martedì 11 marzo 2008

In ospedale

Sono dovuto andare in ospedale, qualche giorno fa. Un day hospital, per accertamenti. Suona bene in inglese. Ma ero un paziente. Ero, cioè, dall'altra parte della barricata.
Non è facile da accettare, per un medico. Proprio questo, a me. Non ci si comporta così con un depositario dei segreti della vita.
Era mattina presto. Una mattina umida e scivolosa. Nessun altro, nel corridoio. Soltanto io e la professionalissima infermiera che mi ha accolto, con competenza, direi quasi con amore. Mi ha accompagnato nell'ambulatorio. Mi ha indicato il lettino su cui avrei dovuto distendermi. Pronto per me. Con la sua carta ben distesa, a preservarmi da ogni male.
Ho sorriso, per nascondere l'imbarazzo, e mi sono disteso sul lettino. L'infermiera è uscita. Torno subito. Mi sono trovato solo e, di colpo, spiazzato, annullato, perduto. Mi sono affrettato ad abbracciare, senza riserve, il mio nuovo ruolo di paziente, per evitare di scoprirmi sdoppiato. Per evitare di impazzire.
Su quel lettino, in attesa del ritorno della mia custode, le braccia dietro la nuca, ho cominciato a osservare il soffitto. Poi la stanza. Poi i mobili. Poi le attrezzature. E, per non pensare, ho cominciato a pensare.
Mi sono, così, sorpreso a chiedermi che genere di sensazioni mi comunicassero quella stanza, quei mobili, quelle attrezzature. Perchè non soltanto la stanza e gli arredi, ma l'intero edificio, non erano piovuti dal cielo. Erano frutto di un progetto. E quel progetto rispondeva a una precisa idea di ospedale, di malato e di cura.

Ancora fino a non più di vent'anni fa gli ospedali erano luoghi a misura di medico. Luoghi di raccolta, in un certo senso, nei quali la persona - il paziente - si trasformava in corpo, delicato congegno pronto per essere rimesso in ordine. L'asetticità, spinta in molte corsie fino alla totale mancanza di quadri, o di colore, che ingentilissero le pareti, regnava sovrana. Un'asetticità di superficie, peraltro, dato che le infezioni ospedaliere vi allignavano indisturbate e rimbalzavano allegramente da un reparto all'altro.
Nella loro impostazione queste strutture differivano assai poco dagli hospitales medievali, cioè da quegli ospizi, di norma ubicati all'interno di un monastero, destinati a recare sollievo a poveri e malati (che hanno sempre abbondato nelle terre d'Italia).
Certo, qualche piccola revisione e qualche leggero aggiornamento erano pur stati compiuti. Ma, ad esempio, si continuava a guardare con sospetto la completa sedazione del dolore, con il pretesto che quest'ultimo rappresentava un sintomo prezioso. Il medico dispensava ordini, non consigli; e quando parlava al malato tendeva a dettare sentenze, piuttosto che a fornire informazioni.
L'ospedale era lo strumento adatto a instillare nei pazienti la consapevolezza della propria fragilità e della propria assoluta impotenza, perché ogni malato si rendesse conto di trovarsi totalmente, e letteralmente, nelle mani del medico.
Oggi, però, tutto questo è cambiato.

O forse no.
La stanza, i mobili, le attrezzature e l'infermiera mi comunicano sensazioni diverse da quelle di vent'anni fa. Mi comunicano, soprattutto, efficienza.
Ma si tratta di un'efficienza narcisistica, ancora asettica, ancora a misura di operatore sanitario. Un'efficienza che non mi placa, perché io, il malato, il paziente, o quello che diavolo sono, non riesco a percepire nessuno spazio di ascolto. Continuo a sentirmi un corpo. Studiato, analizzato, esaminato. E non compreso.
Per questo, disteso sul lettino, mi affido al potente dio della tecnologia e dell'efficienza.
Avanti, infermiera. Faccia presto.

2 commenti:

nicola ghezzani ha detto...

Riflessione molto bella e, fra l'altro, elegante, Bruno. Nel tempio della Medicina, anche il medico sottostà al rito. Del resto non l'ha creato lui. Lui ne è solo l'esecutore, più o meno consapevole. Appena si distende sul lettino, l'uomo libero perde ogni proprietà sul sé. Poiché ha peccato (s'è ammalato) l'apparato religioso ne prende il controllo. Di quale religione? La Vita. Il mondo contemporaneo impone all'uomo la volontà di vita a misura in cui gli sottrae la volontà di morte, che è sempre stata patrimonio prezioso della civiltà filosofica occidentale classica. Privato della volontà di morte, del potere di decidere della propria morte, il cittadino è privato del diritto di decidere se e quanto soffrire, se e quanto curarsi, se e quanto vivere. Il paziente è lo schiavo contemporaneo. E’ il prototipo della schiavitù.
Nicola

bruno sales ha detto...

E' un tempo, questo, nel quale le religioni non vengono più sottoposte ad alcun vaglio critico.
Gli dei si sono moltiplicati e i loro nuovi nomi sono, oggi, Economia, Politica, Scienza, Medicina, Televisione, Calcio.
Tutte le nuove divinità hanno guadagnato uno spazio permanente. Tutte reclamano la propria dose, sempre più alta, di offerte sacrificali.
Quando cesseremo di sopportare l'odore di carne umana bruciata?