domenica 25 gennaio 2009

Soli d'inverno



Nella monotonia dell’essere talvolta si accendono lampi di vecchie emozioni che promettevano l’avverarsi di sogni, di meraviglie esistenti, tangibili, a portata di mano se non lasciate sfuggire, se perseguite con dedizione; concrete, almeno nella dimensione della fantasia che, per certi aspetti, è anch’essa una realtà.
Questi frammenti di emozioni che si affacciano inattesi (più spesso quando ci avviciniamo alla bellezza, sia essa in un testo, una musica, un’opera figurativa, una manifestazione della natura…) ci dicono che esiste una speranza. Ci parlano e in un lampo si capisce che su questo mondo, dove siamo stati scagliati senza averlo chiesto inermi e ignari, costellato di insidie e invaso dalla sofferenza, esiste qualcosa di bello da scovare, che ci coinvolge in prima persona e ci rende protagonisti.
Questi brani, innocue schegge di emozioni, sono la luce che torna a bagnare la spiaggia coperta da relitti approdati nei giorni di burrasca. Un debole sole d’inverno che riaccende il calore delle giornate balneari vissute e soprattutto delle estati promesse, immaginate in una vaghezza che ancora potrebbe essere. Sono tracce, indizi di un tesoro, che pure nell’oceano del dolore, abbiamo ogni giorno la possibilità di scoprire.

venerdì 16 gennaio 2009

La neve e l’addio


Erano giorni di neve e di speranza. E nella neve, la speranza ha avuto alito di vento. Sorridevamo, ancora più sicuri, ormai, che non poteva accadere. Non ora, non a te. Tu avevi scritto poesie, infatti.

Ne trascrivo una, che leggerà chi non ti conosceva, perché tu continui a parlare.

CANTO

ora voglio parlarvi di me
se ricordo come si fa

di zone morte ed altre verità

quando il sangue sposava le lacrime
e ogni mattino era da rifare
le mani immerse nelle ore correnti
stillavano argento e rilasciavano foglie

e leggevo dylan thomas
senza capire come giovane è il sole
solo una volta
né sapevo che avrei cantato
anche io anche domani
come il mare nelle sue catene


Tratta da: Franca Casagrande, Nessuno si fa male, Roma 1995.

lunedì 12 gennaio 2009

La guerra di Fabrizio


Per ricordare, a dieci anni dalla scomparsa, il poeta e cantautore Fabrizio De André, che nella sua insostituibile semplicità e grandezza continua ad esserci vicino, con piacere inserisco un testo che Nicola Ghezzani ha scritto un anno fa.

Figlio della buona borghesia ligure, Fabrizio De Andrè, rifiuta di appartenere alla casta e si mette dalla parte degli ultimi: non crea un’azienda o una qualche attività concorrente a quella del padre e nemmeno fonda un partito più o meno di sinistra, per non colludere con le infinite abilità trasformiste della casta. Si mette invece a scrivere canzoni; e lo fa già a quindici e sedici anni, mettendosi in rotta con la scuola. Sono da subito canzoni matte e disperate, nelle quali prende forma la sua vocazione di anarchico libertario di stampo nichilista: in esse, racconta solo ciò in cui non crede; la sua pietà s’indirizza soprattutto ai “falliti”. Con gli anni la sua guerra privata si accresce di sempre nuovi temi e nuovi furori. E con essa si affina la necessità del fuoco, che infatti partendo dal cuore prende ad arderlo dapprima nella mente poi nello stomaco e nella gola, nella forma del vizio, dell’alcol e del fumo. Quel fuoco gli scava il corpo, lo emacia, lo ammala. Ogni organo è sul fronte di questa guerra invisibile. Così mentre le canzoni sono manifesti strillati contro i luoghi comuni, nel nome di Brassens e di Kropotkin, la guerra intestina, la guerra vissuta nelle pieghe segrete del corpo, esprime nel vivo della carne la lotta inflessibile del poeta-filosofo contro le nuove tirannidi: il moralismo del movimento operaio, che comanda la salute etica del militante e il sacrificio altruista per il Partito, squalificando l’individualismo solitario dell’anarchico; il salutismo della medicina, che impone di essere sempre in buona salute, inducendo un subdolo terrore nei confronti dei sintomi, dei “segni” del male (povertà, infermità, malattia, morte), che sono poi l'essenza stessa della condizione umana; il mito liberista del successo e della “scena”, cui oppone la sua timidezza, l’assenza sistematica dai palchi, la coltivata asimmetria del volto; e infine - e forse soprattutto - la Chiesa cattolica, che non perde occasione per raccomandare, con assoluta e perfetta ipocrisia, la bellezza dell’innocenza perduta, la bontà delle intenzioni, la salute dell’anima. Contro tutte queste tirannidi, che dominano il campo ideale dell’Italia contemporanea, De Andrè corre per conto suo. E muore. Un tumore ai polmoni lo uccide a 58 anni e suggella con un fuoco stoico una fine sistematicamente ricercata.
La sua morte è una scheggia postuma, brilla come un sole pietrificato sul paesaggio livido delle sue canzoni.

(Per gentile concessione dell’autore Nicola Ghezzani)

lunedì 5 gennaio 2009

Le colpe dei padri

Una considerazione che viene sempre più spesso ripresa in quest’ultimo periodo, e collegata alla crisi, è quella connessa con il cosiddetto “precariato” o “lavoro precario”, che è un ombrello sotto il quale si copre moltissima gente (nei fatti, ormai la maggioranza) che lavora sul serio, e spesso con poca gratificazione umana ed economica. Si intuisce dalla premessa che sono termini, di origine sindacale, che non amo e sarei felice di veder sparire (specie per il loro orribile senso discriminatorio ai danni del lavoratore, che di essere “precario” non ha certo colpa).
Mi ha stupito anche un intervento addirittura del Papa a questo proposito, volto a ridurre l’incidenza del lavoro precario. E’ vero che è lo spirito della Rerum Novarum a parlare, ma il Papa dovrebbe sapere, come purtroppo tutti noi constatiamo giorno per giorno, che è la vita dell’uomo ad essere precaria: che lo sia anche il lavoro, è solo una conseguenza.
La mia previsione è che il “precariato” resterà e si estenderà: previsione facile, a dire la verità, perché nella storia il lavoro è sempre stato precario, tranne (si narra) che per la generazione dei nostri padri, ed anche in questo caso, è forse solo un’impressione dettata da miopia. In effetti, a ben vedere, il cosiddetto “posto fisso” ha riguardato, anche se lo guardiamo solo su scala nazionale (nell’Italia del cosiddetto “boom economico”), ben poca gente: ha escluso per esempio buona parte delle donne, molti disabili, le cui pensioni di invalidità, ove esistevano, coprivano a volte l’incapacità di procurar loro un lavoro appena gratificante e sostenibile, e sicuramente molti che si presentavano nel nostro paese da “stranieri”, ed anche molta gente che aveva il solo torto di vivere nel posto "sbagliato" (per esempio al Sud o nelle isole). Nel momento in cui abbiamo cercato di “allargare“ un po’ di più il mercato del lavoro, il nostro sistema è penosamente collassato (a dimostrazione che tanto solido non era, forse anche – ma non sono un economista – per lo scarso gettito fiscale dei più abbienti). Comunque, ci possiamo consolare; se usciamo dall’Italia e poi dall’Europa, la situazione peggiora: il “posto fisso” è stato ed è una chimera per forse i nove decimi dell’umanità.
Quindi, c’è da disperare? Sì e no, allo stesso tempo, secondo me. Sì, perché stiamo (scientemente in molti casi) volgendo il nostro cavallo di Troia verso un falso obiettivo: la forse impossibile, a breve termine ed in questo sistema, eliminazione del precariato a livello mondiale (sperando, forse ipocritamente, che i “precari stabilizzati” guadagnino abbastanza da essere dei “buoni consumatori”: il resto sembra interessi poco). No, se riusciremo, o almeno ce lo proporremo come obiettivo, a scindere il “precariato” o la disoccupazione (che non morirà certamente domani) dalle loro indesiderabili conseguenze, prima di tutto (anche se la parola suona blasfema in un paese in fondo benestante come l’Italia) la miseria e (parola ancora meno politicamente corretta) la fame.
E’ secondo me un enorme controsenso combattere la disoccupazione ed il precariato, nel momento in cui si riducono le garanzie sociali e si pensa di smantellare il sistema sanitario, assistenziale ed educativo, prima fonte di “sprechi” secondo la martellante propaganda dei mass-media. Invece, il parlare continuamente di fine del precariato (sapendo bene che, a livello mondiale, è un obiettivo irraggiungibile) sembra voler far dimenticare che la fame e la miseria colpiscono ancora la più grande parte della popolazione mondiale, e lo fanno non perché il lavoro è precario, ma perché a fronte di questo, non c’è un sistema assistenziale capillare e che non guardi a censo, origine, nazionalità, ecc., ma assista nel modo migliore (a livello, se possibile, dello “stato dell’arte”), senza fare domande personali e senza emettere giudizi. Questa secondo me è la principale funzione di uno stato che si dica moderno, il resto è solo accessorio e forse non essenziale.