sabato 27 dicembre 2008

Compagni di lavoro, compagni di vita




Lo so che la foto dei miei gatti è già apparsa sul blog e sono anche consapevole di nutrire un interesse forse eccessivo nei confronti del mondo degli animali-non-uomini e del nostro rapporto con loro. Ma le foto che sto commentando raccontano un momento di tenerezza particolare che mi fa piacere condividere.
Stamani c’è finalmente il tepore consolante di un sole quasi primaverile e devo tenere l’avvolgibile abbassato, mentre scrivo al computer, per non esserne abbagliata. Ho aperto la porta finestra perché i gatti potessero uscire in terrazzo, ma questa volta, dopo un breve giretto, sono tornati sul mio tavolo a condividere (come accade quasi sempre quando siamo soli in casa) il mio lavoro. Lei è posata sugli appunti e devo continuamente sollevare o spostare la coda. Lui è al di là del coperchio del computer, ma ogni tanto si affaccia a guardare. Sono molto diversi anche in questo starmi vicino; per esempio, lei rispetta la tastiera e non ci passa mai sopra; lui, invece, quando si sposta ci cammina rozzamente ignorando i rimproveri e si mostra sdegnato se dal computer emerge un qualche piccolo suono. Come si può credere davvero che i gatti si affezionino alla casa, ma non agli abitanti della stessa? Ho molti esempi (anche personali) di gatti traslocati insieme ai relativi bipedi e posso testimoniare che non hanno subito traumi significativi. Noi neghiamo spesso che gli animali possano provare affetti (al massimo attribuiamo loro la capacità di vivere emozioni primitive e fugaci) e forse ci serve per non sentirci in colpa in relazione al male che facciamo loro (come gruppo e al di là del comportamento di ogni singola persona).
Vengono in mente i famosi esperimenti di Harlow (affettivamente crudeli, fra l’altro, ed esecrabili dal punto di vista etico) con i macachi Rhesus. Com’è noto aveva tolto alcuni cuccioli alle madri e li aveva chiusi in gabbie singole con due macache-pupazzo: una metallica e con la testa di legno, ma fornita di biberon (attaccato all’altezza di un capezzolo) dal quale suggere il latte, e una morbida, calda e pelosa, ma priva di biberon. I cuccioli si avvicinavano sveltamente alla madre-biberon per mangiare, ma se ne allontanavano appena finito per correre dalla madre morbida e calda e trascorrere moltissime ore (oltre 15) abbracciati a lei.



Harlow interpretò l’esperienza come dimostrazione del primato del bisogno di sicurezza rispetto all’istintualità della fame. A me piace pensare, però, che si tratti invece di bisogno di affetti. Del resto, che valore avrebbe, anche per un cucciolo d’uomo, il cibo, senza l’abbraccio avvolgente di chi lo offre e l’odore del suo corpo caldo?

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