lunedì 1 dicembre 2008

Spaesamento


Porto ancora negli occhi gli squarci drammatici di cielo e nuvole dietro le statue alte e lontane di San Giovanni mentre sono avvolta dagli odori dell’ospedale e dalle voci querule o dolenti; le voci di quanti si aggirano per i corridoi in cerca di una spiegazione o di una parola di speranza inseguendo, mani e sguardi tesi, il camice svolazzante di qualche medico dal passo frettoloso. L’anticamera con i monitor impietosi, la seconda anticamera, il camice verde, la mascherina, la cuffia, i copriscarpe, la purificazione igienica delle mani e poi il letto, i tubi, le cannule, le garze, la forma del corpo sotto le lenzuola, il volto tumefatto e il mio sguardo che si posa sul piccolo schermo dove scorrono linee sinuose o spezzate che non so decifrare; il mio sguardo perso che interroga le cose e che infine si autocensura, mentre mi concentro sul respiro che sembra solo di sonno e penso le parole che vorrei ancora sentire, facendo risuonare dentro la sua voce afona degli ultimi tempi, le battute, le piccole risate condivise o le confidenze. Ci sono altre otto persone che dormono questo sonno strano e accanto a ognuna qualcuno, vestito di verde, che attende e spia un guizzo, una piccola vibrazione, un segno del risveglio che non sai se ci sarà. Sembra un’enorme incubatrice rotonda e calda. Pensi che lei tiene gli occhi chiusi e non vede, ma che potrebbe percepire, come all’alba della vita, segnali più arcaici di presenza dell’altro; gli odori, per esempio, e riconoscere quelli delle persone care. Pensi che potrebbe sentire anche il sospiro o il sussurro o avvertire il lieve timido sfiorare della mano sull’omero. E sospiri, e sussurri qualcosa, e le sfiori lievemente l’omero con la punta delle dita. Pensi che se ne sa ancora troppo poco. Pensi alla superbia di certe prognosi senza neanche un piccolo “forse”. Pensi al tuo coma di tanti anni prima e al buio che lo circonda. Pensi che la medicina è ancora troppo (per lo più) intrisa di un’idea di cura (del tutto congrua con i tempi non puoi non dirti) intesa solo come assistenza tecnica e non come sollecitudine per la persona. Non interessa l’esperienza di vita che la malattia rappresenta e tanto meno, poi, ciò che riguarda l’attraversamento della possibilità della non guarigione: tutto questo, la scienza, lo relega in un altrove; insieme allo spaesamento e alla paura e a tutto ciò che riguarda emozioni e affetti di fronte alla malattia o alla morte.

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