mercoledì 21 aprile 2010

Fare politica per desiderio di felicità.

Un tempo, per molti, la politica era passione e nasceva dalla rabbia e dal desiderio: di difendere il vecchio mondo rassicurante, per alcuni, o di costruire un mondo nuovo, per altri. Accanto alla politica come passione, però, è sempre stato presente un altro modo di concepirla, venato di moralismo, grigio, rigido. Un modo ormai vecchio e poco accattivante, ma inesorabilmente in incremento perché del tutto consono ai tempi che viviamo, caratterizzati dalla valorizzazione del calcolo, del cinismo e dell’indifferenza. Si tratta di un modo di concepire la politica trasversale rispetto a persone di diversa appartenenza partitica; e quasi par che ci sia un ammiccarsi reciproco, una complicità da parte di alcuni, di opposti schieramenti, nel continuare a praticarlo.
Questo vecchio modo di intendere la politica è rassicurante, in un certo senso, perché si lega molto alla paura; la politica si presenta, in questo caso, come una pratica di difesa, un modo per dare voce alla propria diffidenza nei confronti dell’altro che potrebbe toglierti tutto: il lavoro, gli affetti e gli averi, persino l’identità. La politica diviene, allora, costruzione di un’identità esclusivamente in negativo, di un’identità per differenza e sottrazione, di un’identità “contro”. Dall’una e dall’altra parte c’è un “noi”, spesso legato a un patto di silenzio o di omertà, e un nemico esterno; ci sono le virtù e le ragioni del territorio del “noi” e i difetti e i torti del territorio del nemico. Territori, confini, recinti, incapacità di trasformare se stessi per trasformare creativamente il mondo: le parole d’ordine delle quali è intessuto questo modo di fare politica, che oggi sembra godere di un rinnovato vigore e credibilità, sono la diffidenza, la paura, l’intolleranza per le differenze individuali e il desiderio di omologazione simbiotica come sinonimo di appartenenza. La politica si appiattisce, così, alla dimensione di tecnica e in questo modo facilmente scivola nel calcolo, nella menzogna, nell’autogiustificazionismo, trasformandosi in rincorsa competitiva del linguaggio del “nemico” e così rinunciando al proprio. Le categorie tradizionali di questo modo di concepire la politica sono legate all’idea di “pubblico” inteso come nettamente contrapposto a “privato”; di ambiti istituzionali distanti rispetto alla società civile (ridotta alla somma dei votanti) e di conta numerica: importano i voti, ma non le idee che riempiono la testa dei votanti e le loro convinzioni profonde. La politica, garzie a questo modo di concepirla, non certo minoritario, purtroppo, vive ormai da tempo la sua lenta, inarrestabile agonia; ma l’unica alternativa sembra quella del vuoto, della mancanza di orizzonti, dell’incapacità di volare alto sopra la terra per guardarla con occhio critico e perciò distante, ma continuamente ridiscendere e abitarla, nello stesso tempo, con il cuore, con le viscere, con le lacrime, con la rabbia e con la capacità di godere della compagnia degli altri esseri umani e delle cose belle e buone del mondo. La crisi della politica va letta uscendo fuori dalle sue categorie tradizionali e utilizzando, invece, concetti e termini che siamo abituati a collocare in ambiti diversi relegandoli nella sfera del privato, dell’intimo, dell’individuale. Come il concetto di “felicità”, per quanto ambiguo, subdolo, sfuggente alla definizione possa essere. Concetto che spesso ci ostiniamo a pensare come assoluto (e proprio così, perseguendolo, ci rendiamo infelici) anziché come venato anche di sentimenti diversi quali la nostalgia, l’inquietudine e, talvolta, la stessa tristezza.

La felicità, è vero, può essere intesa come conseguenza della pura soddisfazione dei propri bisogni individuali, dai più nobili e alati ai più concreti, e in questa accezione si coniuga con l’egoismo. Ma in totale contrapposizione c’è un altro possibile modo di intenderla – che poi è quello nel quale mi riconosco – e cioè come conseguenza dello stare bene con se stessi e con gli altri: non solo in riferimento a quei pochi che ci sono intimi e che amiamo di diverse specie di amore, ma alla comunità della quale facciamo parte o, se vogliamo, all’umanità intera.

Si può fare politica per mestiere, per abitudine, per ambizione, per narcisismo e ,qualche volta, persino per espiazione. E si può invece farla per dare voce a un desiderio prepotente, irrefrenabile, non di rado intrecciato con la rabbia, di trasformare il mondo, i rapporti degli esseri umani tra di loro e con la natura. Si può fare politica, insomma, per desiderio di felicità; o, per meglio dire, di felicità condivisa (per me non sarebbe neanche tale, altrimenti) resa possibile da da pratiche di giustizia sociale, ma anche da sentimenti di solidarietà e di fiducia negli altri. Occorre, forse, tornare a fare politica prima di tutto per passione: perché la passione è contagiosa e coinvolgente e rappresenta la più efficace motivazione all’agire creativo.


1 commento:

Enrico Quattrin ha detto...

Politica e felicità... mi sembra proprio un bel punto d'avvio!
Mi permetto di mettere un link dal mio blog al vostro, in segno di apprezzamento.