lunedì 12 gennaio 2009

La guerra di Fabrizio


Per ricordare, a dieci anni dalla scomparsa, il poeta e cantautore Fabrizio De André, che nella sua insostituibile semplicità e grandezza continua ad esserci vicino, con piacere inserisco un testo che Nicola Ghezzani ha scritto un anno fa.

Figlio della buona borghesia ligure, Fabrizio De Andrè, rifiuta di appartenere alla casta e si mette dalla parte degli ultimi: non crea un’azienda o una qualche attività concorrente a quella del padre e nemmeno fonda un partito più o meno di sinistra, per non colludere con le infinite abilità trasformiste della casta. Si mette invece a scrivere canzoni; e lo fa già a quindici e sedici anni, mettendosi in rotta con la scuola. Sono da subito canzoni matte e disperate, nelle quali prende forma la sua vocazione di anarchico libertario di stampo nichilista: in esse, racconta solo ciò in cui non crede; la sua pietà s’indirizza soprattutto ai “falliti”. Con gli anni la sua guerra privata si accresce di sempre nuovi temi e nuovi furori. E con essa si affina la necessità del fuoco, che infatti partendo dal cuore prende ad arderlo dapprima nella mente poi nello stomaco e nella gola, nella forma del vizio, dell’alcol e del fumo. Quel fuoco gli scava il corpo, lo emacia, lo ammala. Ogni organo è sul fronte di questa guerra invisibile. Così mentre le canzoni sono manifesti strillati contro i luoghi comuni, nel nome di Brassens e di Kropotkin, la guerra intestina, la guerra vissuta nelle pieghe segrete del corpo, esprime nel vivo della carne la lotta inflessibile del poeta-filosofo contro le nuove tirannidi: il moralismo del movimento operaio, che comanda la salute etica del militante e il sacrificio altruista per il Partito, squalificando l’individualismo solitario dell’anarchico; il salutismo della medicina, che impone di essere sempre in buona salute, inducendo un subdolo terrore nei confronti dei sintomi, dei “segni” del male (povertà, infermità, malattia, morte), che sono poi l'essenza stessa della condizione umana; il mito liberista del successo e della “scena”, cui oppone la sua timidezza, l’assenza sistematica dai palchi, la coltivata asimmetria del volto; e infine - e forse soprattutto - la Chiesa cattolica, che non perde occasione per raccomandare, con assoluta e perfetta ipocrisia, la bellezza dell’innocenza perduta, la bontà delle intenzioni, la salute dell’anima. Contro tutte queste tirannidi, che dominano il campo ideale dell’Italia contemporanea, De Andrè corre per conto suo. E muore. Un tumore ai polmoni lo uccide a 58 anni e suggella con un fuoco stoico una fine sistematicamente ricercata.
La sua morte è una scheggia postuma, brilla come un sole pietrificato sul paesaggio livido delle sue canzoni.

(Per gentile concessione dell’autore Nicola Ghezzani)

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