giovedì 10 giugno 2010

L'insidia delle parole


Un tempo mi rilassava così tanto viaggiare in treno! Mi veniva voglia di leggere, ma poi anche di sollevare gli occhi dalle pagine e guardare fuori dal finestrino; mi divertivo a immaginare, di giorno o di notte, la quotidianità celata dietro le finestre delle case in corsa o il microcosmo di relazioni quotidiane di un parco-giochi; e così pensavo anche ai fatti miei mentre cercavo di afferrare, di contro alla rapidità dello scorrere delle immagini, i colori, il verde delle foglie e l’intermittente, sconnesso vociare di mamme, nonni e bambini accompagnato, qualche volta, dall’abbaiare festoso di un cane. Mi piaceva anche, allo stesso modo, osservare i miei compagni di viaggio seduti nel ventre caldo e odoroso della carrozza; cercare di indovinare le loro vite, gli interessi, gli amori, la professione; e interpretare come segno di infelicità o di trepidante attesa la piega delle labbra, immaginare i pensieri e i sogni dietro le palpebre socchiuse nel leggero tremolare dell’assopimento. Ora, invece, viaggiatori, binari, odori e soprattutto i messaggi diffusi attraverso gli altoparlanti, diventano quasi sempre motivo di irritazione. Questi ultimi, in particolare, i messaggi che ti disturbano all’interno del treno e ai quali non tenti nemmeno di sottrarti e quelli che ti rincorrono sulle banchine e negli atrii fino alla biglietteria e poi ancora, sfumando, nello spazio antistante la stazione, sembrano metaforizzare la deriva culturale ed etica, la trasfigurazione antropologica alla quale siamo soggetti da qualche anno: trasformati da uomini e donne a consumatori; cioè “clienti” – come, appunto, ci definisce trenitalia - oppure nullità invisibili. Ciò che più mi stimola il sentimento indefinibile che provo, in bilico tra rabbia e stupore, è l’uso continuo di catene verbali contorte, allusive e indirette, nonché manierate, per definire situazioni o condizioni rispetto alle quali esistono già nella nostra lingua espressioni chiare e condivise; situazioni o condizioni che così "circumnavigate" dal punto di vista delle parole sembrano perdere carnalità per diventare qualcosa di ineffabile e che quando riguardano difficoltà o elementi negativi sembrano rovesciarsi, quasi per magia, nel loro opposto positivo. Ogni negatività, anche la più grave, viene declassata al livello di semplice “disagio” (al singolare), per il quale attraverso la voce all’altoparlante si scusano di continuo, ma senza il tono di voce consono allo scusarsi. E’ un’inezia questo disagio di cui ci scusiamo con te – ti suggeriscono tali anonime voci suadenti e allo stesso tempo sicure fino alla protervia - e se ti arrabbi mostri di essere nevrotico, ossessivo, ansioso, incapace di vivere al passo con i tempi…Perdere una coincidenza nonostante l'ampio margine calcolato dopo precedenti esperienze disastrose diventa un semplice disagio; arrivare tardi al lavoro o a un appuntamento un semplice disagio; stare fermi senza una spiegazione e senza cognizione della durata, biblica o meno, dell’inopinata stasi in aperta campagna, diventa di nuovo un semplice disagio. Niente assume aspetto di gravità, sia pure quella di un piccolo dramma quotidiano.
Oggi mi è capitato di sentire definire gli operatori ferroviari in sciopero “personale ferroviario non disponibile”. Hanno detto proprio in questo modo, alla stazione di Bologna, ho sentito bene: il treno numero così e cosà viene soppresso “per indisponibilità del personale ferroviario”! Fa un’altra impressione sentir dire così piuttosto che sentir nominare li termine “sciopero”. L’espressione sostitutiva, infatti, da una parte non lascia emergere che ci possono essere problemi rispetto ai quali il personale suddetto protesta a ragion veduta, dall’altra adombra o suggerisce proprio l’idea che chi non è disponibile è bizzoso, piccoso, ingeneroso e rende più difficile la vita del prossimo; ma trenitalia no; anzi, lei si scusa anche quando è innocente, per il disagio che altri, gli “operatori indisponibili”, recano ai suoi affezionati clienti.


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