lunedì 24 marzo 2008

Piccoli fuochi

Nei piccoli fuochi di cui parla Nicola (Blog) credo molto. Piccoli fuochi di diversa natura, semi gettati nel solco del personalissimo sentiero di ciascuno. Certo, ci vuole anche lo sguardo politico ampio, la capacità di travalicare i propri orizzonti privati: purché la consapevolezza di questa necessità non si trasformi in un alibi per mantenere intatti i propri spazi di potere, non importa quanto ristretti.
La prima delusione politica l’ho provata molto presto; avevo 16 anni, più o meno. Un piccolo paese toscano. Gli uomini, loro soltanto, uscivano, la sera, lasciandosi alle spalle la tavola ancora apparecchiata e i figli assonnati, ma non disposti facilmente alla resa. Nei bar si fronteggiavano con le parole della politica; ben presto, però, ogni dissidio si ricomponeva nel parlare di calcio o di caccia, ma soprattutto di donne. Di giorno ci osservavano, ci catalogavano, cercavano di custodire quelle – madri, sorelle, figlie - che consideravano proprie e di ghermire, almeno con il pensiero, quelle che consideravano di altri; e la sera, poi, tutti insieme, nei bar, appunto, in qualche modo ci evocavano esprimendosi nella stessa identica maniera. La politica finiva dove cominciava la vita: nel ragionare d’amore o di tempo libero o di genitorialità.
“Viene alle nostre riunioni, lei non è dei tuoi e vi tradisce” dicevano beffardi a mio padre altri uomini, di un diverso raggruppamento politico. E lui, che non aveva mai messo le mani addosso a nessuno di noi per tutta la nostra infanzia, che era di un raggruppamento cattolico, ma coerente e sensibile, capace di solidarietà non formale nei confronti dei propri simili, per due o tre anni, quasi spinto dagli altri (da quelli dello schieramento nelle cui idee cominciavo a riconoscermi) ci mostrò un altro volto; quello delle minacce, dei divieti, delle punizioni. Ero una ragazzina che disobbediva: questo solo contava e creava una cornice comune tra tutti quegli uomini, di destra, di centro o di sinistra.
E’ passato molto tempo; ora mio padre ed io parliamo di politica serenamente, talvolta ritrovandoci in un comune sentire, altre volte opponendo l’uno all’altra punti di vista assai diversi; ci prendiamo un po’ in giro, ma ci ascoltiamo. Un piccolo fuoco, credo.

Oh, yeah

Quelli che… "i cinesi ci invaderanno e ci toglieranno il lavoro"…

Quelli che… "gli albanesi ci stanno già togliendo il lavoro"…

Quelli che… "è colpa dei meridionali se oggi non abbiamo lavoro"…

Oh, yeah


Quelli che… le persone le chiamano ‘risorse’ e i licenziamenti ‘tagli’…

Quelli che… “a causa dell’inesorabile legge della domanda e dell’offerta”…

Quelli che... "il trend congiunturale richiede il taglio delle risorse in esubero"...

Oh, yeah


Quelli che… "le tasse non servono a niente e le pagano solo i coglioni"…

Quelli che… "anche il voto non serve a niente, tanto sono tutti uguali"…

Quelli che… "e poi nella vita devi fregare per primo, per non essere fregato"…

Oh, yeah

venerdì 21 marzo 2008

Scrivere per sé, scrivere per altri

Credo di avere capito affettivamente, prima ancora che nella dimensione riflessiva, il senso di questo spazio di scrittura. E, per quel che ho capito, lo condivido.
E’ legato all’amore per il frammento, per esempio. All’idea, cioè, che un piccolissimo pezzo di realtà possa essere capace di racchiuderla tutta. All’idea, anche, che ci siano legami tra esperienze apparentemente irrelate e lontane e che scoprirli e metterli in luce rappresenti una sorta di sfida che vale la pena raccogliere, ma anche in qualche modo un gioco, sia pure adulto.
La scheggia si insinua anche dove non è prevista o ben accetta. Forse. La scheggia si direziona verso interlocutori più o meno noti e con i quali ci si può sentire in sintonia, ma può raggiungerne altri sconosciuti, inimmaginati, probabilmente anche assai diversi per visione del mondo, storia, valori professati, sogni gelosamente riposti da qualche parte, dentro di sé.
Questo spazio di scrittura è legato, magari, anche all’amore per il paradosso. Non si può scrivere per altri senza che la scrittura diventi anche uno scrivere per sé, che ne siamo o meno consapevoli. E non si può neanche scrivere per sé, senza fare i conti con i fantasmi degli interlocutori che desidereremmo avere. Il pensiero paradossale permette di cogliere una realtà più complessa e tutta l’ambivalenza, positiva, delle nostre esperienze, senza bisogno di fingere territori del bene e del male rigidamente separati.
Questo spazio, probabilmente, è originato anche dal bisogno, che non sembra trovare ascolto, di un modo di fare politica che non la identifichi solo con quella istituzionale, ma la leghi a tutti gli ambiti di esistenza, compresi quelli dei nostri microcosmi affettivi o culturali e – perché no? - ai territori della nostra psiche.

sabato 15 marzo 2008

L'ora di religione

Il potente dio della tecnologia almeno in Occidente ha in parte sostituito la religione, sua diretta concorrente, e anche la passione politica, che nel bene e nel male ha movimentato la Storia per un paio di secoli, direi dalla rivoluzione francese al crollo del muro di Berlino. Su un altro fronte, religione e politica sono state sfibrate da una divinità altrettanto popolare e influente: il denaro.
Casualmente gli ultimi due film che ho visto, si muovono intorno a personaggi molto simili: uomini frustrati i quali disperatamente inseguono soldi e successo (che in assenza di talenti si traduce in potere d’acquisto) sullo sfondo di una società alienata e alienante, spietata e indifferente. Niente di nuovo sotto al sole, storie simili ne abbiamo già conosciute. L’originalità sta forse nell’organizzazione del crimine a gestione familiare. Beninteso, non si tratta di famiglie camorriste o di clan malavitosi. Sono persone comuni e incensurate, l’uomo medio inglese o americano.
Così vanno più o meno le cose in Sogni e delitti di Woody Allen. Mentre Sidney Lumet (Onora il padre e la madre) pensa bene di andare oltre, e quindi i legami familiari non sono soltanto l’occasione per diventare assassini, ma anche fonte di vittime da rapinare, con esiti che andranno oltre il prevedibile…
Dunque il denaro ha ormai sfaldato anche i vincoli considerati più sacri. Questo in Occidente.

Nel resto del mondo, almeno in alcune aree, si assiste ad una sorta di riscossa della religione, che non soltanto tiene testa alle lusinghe di denaro e tecnologia, ma sembra avere anche preso il posto della politica. Mi riferisco certamente ai vari movimenti islamici di cui si fa un gran parlare, ma anche alle più recenti rivolte dei monaci in Birmania (Myanmar) e in Tibet. È vero che anche in passato, ad esempio durante guerra del Vietnam, i monaci buddhisti hanno manifestato il loro dissenso attraverso proteste a volte estreme (alcuni si sono dati alle fiamme), tuttavia la battaglia politica era saldamente nelle mani di movimenti laici. La disillusione nei confronti della politica, per noi, in tempi di “veltrusconismi”, non è molto difficile da comprendere. Resta da capire cosa ne sarà dell’Occicente se rimarrà in balia del dio dei motori e del bancomat, così lontano dalla spiritualità e dall’anima, da sempre fondamenti irrinunciabili dell’essere umano e della convivenza.

(E. M.)

martedì 11 marzo 2008

In ospedale

Sono dovuto andare in ospedale, qualche giorno fa. Un day hospital, per accertamenti. Suona bene in inglese. Ma ero un paziente. Ero, cioè, dall'altra parte della barricata.
Non è facile da accettare, per un medico. Proprio questo, a me. Non ci si comporta così con un depositario dei segreti della vita.
Era mattina presto. Una mattina umida e scivolosa. Nessun altro, nel corridoio. Soltanto io e la professionalissima infermiera che mi ha accolto, con competenza, direi quasi con amore. Mi ha accompagnato nell'ambulatorio. Mi ha indicato il lettino su cui avrei dovuto distendermi. Pronto per me. Con la sua carta ben distesa, a preservarmi da ogni male.
Ho sorriso, per nascondere l'imbarazzo, e mi sono disteso sul lettino. L'infermiera è uscita. Torno subito. Mi sono trovato solo e, di colpo, spiazzato, annullato, perduto. Mi sono affrettato ad abbracciare, senza riserve, il mio nuovo ruolo di paziente, per evitare di scoprirmi sdoppiato. Per evitare di impazzire.
Su quel lettino, in attesa del ritorno della mia custode, le braccia dietro la nuca, ho cominciato a osservare il soffitto. Poi la stanza. Poi i mobili. Poi le attrezzature. E, per non pensare, ho cominciato a pensare.
Mi sono, così, sorpreso a chiedermi che genere di sensazioni mi comunicassero quella stanza, quei mobili, quelle attrezzature. Perchè non soltanto la stanza e gli arredi, ma l'intero edificio, non erano piovuti dal cielo. Erano frutto di un progetto. E quel progetto rispondeva a una precisa idea di ospedale, di malato e di cura.

Ancora fino a non più di vent'anni fa gli ospedali erano luoghi a misura di medico. Luoghi di raccolta, in un certo senso, nei quali la persona - il paziente - si trasformava in corpo, delicato congegno pronto per essere rimesso in ordine. L'asetticità, spinta in molte corsie fino alla totale mancanza di quadri, o di colore, che ingentilissero le pareti, regnava sovrana. Un'asetticità di superficie, peraltro, dato che le infezioni ospedaliere vi allignavano indisturbate e rimbalzavano allegramente da un reparto all'altro.
Nella loro impostazione queste strutture differivano assai poco dagli hospitales medievali, cioè da quegli ospizi, di norma ubicati all'interno di un monastero, destinati a recare sollievo a poveri e malati (che hanno sempre abbondato nelle terre d'Italia).
Certo, qualche piccola revisione e qualche leggero aggiornamento erano pur stati compiuti. Ma, ad esempio, si continuava a guardare con sospetto la completa sedazione del dolore, con il pretesto che quest'ultimo rappresentava un sintomo prezioso. Il medico dispensava ordini, non consigli; e quando parlava al malato tendeva a dettare sentenze, piuttosto che a fornire informazioni.
L'ospedale era lo strumento adatto a instillare nei pazienti la consapevolezza della propria fragilità e della propria assoluta impotenza, perché ogni malato si rendesse conto di trovarsi totalmente, e letteralmente, nelle mani del medico.
Oggi, però, tutto questo è cambiato.

O forse no.
La stanza, i mobili, le attrezzature e l'infermiera mi comunicano sensazioni diverse da quelle di vent'anni fa. Mi comunicano, soprattutto, efficienza.
Ma si tratta di un'efficienza narcisistica, ancora asettica, ancora a misura di operatore sanitario. Un'efficienza che non mi placa, perché io, il malato, il paziente, o quello che diavolo sono, non riesco a percepire nessuno spazio di ascolto. Continuo a sentirmi un corpo. Studiato, analizzato, esaminato. E non compreso.
Per questo, disteso sul lettino, mi affido al potente dio della tecnologia e dell'efficienza.
Avanti, infermiera. Faccia presto.

sabato 8 marzo 2008

Quando si mangia

Secondo un precetto Zen, assaporando il riso o una mela o un dentice, occorre meditare su tutto il lavoro che è stato fatto dagli elementi della natura e dagli uomini per coltivare, allevare o pescare quello che è diventato il nostro cibo. Addentando una cernia, dovrei quindi pensare al mare che ha nutrito questo pesce, al pescatore che lo ha faticosamente preso nella sua rete, a chi lo ha trasportato con il suo Tir nei mercati generali prossimi alla mia città e così via. Capisco bene l’importanza di queste considerazioni che accompagnano il pasto, perché mi fanno sentire una molecola di un processo naturale regolato dal principio (caro al buddhismo) dell’interdipendenza, e inoltre mi ricordano che una ordinaria amatriciana, i cui ingredienti abbiamo acquistato per pochi euro al supermercato sotto casa, è un evento banalmente essenziale, un bene che mi consente di non deperire, e che non avrò più se madre natura smetterà di fare il suo dovere (magari per cause provocate dall’avidità degli uomini) o se altri uomini (ai quali devo gratitudine) smetteranno di coltivare, allevare, trasportare, ecc. Purtroppo però ogni volta che mi ricordo di fare queste sante riflessioni, mi viene in mente che il pesce potrebbe essere strapieno di mercurio o di altre sostanze tossiche, che a quanto dicono hanno invaso i mari, che sempre più sono simili ad un ricettacolo di rifiuti, in particolare il Mediterraneo che per di più è quasi completamente chiuso. Oppure il pesce potrebbe venir fuori da un allevamento non a norma, dove è stato cresciuto in un ambiente malsano con mangimi che contengono antibiotici, farmaci, sostanze chimiche niente affatto salubri. Per non parlare dei polli, costretti a condurre la loro pur breve esistenza in uno spazio angusto (paragonato a quello che hanno cinque persone chiuse in un ascensore) fra malattie, mangimi nocivi e sofferenza. Già, non è da dimenticare che anche il dolore, l’angoscia provata da questi animali si traduce in mutazioni chimiche, che cambiano la salubrità delle loro carni, che noi cittadini civilizzati ingeriamo quotidianamente.
Ma anche nel fronte vegetariano le cose non cambiano di molto, perché si dice ad esempio che alcune case produttrici, conosciute tramite una pubblicità che presenta i loro prodotti come genuini, ottimi, tradizionali, utilizzino cereali radioattivi provenienti da Ucraina e Bielorussia, da campi poco distanti da Černobyl, dove nell’aprile 1986 esplose una centrale nucleare. Inoltre l’amica pèsca, così dolce e sugosa, potrebbe essere cresciuta in campi inquinati da diossina e scorie di varia natura, vicino a corsi d’acqua contaminati da schiumosi scarichi industriali, o potrebbe essere imbevuta di anticrittogamici fino al nocciolo.
Meglio allora mandare giù gli alimenti senza pensare troppo a quello che si fa, come bestiole che seguono l’istinto di sopravvivenza?... Non dico questo, ma penso che quando nacque il precetto buddhista, si viveva in un mondo verosimilmente meno complesso di quello di oggi, dove il progresso tecnologico ha sconvolto antichi equilibri, e l’informazione svolge talvolta un ruolo terroristico per interessi più o meno occulti, amplificando pericoli remoti ovvero del tutto inesistenti, oppure sottacendo concreti rischi in agguato dietro l’angolo. Forse oggi essere illuminati è più difficile.


(E. M.)