domenica 20 giugno 2010

La chiesa nel terzo millennio e le pecorelle smarrite



Di fronte alla morte, di solito, si riconosce, quando c’è, la grandezza del nemico; per la dottrina cattolica, poi, si dovrebbe comunque anche rispettare prima di tutto l’umanità di chi è scomparso, o, in qualche modo, riscattarla. Non così nei confronti di José Saramago, secondo quanto si può leggere nell’Osservatore romano, che il giorno dopo quello della morte dello scrittore ne dà notizia esprimendosi con toni durissimi e particolarmente aspri in un articolo intitolato “ L’onnipotenza (presunta) del narratore” nel quale si trovano frasi di questo tenore:

“Lucidamente autocollocatosi dalla parte della zizzania nell'evangelico campo di grano, si dichiarava insonne al solo pensiero delle crociate, o dell'inquisizione, dimenticando il ricordo dei gulag, delle 'purghe', dei genocidi, dei samizdat culturali e religiosi. (...) uncinata com'è stata sempre la sua mente da una destabilizzante banalizzazione del sacro e da un materialismo libertario che quanto più avanzava negli anni tanto più si radicalizzava, Saramago non si fece mai mancare il sostegno di uno sconfortante semplicismo teologico (...). Un populista estremistico come lui, che si era fatto carico del perché del male nel mondo, avrebbe dovuto anzitutto investire del problema tutte le storte strutture umane, da storico-politiche a socio-economiche, invece di saltare al per altro aborrito piano metafisico e incolpare, fin troppo comodamente e a parte ogni altra considerazione, un Dio in cui non aveva mai creduto, per via della Sua onnipotenza, della Sua onniscienza, della Sua onniveggenza"

L’acrimonia della chiesa nei confronti di Saramago si era acuita nel 1991, all’uscita del suo “Il Vangelo secondo Gesù” nel quale, per raccontare la vita di Gesù ,non si era limitato ad attingere ai soli quattro vangeli canonici. Il Gesù di Saramago è infatti presentato come un fratello, un uomo tra uomini, nato “...sporco del sangue di sua madre, vischioso delle sue mucosità e soffrendo in silenzio...” come tutti gli altri uomini, capace di attraversare ogni esperienza umana e persino di innamorarsi di amore carnale, ma anche e soprattutto conflittuale rispetto al padre-Dio. E’ un’immagine di Gesù analoga a quella che emerge, anche se in mnaiera più sfumata e allusiva, dal film di Pasolini "Il Vangelo secondo Matteo", ma ancor di più dal bellissimo album di Fabrizio De André, “La buona novella” che quando uscì, nel 1970, nutrì le inquietudini di quelli che erano allora adolescenti e che vivevano il conflitto tra gli ideali religiosi di uguaglianza e solidarietà che sentivano propri e la faccia del potere ecclesiastico, delle gerarchie rigide, del pensare per dogma e del perdono concesso a chi poteva pagarselo. Per alcuni - e si è trattato del mio caso - l’esito del conflitto fu quello della perdita della fede; per altri la scelta fu invece quella di mantenere un dialogo, sia pure conflittuale, con l’istituzione – chiesa. La quale, oggi, come del resto è consono ai tempi, sembra scegliere la via delle porte chiuse al dubbio e all’inquieto interrogarsi sul Bene e sul Male, cacciando via, anche nel ricordo, quelle che secondo il proprio Vangelo dovrebbe considerare come pecorelle smarrite.

giovedì 10 giugno 2010

L'insidia delle parole


Un tempo mi rilassava così tanto viaggiare in treno! Mi veniva voglia di leggere, ma poi anche di sollevare gli occhi dalle pagine e guardare fuori dal finestrino; mi divertivo a immaginare, di giorno o di notte, la quotidianità celata dietro le finestre delle case in corsa o il microcosmo di relazioni quotidiane di un parco-giochi; e così pensavo anche ai fatti miei mentre cercavo di afferrare, di contro alla rapidità dello scorrere delle immagini, i colori, il verde delle foglie e l’intermittente, sconnesso vociare di mamme, nonni e bambini accompagnato, qualche volta, dall’abbaiare festoso di un cane. Mi piaceva anche, allo stesso modo, osservare i miei compagni di viaggio seduti nel ventre caldo e odoroso della carrozza; cercare di indovinare le loro vite, gli interessi, gli amori, la professione; e interpretare come segno di infelicità o di trepidante attesa la piega delle labbra, immaginare i pensieri e i sogni dietro le palpebre socchiuse nel leggero tremolare dell’assopimento. Ora, invece, viaggiatori, binari, odori e soprattutto i messaggi diffusi attraverso gli altoparlanti, diventano quasi sempre motivo di irritazione. Questi ultimi, in particolare, i messaggi che ti disturbano all’interno del treno e ai quali non tenti nemmeno di sottrarti e quelli che ti rincorrono sulle banchine e negli atrii fino alla biglietteria e poi ancora, sfumando, nello spazio antistante la stazione, sembrano metaforizzare la deriva culturale ed etica, la trasfigurazione antropologica alla quale siamo soggetti da qualche anno: trasformati da uomini e donne a consumatori; cioè “clienti” – come, appunto, ci definisce trenitalia - oppure nullità invisibili. Ciò che più mi stimola il sentimento indefinibile che provo, in bilico tra rabbia e stupore, è l’uso continuo di catene verbali contorte, allusive e indirette, nonché manierate, per definire situazioni o condizioni rispetto alle quali esistono già nella nostra lingua espressioni chiare e condivise; situazioni o condizioni che così "circumnavigate" dal punto di vista delle parole sembrano perdere carnalità per diventare qualcosa di ineffabile e che quando riguardano difficoltà o elementi negativi sembrano rovesciarsi, quasi per magia, nel loro opposto positivo. Ogni negatività, anche la più grave, viene declassata al livello di semplice “disagio” (al singolare), per il quale attraverso la voce all’altoparlante si scusano di continuo, ma senza il tono di voce consono allo scusarsi. E’ un’inezia questo disagio di cui ci scusiamo con te – ti suggeriscono tali anonime voci suadenti e allo stesso tempo sicure fino alla protervia - e se ti arrabbi mostri di essere nevrotico, ossessivo, ansioso, incapace di vivere al passo con i tempi…Perdere una coincidenza nonostante l'ampio margine calcolato dopo precedenti esperienze disastrose diventa un semplice disagio; arrivare tardi al lavoro o a un appuntamento un semplice disagio; stare fermi senza una spiegazione e senza cognizione della durata, biblica o meno, dell’inopinata stasi in aperta campagna, diventa di nuovo un semplice disagio. Niente assume aspetto di gravità, sia pure quella di un piccolo dramma quotidiano.
Oggi mi è capitato di sentire definire gli operatori ferroviari in sciopero “personale ferroviario non disponibile”. Hanno detto proprio in questo modo, alla stazione di Bologna, ho sentito bene: il treno numero così e cosà viene soppresso “per indisponibilità del personale ferroviario”! Fa un’altra impressione sentir dire così piuttosto che sentir nominare li termine “sciopero”. L’espressione sostitutiva, infatti, da una parte non lascia emergere che ci possono essere problemi rispetto ai quali il personale suddetto protesta a ragion veduta, dall’altra adombra o suggerisce proprio l’idea che chi non è disponibile è bizzoso, piccoso, ingeneroso e rende più difficile la vita del prossimo; ma trenitalia no; anzi, lei si scusa anche quando è innocente, per il disagio che altri, gli “operatori indisponibili”, recano ai suoi affezionati clienti.


domenica 6 giugno 2010

Cavalieri, cavalli e moto


Voglio essere molto impopolare, stasera. Impopolare e antipatica. Ce n’è bisogno, forse, in un’epoca nella quale si cerca, talvolta, il consenso, rincorrendo le parole d’ordine dello schieramento opposto al proprio quando appaiono vincenti, cioè popolari.

Questa domenica di sole non l’ho trascorsa al mare, ma sono stata al CTO (Centro Traumatologico) di Firenze in veste di zia di un ragazzo di 16 anni ricoverato dopo un incidente di moto. Non era l’unico giovanissimo immobilizzato nel letto e con uno o più arti ingessati, il volto fattosi quasi evanescente nello sprofondare tra i cuscini e l’aria spersa e sbigottita nel trovarsi catapultato in una dimensione così inconsueta, tra cateteri, aghi, odori dolciastri e pungenti insieme; con al proprio capezzale le figure sollecite degli adulti, sollevati per lo scampato Pericolo Maggiore, ma in apprensione per tutti gli altri pericoli, sia pure minori, in agguato: per esempio per le protesi di questo o quel segmento corporeo, le viti, i chiodi, i tasselli con i quali i propri teneri virgulti potrebbero venire inchiavardati, trasformati, almeno nelle fantasie paurose più recondite, in un’entità mista tra vivente e inorganico, in indefinibili ibridi destinati a portare nella propria carne le stimmate perenni della giovanile e incosciente esuberanza. La fugace apparizione di un camice svolazzante genera subito quel tipico affannarsi d’ospedale, negli adulti, che fanno a gara a tallonare il miraggio bianco per carpire una parola in più di spiegazione, oltre quelle piuttosto fredde delle prognosi infarcite di termini specialistici; ma più che altro alla ricerca di una rassicurazione, di una consolazione, di un’autorevole azione capace di normalizzare l’evento che li fa sentire protagonisti ansiosi e disorientati di un dramma. E ci sono poi le prediche, i sermoni di noi adulti inascoltati rivolti a quelle giovani vittime della propria incoscienza; con timido imbarazzo, talvolta mascherato da rudezza. Ma li perdoniamo subito in realtà; siamo stati anche noi come loro e comprendiamo il bisogno di mettersi alla prova, l’elemento di sfida che è insito, anche se non consapevolmente, in certi loro gesti e comportamenti che somigliano così tanto ai nostri di quando avevamo la loro età. Quando non si è ancora adulti, ma ci sentiamo velleitariamente tali nel senso che di quella condizione abbiamo le caratteristiche psicofisiche, ma non il potere, l’autonomia.

Proprio da ieri è ricoverato qui, ironia della sorte, anche Valentino Rossi, con fratture esposte – apprendo – della tibia e del perone; non molto più grande, anagraficamente parlando, di alcuni di questi anonimi colleghi di disavventura di mio nipote, ma a differenza di loro del tutto autonomo dal punto di vista economico e del riconoscimento sociale anche alla loro età. E’ al piano di sopra e non si parla d’altro. Al personale è ora di questo che si chiede notizia: se l’hanno visto, se sanno cosa fa e come sta; e ci si interroga, per esempio, su cosa abbia mangiato, se lo stesso cibo che sta per essere servito “qui e ora” oppure no...Qualche volta se ne parla guardando in alto, al soffitto che è una cosa sola con il pavimento del piano di sopra, dove ognuno di quei ragazzi, ora, vorrebbe trovarsi. Mentre la televisione trasmette (e loro, i ragazzi ingessati e attaccati a cateteri, aghi e tubi d’ogni sorta, la guardano rapiti) una corsa di moto con l’enfatico commento del giornalista che si accorda al rombare superbo dei motori. Il cortile antistante e l’atrio sono ormai definiti in relazione al ricovero eccellente, quello per il quale batte unanime il cuore degli italiani, finalmente uniti per un comune sentire, nel momento nel quale sembrano sempre più accattivanti le tentazioni scissioniste del federalismo. Ecco perché mi sento così impopolare da alcune ore: perché provo rabbia di fronte alle telecamere che incontro al mio venirmene via, alla fan - tifoseria con le maglie gialle, agli intervistatori e agli intervistati e persino leggendo i cartelli appesi da anonimi ammiratori nel cortile. Nei volti dei ragazzi ricoverati prima di uscire ho colto una sorta di impalpabile trasformazione: meno timidezza, meno sbigottimento, meno ripensamento dubitoso ancorché inespresso, ma una sorta di identificazione fiera con Valentino Rossi, quasi per un atto di eroismo.

Penso che specialmente da giovani sia intenso il bisogno di sfidare i propri limiti psicofisici con atti di coraggio: ma che tali atti un tempo fossero nella maggior parte dei casi ispirati da ideali – politici, sociali o anche personali, legati per esempio a un sogno d’amore perseguitato e offeso – e oggi siano sempre più insensatamente fini a se stessi. Costruire eroi di cartapesta, destinati a spegnere in giovanissima età la propria gloria senza farne tesoro per altri e ripagati innanzitutto dall’accumulo di denaro oltre l’immaginabile: questo è il segno dei tempi. Il cavaliere, eroe di epoche passate, e il suo cavallo, erano compagni di viaggio vivi entrambi che parlavano linguaggi diversi e li accordavano, momentaneamente, in vista dell’impresa voluta dall’uomo in armi, come gli strumenti prima di un concerto. La moto e il suo centauro, invece, l’uno vivo e l’altra inerte oggetto inorganico, finiscono per scambiarsi le parti: ed è la moto che ha il potere di soverchiare l’uomo nel decidere l’impresa, in un rovesciamento paradossale in virtù del quale il mezzo – la moto, appunto - diventa il fine stesso dell’agire.


sabato 5 giugno 2010

Le verità del Risorgimento

Ho assistito oggi alla presentazione del libro di Claudio Fracassi “Il romanzo dei Mille”, che tratta dello sbarco dei garibaldini a Marsala e delle mirabolanti vittorie in terra di Sicilia. Pur essendo un libro di storia, basato essenzialmente sulle memorie e sui diari dei giovani partiti con Garibaldi (moltissimi dei quali provenivano dalla Padania), ha un titolo che, forse involontariamente, rinvia a ricostruzioni favolistiche, agiografiche, apologetiche che hanno circondato il processo che ha portato all’unità del nostro paese. Una fra tante: mettere insieme le icone (o i santini) di Giuseppe Mazzini e Vittorio Emanuele II è stato un prodigio che l’efficientissima propaganda fascista è riuscita a fare con successo. Si pensi che in realtà Mazzini è morto a Pisa, ospite di Janet Nathan e Pellegrino Rosselli presso i quali viveva con il nome di Giorgio Brown , perché ricercato dalla polizia sabauda come un pericoloso terrorista. Verosimilmente la causa di tanti misteri o interpretazioni di comodo è tutta racchiusa nel nodo nevralgico che da sempre è stato il Risorgimento, soprattutto nei suoi capitoli salienti e straordinari, come quello di cui si occupa il saggio di Fracassi. Tale fenomeno per la sua natura di atto fondativo dello Stato si presta ad essere strumentalizzato dalle forze politiche, e la cultura, in questo caso, dà l’impressione di non essere abbastanza autonoma o coraggiosa (per usare un termine caro ai Mille) per presentare un quadro obiettivo e possibilmente “unitario” ed esaustivo.
Oggi la sinistra, dopo molti anni in cui quasi si irrideva la retorica risorgimentale, torna a rivalutare i padri della patria, e Garibaldi torna ad essere un incredibile, fenomenale eroe. Su altri fronti: leghista al nord e “neoborbonico” al sud, l’eroe dei due mondi viene invece presentato pressoché come un bandito che ha seminato morte e distruzione. Va puntualizzato che mentre i primi sono forza di governo e dovrebbero pertanto misurare le parole, specie in riferimento alla storia patria, i secondi rappresentano una debole voce, che forse al di fuori del meridione, arriva soltanto a chi, casualmente o per scrupolo storico, è interessato a conoscerla. Se il quadro fosse completo, probabilmente non resterebbe che unirsi al coro della sinistra ed applaudire alle ardimentose gesta degli eroi del Risorgimento. Invece vanno considerati anche altri studiosi, come ad esempio Gigi Di Fiore, giornalista e storico, che fra le varie pubblicazioni sull’argomento in questione, ha scritto “I vinti del Risorgimento”, un saggio (peraltro edito dalla prestigiosa UTET di Torino) che ci presenta una realtà storica meno gloriosa e assai più problematica.
Ora, dopo un secolo e mezzo dall’impresa dei Mille auspicherei un impegno verso una maggiore chiarezza su un tema così importante per gli Italiani. Probabilmente anche il libro di Claudio Fracassi (che confesso di non avere ancora letto) rappresenta un contributo in questa direzione, spero in ogni caso che - per una più ricca e oggettiva ricostruzione storica - accanto alle testimonianze dei garibaldini si possano ascoltare le parole dei soldati borbonici o quelle della sarta di Calatafimi, del pescatore catanese, del falegname di Messina...