lunedì 5 gennaio 2009

Le colpe dei padri

Una considerazione che viene sempre più spesso ripresa in quest’ultimo periodo, e collegata alla crisi, è quella connessa con il cosiddetto “precariato” o “lavoro precario”, che è un ombrello sotto il quale si copre moltissima gente (nei fatti, ormai la maggioranza) che lavora sul serio, e spesso con poca gratificazione umana ed economica. Si intuisce dalla premessa che sono termini, di origine sindacale, che non amo e sarei felice di veder sparire (specie per il loro orribile senso discriminatorio ai danni del lavoratore, che di essere “precario” non ha certo colpa).
Mi ha stupito anche un intervento addirittura del Papa a questo proposito, volto a ridurre l’incidenza del lavoro precario. E’ vero che è lo spirito della Rerum Novarum a parlare, ma il Papa dovrebbe sapere, come purtroppo tutti noi constatiamo giorno per giorno, che è la vita dell’uomo ad essere precaria: che lo sia anche il lavoro, è solo una conseguenza.
La mia previsione è che il “precariato” resterà e si estenderà: previsione facile, a dire la verità, perché nella storia il lavoro è sempre stato precario, tranne (si narra) che per la generazione dei nostri padri, ed anche in questo caso, è forse solo un’impressione dettata da miopia. In effetti, a ben vedere, il cosiddetto “posto fisso” ha riguardato, anche se lo guardiamo solo su scala nazionale (nell’Italia del cosiddetto “boom economico”), ben poca gente: ha escluso per esempio buona parte delle donne, molti disabili, le cui pensioni di invalidità, ove esistevano, coprivano a volte l’incapacità di procurar loro un lavoro appena gratificante e sostenibile, e sicuramente molti che si presentavano nel nostro paese da “stranieri”, ed anche molta gente che aveva il solo torto di vivere nel posto "sbagliato" (per esempio al Sud o nelle isole). Nel momento in cui abbiamo cercato di “allargare“ un po’ di più il mercato del lavoro, il nostro sistema è penosamente collassato (a dimostrazione che tanto solido non era, forse anche – ma non sono un economista – per lo scarso gettito fiscale dei più abbienti). Comunque, ci possiamo consolare; se usciamo dall’Italia e poi dall’Europa, la situazione peggiora: il “posto fisso” è stato ed è una chimera per forse i nove decimi dell’umanità.
Quindi, c’è da disperare? Sì e no, allo stesso tempo, secondo me. Sì, perché stiamo (scientemente in molti casi) volgendo il nostro cavallo di Troia verso un falso obiettivo: la forse impossibile, a breve termine ed in questo sistema, eliminazione del precariato a livello mondiale (sperando, forse ipocritamente, che i “precari stabilizzati” guadagnino abbastanza da essere dei “buoni consumatori”: il resto sembra interessi poco). No, se riusciremo, o almeno ce lo proporremo come obiettivo, a scindere il “precariato” o la disoccupazione (che non morirà certamente domani) dalle loro indesiderabili conseguenze, prima di tutto (anche se la parola suona blasfema in un paese in fondo benestante come l’Italia) la miseria e (parola ancora meno politicamente corretta) la fame.
E’ secondo me un enorme controsenso combattere la disoccupazione ed il precariato, nel momento in cui si riducono le garanzie sociali e si pensa di smantellare il sistema sanitario, assistenziale ed educativo, prima fonte di “sprechi” secondo la martellante propaganda dei mass-media. Invece, il parlare continuamente di fine del precariato (sapendo bene che, a livello mondiale, è un obiettivo irraggiungibile) sembra voler far dimenticare che la fame e la miseria colpiscono ancora la più grande parte della popolazione mondiale, e lo fanno non perché il lavoro è precario, ma perché a fronte di questo, non c’è un sistema assistenziale capillare e che non guardi a censo, origine, nazionalità, ecc., ma assista nel modo migliore (a livello, se possibile, dello “stato dell’arte”), senza fare domande personali e senza emettere giudizi. Questa secondo me è la principale funzione di uno stato che si dica moderno, il resto è solo accessorio e forse non essenziale.

2 commenti:

bruno sales ha detto...

Carlo ci ricorda con forza che una politica di riduzione delle garanzie sociali può determinare conseguenze disastrose.
Il peccato mortale - in senso laico - di questo tempo sembra essere proprio la rassegnazione allo status quo, che comporta una muta accettazione della disuguaglianza, dei privilegi di pochi, della povertà di molti, delle discriminazioni e, anche, della precarietà sul piano economico.
Non era così appena qualche anno fa, quando avevamo ancora il coraggio, folle ma vitale, di sperare in un mondo più giusto e più sicuro per tutti.
La cosa peggiore è che già ci siamo (ci hanno?) abituati a pensare alla precarietà come a uno stato 'naturale' e, dunque, immodificabile.
Non sono così sicuro che sia così.
Non sono così sicuro che qualcuno non tragga un vantaggio dalla precarietà che, forse non a caso, resta un termine privo di significato per chi appartiene agli strati sociali più elevati.

carlo santulli ha detto...

E' ovvio, anche secondo me, Bruno, che qualcuno trae profitto dalla precarietà, intesa in senso lato (non solo quella del lavoro, cui si vuole ad arte ridurla, ma quella dell'assistenza, e della stessa sussistenza) se non altro perché più si è precari (o vogliamo dire poveri?) più si è ricattabili.
Il problema è che sono forse gli stessi che parlano di eliminarlo, ma in realtà soltanto per coloro che sono già su un livello sufficientemente dignitoso, da poter tornare, con modesti incentivi dei "consumatori". Di coloro che sono al di sotto di tale soglia (persone di cui anche il nostro paese è pieno) non si occupa nessuno. Ed il vero "spreco", secondo la concezione economicistica che sembra oggi in vigore, è assistere persone troppo lontane dalla soglia di "sufficiente consumo" per così dire. Questo mi spaventa, devo dire.