che il giorno dopo quello della morte dello scrittore ne dà notizia esprimendosi con toni durissimi e particolarmente aspri in un articolo intitolato “ L’onnipotenza (presunta) del narratore” nel quale si trovano frasi di questo tenore:

“Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle 'purghe', dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi. (...) uncinata com'è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico (...). Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza"

L’acrimonia della chiesa nei confronti di Saramago si era acuita nel 1991, all’uscita del suo “Il Vangelo secondo Gesù” nel quale, per raccontare la vita di Gesù ,non si era limitato ad attingere ai soli quattro vangeli canonici. Il Gesù di Saramago è infatti presentato come un fratello, un uomo tra uomini, nato “...sporco del sangue di sua madre, vischioso delle sue mucosità e soffrendo in silenzio...” come tutti gli altri uomini, capace di attraversare ogni esperienza umana e persino di innamorarsi di amore carnale, ma anche e soprattutto conflittuale rispetto al padre-Dio. E’ un’immagine di Gesù analoga a quella che emerge, anche se in mnaiera più sfumata e allusiva, dal film di Pasolini "Il Vangelo secondo Matteo", ma ancor di più dal bellissimo album di Fabrizio De André, “La buona novella” che quando uscì, nel 1970, nutrì le inquietudini di quelli che erano allora adolescenti e che vivevano il conflitto tra gli ideali religiosi di uguaglianza e solidarietà che sentivano propri e la faccia del potere ecclesiastico, delle gerarchie rigide, del pensare per dogma e del perdono concesso a chi poteva pagarselo. Per alcuni - e si è trattato del mio caso - l’esito del conflitto fu quello della perdita della fede; per altri la scelta fu invece quella di mantenere un dialogo, sia pure conflittuale, con l’istituzione – chiesa. La quale, oggi, come del resto è consono ai tempi, sembra scegliere la via delle porte chiuse al dubbio e all’inquieto interrogarsi sul Bene e sul Male, cacciando via, anche nel ricordo, quelle che secondo il proprio Vangelo dovrebbe considerare come pecorelle smarrite.

giovedì 10 giugno 2010

L'insidia delle parole


Un tempo mi rilassava così tanto viaggiare in treno! Mi veniva voglia di leggere, ma poi anche di sollevare gli occhi dalle pagine e guardare fuori dal finestrino; mi divertivo a immaginare, di giorno o di notte, la quotidianità celata dietro le finestre delle case in corsa o il microcosmo di relazioni quotidiane di un parco-giochi; e così pensavo anche ai fatti miei mentre cercavo di afferrare, di contro alla rapidità dello scorrere delle immagini, i colori, il verde delle foglie e l’intermittente, sconnesso vociare di mamme, nonni e bambini accompagnato, qualche volta, dall’abbaiare festoso di un cane. Mi piaceva anche, allo stesso modo, osservare i miei compagni di viaggio seduti nel ventre caldo e odoroso della carrozza; cercare di indovinare le loro vite, gli interessi, gli amori, la professione; e interpretare come segno di infelicità o di trepidante attesa la piega delle labbra, immaginare i pensieri e i sogni dietro le palpebre socchiuse nel leggero tremolare dell’assopimento. Ora, invece, viaggiatori, binari, odori e soprattutto i messaggi diffusi attraverso gli altoparlanti, diventano quasi sempre motivo di irritazione. Questi ultimi, in particolare, i messaggi che ti disturbano all’interno del treno e ai quali non tenti nemmeno di sottrarti e quelli che ti rincorrono sulle banchine e negli atrii fino alla biglietteria e poi ancora, sfumando, nello spazio antistante la stazione, sembrano metaforizzare la deriva culturale ed etica, la trasfigurazione antropologica alla quale siamo soggetti da qualche anno: trasformati da uomini e donne a consumatori; cioè “clienti” – come, appunto, ci definisce trenitalia - oppure nullità invisibili. Ciò che più mi stimola il sentimento indefinibile che provo, in bilico tra rabbia e stupore, è l’uso continuo di catene verbali contorte, allusive e indirette, nonché manierate, per definire situazioni o condizioni rispetto alle quali esistono già nella nostra lingua espressioni chiare e condivise; situazioni o condizioni che così "circumnavigate" dal punto di vista delle parole sembrano perdere carnalità per diventare qualcosa di ineffabile e che quando riguardano difficoltà o elementi negativi sembrano rovesciarsi, quasi per magia, nel loro opposto positivo. Ogni negatività, anche la più grave, viene declassata al livello di semplice “disagio” (al singolare), per il quale attraverso la voce all’altoparlante si scusano di continuo, ma senza il tono di voce consono allo scusarsi. E’ un’inezia questo disagio di cui ci scusiamo con te – ti suggeriscono tali anonime voci suadenti e allo stesso tempo sicure fino alla protervia - e se ti arrabbi mostri di essere nevrotico, ossessivo, ansioso, incapace di vivere al passo con i tempi…Perdere una coincidenza nonostante l'ampio margine calcolato dopo precedenti esperienze disastrose diventa un semplice disagio; arrivare tardi al lavoro o a un appuntamento un semplice disagio; stare fermi senza una spiegazione e senza cognizione della durata, biblica o meno, dell’inopinata stasi in aperta campagna, diventa di nuovo un semplice disagio. Niente assume aspetto di gravità, sia pure quella di un piccolo dramma quotidiano.
Oggi mi è capitato di sentire definire gli operatori ferroviari in sciopero “personale ferroviario non disponibile”. Hanno detto proprio in questo modo, alla stazione di Bologna, ho sentito bene: il treno numero così e cosà viene soppresso “per indisponibilità del personale ferroviario”! Fa un’altra impressione sentir dire così piuttosto che sentir nominare li termine “sciopero”. L’espressione sostitutiva, infatti, da una parte non lascia emergere che ci possono essere problemi rispetto ai quali il personale suddetto protesta a ragion veduta, dall’altra adombra o suggerisce proprio l’idea che chi non è disponibile è bizzoso, piccoso, ingeneroso e rende più difficile la vita del prossimo; ma trenitalia no; anzi, lei si scusa anche quando è innocente, per il disagio che altri, gli “operatori indisponibili”, recano ai suoi affezionati clienti.


domenica 6 giugno 2010

Cavalieri, cavalli e moto


Voglio essere molto impopolare, stasera. Impopolare e antipatica. Ce n’è bisogno, forse, in un’epoca nella quale si cerca, talvolta, il consenso, rincorrendo le parole d’ordine dello schieramento opposto al proprio quando appaiono vincenti, cioè popolari.

Questa domenica di sole non l’ho trascorsa al mare, ma sono stata al CTO (Centro Traumatologico) di Firenze in veste di zia di un ragazzo di 16 anni ricoverato dopo un incidente di moto. Non era l’unico giovanissimo immobilizzato nel letto e con uno o più arti ingessati, il volto fattosi quasi evanescente nello sprofondare tra i cuscini e l’aria spersa e sbigottita nel trovarsi catapultato in una dimensione così inconsueta, tra cateteri, aghi, odori dolciastri e pungenti insieme; con al proprio capezzale le figure sollecite degli adulti, sollevati per lo scampato Pericolo Maggiore, ma in apprensione per tutti gli altri pericoli, sia pure minori, in agguato: per esempio per le protesi di questo o quel segmento corporeo, le viti, i chiodi, i tasselli con i quali i propri teneri virgulti potrebbero venire inchiavardati, trasformati, almeno nelle fantasie paurose più recondite, in un’entità mista tra vivente e inorganico, in indefinibili ibridi destinati a portare nella propria carne le stimmate perenni della giovanile e incosciente esuberanza. La fugace apparizione di un camice svolazzante genera subito quel tipico affannarsi d’ospedale, negli adulti, che fanno a gara a tallonare il miraggio bianco per carpire una parola in più di spiegazione, oltre quelle piuttosto fredde delle prognosi infarcite di termini specialistici; ma più che altro alla ricerca di una rassicurazione, di una consolazione, di un’autorevole azione capace di normalizzare l’evento che li fa sentire protagonisti ansiosi e disorientati di un dramma. E ci sono poi le prediche, i sermoni di noi adulti inascoltati rivolti a quelle giovani vittime della propria incoscienza; con timido imbarazzo, talvolta mascherato da rudezza. Ma li perdoniamo subito in realtà; siamo stati anche noi come loro e comprendiamo il bisogno di mettersi alla prova, l’elemento di sfida che è insito, anche se non consapevolmente, in certi loro gesti e comportamenti che somigliano così tanto ai nostri di quando avevamo la loro età. Quando non si è ancora adulti, ma ci sentiamo velleitariamente tali nel senso che di quella condizione abbiamo le caratteristiche psicofisiche, ma non il potere, l’autonomia.

Proprio da ieri è ricoverato qui, ironia della sorte, anche Valentino Rossi, con fratture esposte – apprendo – della tibia e del perone; non molto più grande, anagraficamente parlando, di alcuni di questi anonimi colleghi di disavventura di mio nipote, ma a differenza di loro del tutto autonomo dal punto di vista economico e del riconoscimento sociale anche alla loro età. E’ al piano di sopra e non si parla d’altro. Al personale è ora di questo che si chiede notizia: se l’hanno visto, se sanno cosa fa e come sta; e ci si interroga, per esempio, su cosa abbia mangiato, se lo stesso cibo che sta per essere servito “qui e ora” oppure no...Qualche volta se ne parla guardando in alto, al soffitto che è una cosa sola con il pavimento del piano di sopra, dove ognuno di quei ragazzi, ora, vorrebbe trovarsi. Mentre la televisione trasmette (e loro, i ragazzi ingessati e attaccati a cateteri, aghi e tubi d’ogni sorta, la guardano rapiti) una corsa di moto con l’enfatico commento del giornalista che si accorda al rombare superbo dei motori. Il cortile antistante e l’atrio sono ormai definiti in relazione al ricovero eccellente, quello per il quale batte unanime il cuore degli italiani, finalmente uniti per un comune sentire, nel momento nel quale sembrano sempre più accattivanti le tentazioni scissioniste del federalismo. Ecco perché mi sento così impopolare da alcune ore: perché provo rabbia di fronte alle telecamere che incontro al mio venirmene via, alla fan - tifoseria con le maglie gialle, agli intervistatori e agli intervistati e persino leggendo i cartelli appesi da anonimi ammiratori nel cortile. Nei volti dei ragazzi ricoverati prima di uscire ho colto una sorta di impalpabile trasformazione: meno timidezza, meno sbigottimento, meno ripensamento dubitoso ancorché inespresso, ma una sorta di identificazione fiera con Valentino Rossi, quasi per un atto di eroismo.

Penso che specialmente da giovani sia intenso il bisogno di sfidare i propri limiti psicofisici con atti di coraggio: ma che tali atti un tempo fossero nella maggior parte dei casi ispirati da ideali – politici, sociali o anche personali, legati per esempio a un sogno d’amore perseguitato e offeso – e oggi siano sempre più insensatamente fini a se stessi. Costruire eroi di cartapesta, destinati a spegnere in giovanissima età la propria gloria senza farne tesoro per altri e ripagati innanzitutto dall’accumulo di denaro oltre l’immaginabile: questo è il segno dei tempi. Il cavaliere, eroe di epoche passate, e il suo cavallo, erano compagni di viaggio vivi entrambi che parlavano linguaggi diversi e li accordavano, momentaneamente, in vista dell’impresa voluta dall’uomo in armi, come gli strumenti prima di un concerto. La moto e il suo centauro, invece, l’uno vivo e l’altra inerte oggetto inorganico, finiscono per scambiarsi le parti: ed è la moto che ha il potere di soverchiare l’uomo nel decidere l’impresa, in un rovesciamento paradossale in virtù del quale il mezzo – la moto, appunto - diventa il fine stesso dell’agire.


sabato 5 giugno 2010

Le verità del Risorgimento

Ho assistito oggi alla presentazione del libro di Claudio Fracassi “Il romanzo dei Mille”, che tratta dello sbarco dei garibaldini a Marsala e delle mirabolanti vittorie in terra di Sicilia. Pur essendo un libro di storia, basato essenzialmente sulle memorie e sui diari dei giovani partiti con Garibaldi (moltissimi dei quali provenivano dalla Padania), ha un titolo che, forse involontariamente, rinvia a ricostruzioni favolistiche, agiografiche, apologetiche che hanno circondato il processo che ha portato all’unità del nostro paese. Una fra tante: mettere insieme le icone (o i santini) di Giuseppe Mazzini e Vittorio Emanuele II è stato un prodigio che l’efficientissima propaganda fascista è riuscita a fare con successo. Si pensi che in realtà Mazzini è morto a Pisa, ospite di Janet Nathan e Pellegrino Rosselli presso i quali viveva con il nome di Giorgio Brown , perché ricercato dalla polizia sabauda come un pericoloso terrorista. Verosimilmente la causa di tanti misteri o interpretazioni di comodo è tutta racchiusa nel nodo nevralgico che da sempre è stato il Risorgimento, soprattutto nei suoi capitoli salienti e straordinari, come quello di cui si occupa il saggio di Fracassi. Tale fenomeno per la sua natura di atto fondativo dello Stato si presta ad essere strumentalizzato dalle forze politiche, e la cultura, in questo caso, dà l’impressione di non essere abbastanza autonoma o coraggiosa (per usare un termine caro ai Mille) per presentare un quadro obiettivo e possibilmente “unitario” ed esaustivo.
Oggi la sinistra, dopo molti anni in cui quasi si irrideva la retorica risorgimentale, torna a rivalutare i padri della patria, e Garibaldi torna ad essere un incredibile, fenomenale eroe. Su altri fronti: leghista al nord e “neoborbonico” al sud, l’eroe dei due mondi viene invece presentato pressoché come un bandito che ha seminato morte e distruzione. Va puntualizzato che mentre i primi sono forza di governo e dovrebbero pertanto misurare le parole, specie in riferimento alla storia patria, i secondi rappresentano una debole voce, che forse al di fuori del meridione, arriva soltanto a chi, casualmente o per scrupolo storico, è interessato a conoscerla. Se il quadro fosse completo, probabilmente non resterebbe che unirsi al coro della sinistra ed applaudire alle ardimentose gesta degli eroi del Risorgimento. Invece vanno considerati anche altri studiosi, come ad esempio Gigi Di Fiore, giornalista e storico, che fra le varie pubblicazioni sull’argomento in questione, ha scritto “I vinti del Risorgimento”, un saggio (peraltro edito dalla prestigiosa UTET di Torino) che ci presenta una realtà storica meno gloriosa e assai più problematica.
Ora, dopo un secolo e mezzo dall’impresa dei Mille auspicherei un impegno verso una maggiore chiarezza su un tema così importante per gli Italiani. Probabilmente anche il libro di Claudio Fracassi (che confesso di non avere ancora letto) rappresenta un contributo in questa direzione, spero in ogni caso che - per una più ricca e oggettiva ricostruzione storica - accanto alle testimonianze dei garibaldini si possano ascoltare le parole dei soldati borbonici o quelle della sarta di Calatafimi, del pescatore catanese, del falegname di Messina...

lunedì 24 maggio 2010

Un premio per «La nostra vita»

Chissà se Pasolini avrebbe apprezzato l’ultimo film di Lucchetti sul neoproletariato, lui che ha teorizzato la mutazione antropologica che, a iniziare dal boom economico, poneva fine al ceto popolare, spazzando via in pochi anni un’etica millenaria, patrimoni di esperienza maturati in armonia con la natura, tradizioni, poesia. È ben vero che non tutto ciò che apparteneva al cosiddetto ‘popolo’ fosse un valore positivo, pensiamo ad esempio all’ignoranza, alle superstizioni, ai pregiudizi, che costituivano un terreno ben fertile per ogni assurda bestialità o caccia alle streghe. Tuttavia il paragone con l’oggi, con una minaccia di distopia incombente, di società fittizia, schizofrenica e deprivata di ogni umanità, senza dubbio presta il fianco a qualche tentazione di rimpianto.
Di sicuro a Cannes è piaciuta l’interpretazione di Elio Germano, al quale è andato a buon diritto il titolo di miglior attore. È un giovane operaio edile romano, che lavora “in nero”, come sembra sia usuale in questo ambiente (e anche in molti altri). Sposato con due figli piccoli e in attesa del terzo, appare abbastanza appagato dalla sua famiglia, dal rapporto con la moglie e di certo non coinvolto da questioni socio-politiche relative alla sua condizione, al suo ceto… A ben pensarci forse non è solo dei nostri quest’assenza di coscienza di classe, come si diceva un tempo. L’aspirazione, tra chi nasce nel ceto popolare, a compiere una scalata verso il benessere e la “rispettabilità” è cosa antica. Vengono in mente i noti personaggi di una novella e di un romanzo di Verga: Mazzarò, il protagonista de “La roba” e Mastro don Gesualdo che dà il titolo al libro. Entrambi di umili origini, dopo una vita di sacrifici disumani, conquistano una solida posizione di benessere economico, ma per entrambi, secondo il loro demiurgo, si prospetta una fine di solitudine e dolore. Proprio negli anni in cui Verga scriveva i suoi capolavori in Italia si diffondevano gli ideali marxiani, secondo i quali il povero non avrebbe più dovuto cercare di arricchirsi (del resto impresa disperata se condotta con metodi onesti), ma il suo compito sarebbe stato di creare una società di eguali e liberi, senza più sfruttati né sfruttatori. Ora viene da chiedersi: c’è mai stata realmente la coscienza di classe? Era effettivamente diffusa in tutti gli ambienti popolari della penisola? Oppure se ne parlava tanto perché se ne erano appropriati la cultura di sinistra e i mass-media vecchi e nuovi? Se ci fosse stata davvero si sarebbe potuto affermare il fascismo?... Personalmente non so dare una risposta, almeno per ora, dunque torno alla «nostra vita», alla contemporaneità, dove i soldi sono l’unico risarcimento possibile ad ogni dolore, per ogni ingiustizia. Soldi per comprare beni di consumo nei centri commerciali, per compensare la perdita di una moglie e di una madre. E in effetti, mai come oggi, nel nostro paese i soldi appaiono al primissimo posto: in tutte le professioni la priorità viene data al profitto anziché al servizio reso al prossimo tramite il proprio lavoro oppure al riconoscimento che ci deriva dall’aver svolto al meglio il nostro compito: come sembrano lontane le parole di Marx sull’alienazione dell’operaio rispetto all’artigiano che può cogliere il senso del suo lavoro e la gratificazione che ne deriva. Nel film di Lucchetti sono i rumeni a fare la morale, sono loro che verosimilmente vestono i panni della vecchia classe popolare che Pasolini vedeva tragicamente dissolversi: a voi italiani più che possederli realmente piace di far vedere che avete i soldi. E altre considerazioni sull’apparire e il valore dell’amicizia, dei sentimenti, di tutto quello che non può essere comprato. Apprezzabile che si cerchi di alleggerire il pregiudizio che grava sui rumeni, ma attenzione a non scivolare nel preconcetto opposto.

domenica 23 maggio 2010

Ironia, realtà, tasse e balzelli: gli inganni della comunicazione


Nel 1729 il grande scrittore Jonathan Swift scrisse, com’è noto, un opuscolo provocatorio e pungente intitolato “Una modesta proposta: per evitare che i figli degli Irlandesi poveri siano un peso per i loro genitori o per il Paese, e per renderli un beneficio per la comunità: quella di ingrassare i bambini degli irlandesi poveri per nutrire i ricchi proprietari terrieri”. I vantaggi di tale proposta sarebbero stati molteplici: una piccola rendita per i genitori dei bambini denutriti, fatti ingrassare e venduti a partire dall’età di un anno, il miglioramento dell’alimentazione dei ricchi e l’eliminazione in un sol colpo di sovraffollamento, disoccupazione e fame. Senza contare i vantaggi etico-morali: un incoraggiamento al matrimonio, l’aumento della cura delle madri per i bambini, un’onesta competizione fra le donne sposate nel portare al mercato il bambino più grasso e una maggiore considerazione da parte dei mariti nei confronti delle mogli in gravidanza alle quali sarebbero stati affezionati come alla cavalla o alla mucca o alla scrofa in procinto di figliare e che avrebbero trattate con riguardo, invece di minacciarle con pugni e calci, per paura di provocare un aborto. La lettura risulta ancora molto divertente - per quanto amara - con le statistiche improbabili e i suggerimenti grotteschi: per esempio sui possibili prezzi, ma anche sui modi di cucinare i bambini poveri, rosolando o stufando i più piccoli, più buoni e più nutrienti. Ci fu, tuttavia, all'epoca, anche chi non capì il carattere satirico della provocazione e questo fatto, naturalmente, ci genera una certa inquietudine nel riflettere sulla natura umana; ma sappiamo che si trattò di alcuni pochi... Mi sembra che oggi, invece, in questo paese, risulti sempre più difficile per la maggior parte delle persone distinguere tra realtà e simulazione ironica o satirica. Un paio di sere fa, mangiando in fretta perché in ritardo, ma con l’orecchio direzionato, sia pure distrattamente, verso il telegiornale, sono stata colpita dal tono spensierato, lieve e leggero, caratterizzato da una prosodia tutta ascendente e giuliva, con il quale il giornalista elencava gli imminenti tagli (pensioni, sanità, invalidi...). L’incongruenza tra la drammaticità di ciò che comunicava e il tono utilizzato per farlo mi ha fatto pensare, per una manciata di secondi (ascoltavo distrattamente, l’ho premesso), che potesse trattarsi di uno scherzo, di una parodia di telegiornale nell’ambito di qualche trasmissione di intrattenimento. Sono poi uscita, ma di tanto in tanto mi tornava alla mente l’episodio e continuavo a pensare a come avessi potuto scambiare un vero telegiornale con una caricatura satirica. La spiegazione risiede probabilmente nel fatto che la realtà sta rapidamente sovrapponendosi a ogni più inimmaginabile fantasia relativa alla catastrofe etica e culturale (oltre che, naturalmente, socio-economica e politica) della quale siamo vittime. La maggior parte delle persone che hanno ascoltato quel telegiornale, disabituate al dubbio e all’approfondimento critico, ingannate dalla suadente e rassicurante, per quanto incongrua, prosodia dell’annuncio, saranno cadute in un errore interpretativo ben più tragico del mio. Avranno inteso che per fortuna, attraverso quei tagli, si risolverà tutto quanto e che dunque ci sarebbe da festeggiare piuttosto che da preoccuparsi. Tanto più che anche i parlamentari saranno soggetti a misure analoghe, come annunciava la solita voce spensierata e ancor più leggera. Lo stupore di fronte a questo annuncio ha avuto, nel mio caso, la durata di un battito di ciglia: figurarsi, si tratta solo del 5 per cento dei loro stipendi!
La voce giuliva del giornalista lo è diventata ancora di più nel proseguire con la promessa paternalista e populista di non far pagare ulteriori tasse agli italiani! Come se tutti pagassero le tasse! Come se le tasse fossero proporzionalmente distribuite! Questo fomentare l’odio per le tasse è quanto di più amorale si possa concepire in tempi difficili, dato che le tasse (quelle dirette ed equamente modulate in relazione al reddito, naturalmente) rappresentano il segno tangibile del sentirsi parte di una comunità e del mostrarlo anche con un contributo economico (proporzionato alle proprie condizioni) atto a rendere alto il livello etico e politico di tale comunità stessa permettendole di farsi carico dei propri membri più fragili e indifesi. il senso della comunità e la capacità di essere solidali è quanto di più prezioso possa definire un'identità.

domenica 25 aprile 2010

La meglio gioventù

Ora che anche questo 25 aprile di 65 anni dopo sta per andarsene, vorrei ricordare qualcuno a cui, nonostante la giovane età, fu precluso vedere il ritorno del verde di primavera e la rinascita della speranza legata a questo storico giorno.
Mi limito a tratteggiare le loro biografie: due realtà diverse che hanno in comune una famiglia antifascista, una laurea da poco conseguita, l’anno di nascita (1919), una coscienza critica ed etica che li eleva sicuramente al di sopra della media.

Armando Ottaviano, nato nella provincia di Chieti si trasferisce a Roma con la famiglia, anche per le idee del padre socialista. In quanto sorvegliato politico non ha un’occupazione stabile e si arrangia con lavori saltuari di manovalanza. Armando frequenta l’istituto professionale ma poi riesce a prendere la maturità classica e a laurearsi in lettere con una tesi su Francesco IV di Modena, che è conservata in una bacheca del Museo di via Tasso a Roma. Non è stata una impresa facile nella università elitaria dell’epoca, non lo è stata neanche economicamente: le sorelle interruppero gli studi per aiutare il fratello meritevole, e la madre lavora come lavandaia. Roma è occupata dai nazisti e Armando milita con Bandiera Rossa, un movimento alla sinistra del PCdI, ma di fatto collabora con la Matteotti costituita da socialisti. La notte del 21 marzo 1944, alle ore tre, membri della banda Koch lo prelevano da casa, viene portato al settimo braccio del carcere di Regina Coeli e da lì condotto alle Fosse Ardeatine.

Federico Ferrari è di Cremona, nasce in una famiglia borghese e molto cattolica. Il padre, avvocato, è un seguace di Guido Miglioli (per le sue avanzati programmi sociali fu espulso dal partito popolare, e nel dopoguerra la DC non accettò la sua iscrizione), uno dei fondatori del partito popolare a Cremona e antifascista. E’ anche musicista e critico letterario nonché animatore di incontri culturali nella sua casa. Passioni che trasmette al figlio insieme a intelligenza e sensibilità fuori dal comune. Muore prematuramente, lasciando un vuoto profondo in Federico appena sedicenne. Il ragazzo, conseguita la maturità, si iscrive a giurisprudenza, seguendo le orme del padre. La guerra lo porta in Russia, come ufficiale degli alpini, ed è uno dei pochi a tornare sano e salvo da quell’inferno di ghiaccio. Fa appena in tempo a rientrare da casa per una licenza che una nuova avventura lo attende. A seguito dell’armistizio dell’8 settembre, è catturato dai nazisti e, poiché decide di non optare per la Repubblica di Salò, viene internato nei lager in Polonia e in Germania. Verrà ucciso per vendetta da un nazista a guerra quasi conclusa, il 24 aprile 1945. Testimonianze affermano che gli assassini vennero salvati a stento dal linciaggio della popolazione civile, perché evidentemente era riuscito a costruire un buon rapporto con gli abitanti del luogo.

Riportare alla luce le storie degli uomini del passato, forse può renderci migliori non solo culturalmente, ma anche da un punto di vista morale. Penso ora ai passi della ‘Divina Commedia’, dove varie anime chiedono con insistenza a Dante di essere ricordate al mondo dei vivi. Cercare di salvare la memoria di persone che hanno subito delle gravi ingiustizie, può rappresentare un parziale risarcimento, una sorta di consolazione per i vivi e forse, ovunque si trovino, per i ragazzi della nostra meglio gioventù.

mercoledì 21 aprile 2010

Fare politica per desiderio di felicità.

Un tempo, per molti, la politica era passione e nasceva dalla rabbia e dal desiderio: di difendere il vecchio mondo rassicurante, per alcuni, o di costruire un mondo nuovo, per altri. Accanto alla politica come passione, però, è sempre stato presente un altro modo di concepirla, venato di moralismo, grigio, rigido. Un modo ormai vecchio e poco accattivante, ma inesorabilmente in incremento perché del tutto consono ai tempi che viviamo, caratterizzati dalla valorizzazione del calcolo, del cinismo e dell’indifferenza. Si tratta di un modo di concepire la politica trasversale rispetto a persone di diversa appartenenza partitica; e quasi par che ci sia un ammiccarsi reciproco, una complicità da parte di alcuni, di opposti schieramenti, nel continuare a praticarlo.
Questo vecchio modo di intendere la politica è rassicurante, in un certo senso, perché si lega molto alla paura; la politica si presenta, in questo caso, come una pratica di difesa, un modo per dare voce alla propria diffidenza nei confronti dell’altro che potrebbe toglierti tutto: il lavoro, gli affetti e gli averi, persino l’identità. La politica diviene, allora, costruzione di un’identità esclusivamente in negativo, di un’identità per differenza e sottrazione, di un’identità “contro”. Dall’una e dall’altra parte c’è un “noi”, spesso legato a un patto di silenzio o di omertà, e un nemico esterno; ci sono le virtù e le ragioni del territorio del “noi” e i difetti e i torti del territorio del nemico. Territori, confini, recinti, incapacità di trasformare se stessi per trasformare creativamente il mondo: le parole d’ordine delle quali è intessuto questo modo di fare politica, che oggi sembra godere di un rinnovato vigore e credibilità, sono la diffidenza, la paura, l’intolleranza per le differenze individuali e il desiderio di omologazione simbiotica come sinonimo di appartenenza. La politica si appiattisce, così, alla dimensione di tecnica e in questo modo facilmente scivola nel calcolo, nella menzogna, nell’autogiustificazionismo, trasformandosi in rincorsa competitiva del linguaggio del “nemico” e così rinunciando al proprio. Le categorie tradizionali di questo modo di concepire la politica sono legate all’idea di “pubblico” inteso come nettamente contrapposto a “privato”; di ambiti istituzionali distanti rispetto alla società civile (ridotta alla somma dei votanti) e di conta numerica: importano i voti, ma non le idee che riempiono la testa dei votanti e le loro convinzioni profonde. La politica, garzie a questo modo di concepirla, non certo minoritario, purtroppo, vive ormai da tempo la sua lenta, inarrestabile agonia; ma l’unica alternativa sembra quella del vuoto, della mancanza di orizzonti, dell’incapacità di volare alto sopra la terra per guardarla con occhio critico e perciò distante, ma continuamente ridiscendere e abitarla, nello stesso tempo, con il cuore, con le viscere, con le lacrime, con la rabbia e con la capacità di godere della compagnia degli altri esseri umani e delle cose belle e buone del mondo. La crisi della politica va letta uscendo fuori dalle sue categorie tradizionali e utilizzando, invece, concetti e termini che siamo abituati a collocare in ambiti diversi relegandoli nella sfera del privato, dell’intimo, dell’individuale. Come il concetto di “felicità”, per quanto ambiguo, subdolo, sfuggente alla definizione possa essere. Concetto che spesso ci ostiniamo a pensare come assoluto (e proprio così, perseguendolo, ci rendiamo infelici) anziché come venato anche di sentimenti diversi quali la nostalgia, l’inquietudine e, talvolta, la stessa tristezza.

La felicità, è vero, può essere intesa come conseguenza della pura soddisfazione dei propri bisogni individuali, dai più nobili e alati ai più concreti, e in questa accezione si coniuga con l’egoismo. Ma in totale contrapposizione c’è un altro possibile modo di intenderla – che poi è quello nel quale mi riconosco – e cioè come conseguenza dello stare bene con se stessi e con gli altri: non solo in riferimento a quei pochi che ci sono intimi e che amiamo di diverse specie di amore, ma alla comunità della quale facciamo parte o, se vogliamo, all’umanità intera.

Si può fare politica per mestiere, per abitudine, per ambizione, per narcisismo e ,qualche volta, persino per espiazione. E si può invece farla per dare voce a un desiderio prepotente, irrefrenabile, non di rado intrecciato con la rabbia, di trasformare il mondo, i rapporti degli esseri umani tra di loro e con la natura. Si può fare politica, insomma, per desiderio di felicità; o, per meglio dire, di felicità condivisa (per me non sarebbe neanche tale, altrimenti) resa possibile da da pratiche di giustizia sociale, ma anche da sentimenti di solidarietà e di fiducia negli altri. Occorre, forse, tornare a fare politica prima di tutto per passione: perché la passione è contagiosa e coinvolgente e rappresenta la più efficace motivazione all’agire creativo.


mercoledì 14 aprile 2010

Coniugare "distanza" e "vicinanza", in politica e in amore.


Quando siamo molto piccoli pensiamo i rapporti affettivi in termini simbiotici. E’ attraverso un percorso psichico assai faticoso che impariamo, se tutto va bene, ad attraversare la distanza dall’altro che si ama e ad acquisire la consapevolezza che la forza di un legame è data dalla capacità di tenerlo dentro di noi. Tuttavia, anche da adulti ci si rende spesso infelici pensando che volere bene significhi farsi uguali, avere gli stessi comportamenti improntati agli stessi valori, frequentare gli stessi luoghi e persone, professare le stesse idee politiche o religiose. E’ quanto succede, per esempio, tra genitori e figli e il rapporto s’incrina nell’incapacità di riconoscere e accettare le differenze che si determinano con il trascorrere delle generazioni; poiché i figli, una volta adolescenti e poi giovani adulti, devono intraprendere un proprio percorso per vivere esperienze al di fuori di quelle condivise nel gruppo familiare di origine, incontrando persone che portano parole o emozioni nuove.

Penso spesso al fatto che siamo abituati a considerare “distanza” e “vicinanza” come due termini del tutto opposti. O si è coinvolti o si è indifferenti. O si è immersi completamente in una dimensione di vita o le si è estranei. E' quanto accade anche a proposito della politica: un territorio che non abito direttamente, in questo momento della mia vita (non ho tessere, non frequento sedi...), ma rispetto al quale, tuttavia, non riesco a sentirmi indifferente. Mi arrabbio, dalla mia distanza (o presunta tale), di quelle che a volte mi appaiono come incoerenze manifeste della parte che sento più vicina alla mia visione del mondo. Mi arrabbio quando il linguaggio scimmiotta, sia pure inconsapevolmente, quello dell’avversario. Mi arrabbio quando in nome del realismo viene derisa la motivazione profonda che è alla base di ogni desiderio di trasformazione del mondo: la capacità di appassionarsi, di rischiare, di mettersi in gioco con i propri sogni, di ricordare che la politica riguarda il desiderio di felicità, di una qualità della vita migliore per tutti in un mondo che sia capace di misurare il proprio grado di civiltà a partire dalla disponibilità a farsi carico di chi è più fragile, contrattualmente debole, incapace di difendersi con lo strumento raffinato della parola.

Vorrei riuscire a essere insieme distante e vicina rispetto alla dimensione della politica: in grado di coinvolgermi, appassionarmi, sperare in ciò che appare difficilmente realizzabile e nello stesso tempo restare anche un po’ distante, cioè capace di sguardo critico, di nutrire dubbi e valorizzare l’inquietudine. In questo modo un partito potrebbe funzionare bene: se riuscisse a coniugare passione e dubbio autocritico, mettendosi in discussione quando necessario, accettando come tali le sconfitte e facendone tesoro per nuove e più profonde riflessioni.

Penso, in parallelo, che lo stesso ragionamento valga per i rapporti interpersonali: l'amicizia, la genitorialità e persino, o soprattutto, l’amore. Una buona relazione, che sia di sostegno reciproco, di complicità solidale, non deve essere basata sull’annullamento delle differenze, dei dubbi, delle inquietudini. Omologarsi all’altro, credo, non esprime quasi mai il fatto che lo amiamo di più, ma piuttosto che ne abbiamo paura di più e in qualche modo cerchiamo di compiacerlo per non essere rifiutati. Proprio così, però, il rapporto che lega le persone si carica di distruttività: perché la creatività nasce dove c’è capacità di coniugare le differenze e integrare distanza e vicinanza. In politica, come in amore, bisogna avere curiosità e coraggio e imparare, da Alice (nel paese delle meraviglie), ad attraversare lo specchio:cioè uscire fuori da una dimensione di realtà e prenderne le distanze per tornare a visitarla con occhi nuovi e disposti a vedere.

lunedì 5 aprile 2010

Giungla di carrelli


Mi è capitato, sabato scorso, di dovermi avventurare al supermercato (è proprio il caso di usare questo verbo, dato che era la vigilia di Pasqua). Una volta riconsiderata e per l’ennesima volta dovuta scartare la possibilità di farne a meno ho scelto l’ora di minor frequenza, quella del pranzo. La situazione, però, è apparsa subito insopportabile: improvvisamente mi sono trovata imprigionata in una giungla di carrelli guidati goffamente da persone nevrotizzate, tutte prese dall’accumulo insensato: non solo di cibi e bevande, ma anche di uova, conigli, paperi, capretti, pulcini e agnelli di peluche, campanine in miniatura e simili insulsi simboli che ora ho quasi pudore a elencare al completo. Un amico che se ne stava uscendo mentre entravo, con la faccia disgustata come la mia, mi ha raccontato di avere appena assistito a uno scontro tra carrelli con il ribaltamento di uno dei due e il rovesciamento del suo contenuto seguito dallo scontato litigio tra i guidatori.

Guardo sconsolata i carrelli ricolmi in maniera iperbolica (nemmeno si trattasse di dover accumulare riserve in vista di un conflitto mondiale) che si incrociano e sfrecciano davanti a me prendendo rapidamente la fisionomia di un incubo diurno a occhi aperti. Poi passo in rassegna, sbigottita, le torri baroccheggianti di colombe farcite in mille estrosi modi e di carni che li riempiono: quei carrelli mi sembrano quasi grondare sangue, colare vistosamente grassi di ogni specie, olezzare in anticipo prefigurando i futuri soffritti, fritti, arrosti e così via.

Amo la buona tavola e ancora di più la possibilità di condividerla con persone amiche: tuttavia, in queste circostanze, sono colta da una specie di nausea, alla prospettiva. Ma non è il cibo che mi disgusta: sono le persone che lo accatastano nei carrelli con mani adunche e si guardano come nemici, con sguardi cattivi e minacciosi: c’ero prima io, l’avevo visto io l’uovo con sorpresa-per giovane-ragazzina-non-più-bambina, io quello con i gormiti, mi dispiace se le sono passata su un piede con il carrello, ma d’altra parte è colpa sua che sta in mezzo senza muoversi, faccia la fila come tutti ... e così via. Che brutta umanità si trova in giro per essere la vigilia di una festa tutta color pastello e fiorellini della primavera!

E’ uno sguardo diverso sulla stessa deriva che ha portato alla recente delusione elettorale, gettato su uno spicchio di quotidianità apparentemente distante dalla politica e dalla sua crisi; apparentemente, perché la crisi della politica è crisi della partecipazione dal basso, cioè della capacità di esercitare la cittadinanza per essere invece considerati (e considerarsi) solo o prevalentemente come consumatori. Esistere, ormai, ed essere riconosciuti come esistenti, sembra significare solo questo: consumare. Solo gli oggetti (e il cibo, tra questi) sembrano esprimere simbolicamente il possesso di un’identità forte e stabile. Non li selezioniamo neanche più in base al fatto che ci sono utili o, almeno, che ci potrebbero servire, o perché alcuni ci piacciono più di altri, ma solo per il gusto (o il dovere) di accumularli, di averne di più, di più, di più: più di tutti! Così ci comportiamo rispetto al cibo, oggetto fra gli oggetti, simbolo di benessere e, dunque, perversamente destinato allo spreco e non più asservito al piacere naturale di gustare i doni della terra, rispettandola. L’imperativo è quello di accumularne senza porsi limiti né domande e poi gettare i'enorme sopravanzo nel pozzo senza fondo dei rifiuti che basterebbero – sembra - da soli, a eliminare la fame nel mondo.

lunedì 22 marzo 2010

Mine vaganti, la vita esce dallo schermo

Scene come se fosse vita. Sensazioni che escono dallo schermo. E alle parole, ai sussulti, alle risate dei personaggi corrisponde un eco del pubblico, che si lascia coinvolgere da una narrazione che ha il passo di una commedia tradizionale e nuova, leggera e intensa.
Protagonista è una famiglia benestante del Salento, che gestisce un noto panificio, piuttosto conformista e attenta alla reputazione, come accade tra la borghesia meridionale (e non solo) che Pirandello ci ha presentato in svariate opere narrative e teatrali. Stavolta la pietra dello scandalo è qualcosa che scotta anzi che esplode, proprio come le mine vaganti del titolo. L’omosessualità, pubblicamente dichiarata dal figlio maggiore, genera una crepa nel rispettabile clan dopo aver incrinato all'istante, il fisico, il cuore del capo famiglia, forse per il suo ruolo più esposto degli altri nella tutela dell’onore domestico. E alla stimata famiglia sembrano venire meno i solidi ammortizzatori di cui pareva dotata, di fronte alla minaccia dello spietato, inflessibile, onnivoro giudizio degli altri.
La vicenda si snoda accattivante e ben orchestrata assumendo a tratti tinte grottesche e sembianze espressioniste. Si ride parecchio e ci si commuove anche. Gli stessi pregiudizi che causano tanta miseria e dolore finiscono per essere presentati con umanità, perché in fondo sono radicate costruzioni dell’ambiente, che chiedono tempo per essere scardinate.
Forse si riscontra qualche piccolo passo falso nella sceneggiatura, qualche ingenuità nei dialoghi, che però si fanno ampiamente perdonare nel contesto di una grande commedia mediterranea nuova e di qualità.
Non mancano momenti di riflessione, tra tutti una battuta di Tommaso (Scamarcio), il protagonista: - Siamo nel 2010, non nel 2000 - a sottolineare una regressione sociale avvenuta negli ultimi anni, che a ben pensare non investe solo una sconsiderata e becera omofobia, ma tutti gli aspetti della vita, ponendo ostacoli sempre più pesanti alla realizzazione di se stessi.
Il finale sembra superare il tradizionale rapporto morte-vita. È come se il rimpianto, l’eredità morale di una persona che non è più tra noi possa dare corpo all’immaginazione, ai desideri riposti di ognuno. E la morte si innesta nella vita oltre le umane possibilità di incontrarsi, raggiungersi, amare.

domenica 14 marzo 2010

In ricordo Di Jean Ferrat, poeta e cantautore.



In ricordo di Jean Ferrat, chansonnier di poeti e poeta egli stesso, cantautore, voce libera e coraggiosa, scomparso a settantanove anni. Cantava di libertà e di giustizia, di solidarietà e di ideali, ma anche di memorie d’infanzia e di sentimenti. In questa “L’amour est cerise” (L’amore è ciliegia) cantava l’amore, appassionatamente e senza falsi pudori.


Rebelle et soumise

Paupières baissées

Quitte ta chemise

Belle fiancée

L'amour est cerise

Et le temps pressé

C'est partie remise

Pour aller danser


Autant qu'il nous semble

Raisonnable et fou

Nous irons ensemble

Au-delà de tout

Prête-moi ta bouche

Pour t'aimer un peu

Ouvre-moi ta couche

Pour l'amour de Dieu


Laisse-moi sans crainte

Venir à genoux

Goûter ton absinthe

Boire ton vin doux

O rires et plaintes

O mots insensés

La folle complainte

S'est vite élancée


Défions le monde

Et ses interdits

Ton plaisir inonde

Ma bouche ravie

Vertu ou licence

Par Dieu je m'en fous

Je perds ma semence

Dans ton sexe roux


O Pierrot de lune

O monts et merveilles

Voilà que ma plume

Tombe de sommeil

Et comme une louve

Aux enfants frileux

La nuit nous recouvre

De son manteau bleu


Rebelle et soumise

Paupières lassées

Remets ta chemise

Belle fiancée

L'amour est cerise

Et le temps passé

C'est partie remise

Pour aller danser




Qui, invece, canta le parole di Louis Aragon: "Aimer à perdre la raison"