sabato 8 marzo 2008

Quando si mangia

Secondo un precetto Zen, assaporando il riso o una mela o un dentice, occorre meditare su tutto il lavoro che è stato fatto dagli elementi della natura e dagli uomini per coltivare, allevare o pescare quello che è diventato il nostro cibo. Addentando una cernia, dovrei quindi pensare al mare che ha nutrito questo pesce, al pescatore che lo ha faticosamente preso nella sua rete, a chi lo ha trasportato con il suo Tir nei mercati generali prossimi alla mia città e così via. Capisco bene l’importanza di queste considerazioni che accompagnano il pasto, perché mi fanno sentire una molecola di un processo naturale regolato dal principio (caro al buddhismo) dell’interdipendenza, e inoltre mi ricordano che una ordinaria amatriciana, i cui ingredienti abbiamo acquistato per pochi euro al supermercato sotto casa, è un evento banalmente essenziale, un bene che mi consente di non deperire, e che non avrò più se madre natura smetterà di fare il suo dovere (magari per cause provocate dall’avidità degli uomini) o se altri uomini (ai quali devo gratitudine) smetteranno di coltivare, allevare, trasportare, ecc. Purtroppo però ogni volta che mi ricordo di fare queste sante riflessioni, mi viene in mente che il pesce potrebbe essere strapieno di mercurio o di altre sostanze tossiche, che a quanto dicono hanno invaso i mari, che sempre più sono simili ad un ricettacolo di rifiuti, in particolare il Mediterraneo che per di più è quasi completamente chiuso. Oppure il pesce potrebbe venir fuori da un allevamento non a norma, dove è stato cresciuto in un ambiente malsano con mangimi che contengono antibiotici, farmaci, sostanze chimiche niente affatto salubri. Per non parlare dei polli, costretti a condurre la loro pur breve esistenza in uno spazio angusto (paragonato a quello che hanno cinque persone chiuse in un ascensore) fra malattie, mangimi nocivi e sofferenza. Già, non è da dimenticare che anche il dolore, l’angoscia provata da questi animali si traduce in mutazioni chimiche, che cambiano la salubrità delle loro carni, che noi cittadini civilizzati ingeriamo quotidianamente.
Ma anche nel fronte vegetariano le cose non cambiano di molto, perché si dice ad esempio che alcune case produttrici, conosciute tramite una pubblicità che presenta i loro prodotti come genuini, ottimi, tradizionali, utilizzino cereali radioattivi provenienti da Ucraina e Bielorussia, da campi poco distanti da Černobyl, dove nell’aprile 1986 esplose una centrale nucleare. Inoltre l’amica pèsca, così dolce e sugosa, potrebbe essere cresciuta in campi inquinati da diossina e scorie di varia natura, vicino a corsi d’acqua contaminati da schiumosi scarichi industriali, o potrebbe essere imbevuta di anticrittogamici fino al nocciolo.
Meglio allora mandare giù gli alimenti senza pensare troppo a quello che si fa, come bestiole che seguono l’istinto di sopravvivenza?... Non dico questo, ma penso che quando nacque il precetto buddhista, si viveva in un mondo verosimilmente meno complesso di quello di oggi, dove il progresso tecnologico ha sconvolto antichi equilibri, e l’informazione svolge talvolta un ruolo terroristico per interessi più o meno occulti, amplificando pericoli remoti ovvero del tutto inesistenti, oppure sottacendo concreti rischi in agguato dietro l’angolo. Forse oggi essere illuminati è più difficile.


(E. M.)

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