mercoledì 14 aprile 2010

Coniugare "distanza" e "vicinanza", in politica e in amore.


Quando siamo molto piccoli pensiamo i rapporti affettivi in termini simbiotici. E’ attraverso un percorso psichico assai faticoso che impariamo, se tutto va bene, ad attraversare la distanza dall’altro che si ama e ad acquisire la consapevolezza che la forza di un legame è data dalla capacità di tenerlo dentro di noi. Tuttavia, anche da adulti ci si rende spesso infelici pensando che volere bene significhi farsi uguali, avere gli stessi comportamenti improntati agli stessi valori, frequentare gli stessi luoghi e persone, professare le stesse idee politiche o religiose. E’ quanto succede, per esempio, tra genitori e figli e il rapporto s’incrina nell’incapacità di riconoscere e accettare le differenze che si determinano con il trascorrere delle generazioni; poiché i figli, una volta adolescenti e poi giovani adulti, devono intraprendere un proprio percorso per vivere esperienze al di fuori di quelle condivise nel gruppo familiare di origine, incontrando persone che portano parole o emozioni nuove.

Penso spesso al fatto che siamo abituati a considerare “distanza” e “vicinanza” come due termini del tutto opposti. O si è coinvolti o si è indifferenti. O si è immersi completamente in una dimensione di vita o le si è estranei. E' quanto accade anche a proposito della politica: un territorio che non abito direttamente, in questo momento della mia vita (non ho tessere, non frequento sedi...), ma rispetto al quale, tuttavia, non riesco a sentirmi indifferente. Mi arrabbio, dalla mia distanza (o presunta tale), di quelle che a volte mi appaiono come incoerenze manifeste della parte che sento più vicina alla mia visione del mondo. Mi arrabbio quando il linguaggio scimmiotta, sia pure inconsapevolmente, quello dell’avversario. Mi arrabbio quando in nome del realismo viene derisa la motivazione profonda che è alla base di ogni desiderio di trasformazione del mondo: la capacità di appassionarsi, di rischiare, di mettersi in gioco con i propri sogni, di ricordare che la politica riguarda il desiderio di felicità, di una qualità della vita migliore per tutti in un mondo che sia capace di misurare il proprio grado di civiltà a partire dalla disponibilità a farsi carico di chi è più fragile, contrattualmente debole, incapace di difendersi con lo strumento raffinato della parola.

Vorrei riuscire a essere insieme distante e vicina rispetto alla dimensione della politica: in grado di coinvolgermi, appassionarmi, sperare in ciò che appare difficilmente realizzabile e nello stesso tempo restare anche un po’ distante, cioè capace di sguardo critico, di nutrire dubbi e valorizzare l’inquietudine. In questo modo un partito potrebbe funzionare bene: se riuscisse a coniugare passione e dubbio autocritico, mettendosi in discussione quando necessario, accettando come tali le sconfitte e facendone tesoro per nuove e più profonde riflessioni.

Penso, in parallelo, che lo stesso ragionamento valga per i rapporti interpersonali: l'amicizia, la genitorialità e persino, o soprattutto, l’amore. Una buona relazione, che sia di sostegno reciproco, di complicità solidale, non deve essere basata sull’annullamento delle differenze, dei dubbi, delle inquietudini. Omologarsi all’altro, credo, non esprime quasi mai il fatto che lo amiamo di più, ma piuttosto che ne abbiamo paura di più e in qualche modo cerchiamo di compiacerlo per non essere rifiutati. Proprio così, però, il rapporto che lega le persone si carica di distruttività: perché la creatività nasce dove c’è capacità di coniugare le differenze e integrare distanza e vicinanza. In politica, come in amore, bisogna avere curiosità e coraggio e imparare, da Alice (nel paese delle meraviglie), ad attraversare lo specchio:cioè uscire fuori da una dimensione di realtà e prenderne le distanze per tornare a visitarla con occhi nuovi e disposti a vedere.

Nessun commento: