sabato 6 dicembre 2008

Un paese meno straziato


Il titolo e i contenuti dell’ultimo post di Antonella “Spaesamento”, hanno evocato sensazioni, frammenti di quell’atavica angoscia che ci coglie in odore di malattia e morte, specie quando questi eventi vengono spogliati della loro naturalezza e (al contrario di quanto accade o, meglio, accadeva, nelle società più arcaiche) assimilati a vergogna, internamento, perdita della dignità... Purtroppo in una logica “positivistica”, apparentemente punitiva, si priva il malato della sua umanità, abbassandolo al livello di una macchina, che per essere aggiustata ha solo bisogno di un bravo meccanico che sappia individuare il pezzo che non funziona, e che lo ripari o lo sostituisca.
Non mi dilungo su questi aspetti che in parte sono già stati affrontati in precedenti post, per passare alle altre considerazioni accese dallo “Spaesamento”.

Due poeti.

Ungaretti conclude una nota poesia (San Martino del Carso) scritta durante la Grande Guerra, con i versi “É il mio cuore / il paese più straziato”.
Dunque anche il cuore è un paese, un luogo che può essere ben coltivato, saggiamente governato oppure abbandonato o distrutto. Ed effettivamente lo spaesamento provocato in genere da cause esterne, si manifesta ed agisce nella nostra interiorità. Allora, una volta vissuta l’esperienza di angoscia e dolore che accompagna malattia e morte, resi dunque più sensibili a questo tipo di sofferenza, perché non contribuire ad eliminare le cause negative che dal di fuori aggrediscono la pace delle nostre anime, straziando il nostro cuore-paese? …
E’ quanto ci propone il Leopardi del pessimismo eroico, immortalato nella “Ginestra”. Perché gli uomini non smettono di attaccarsi senza motivo, negli aspetti grandi, importanti della vita, su vasta scala come nella guerra, ma anche nelle piccole cose della quotidianità? Riuscendo a compiere questo passo fondamentale, cesserebbero conflitti di ogni genere, e tutte le energie potrebbero essere destinate a combattere quell'eterna battaglia che non conosce pause, contro le calamità naturali e le malattie. Forse, in una dimensione dove tutti aiutano tutti (senza forzature o accanimenti) la malattia, sarebbe vissuta con più serenità, come un’esperienza rischiosa, come un viaggio spartano in un paese remoto, dal quale non si ha la garanzia di poter ritornare, ma sostenuti dalla solidarietà del prossimo, senza perdere la dignità, senza vergogna, sensi di colpa, paure di negligenze o malasanità.

6 commenti:

maria antonella galanti ha detto...

E’ molto bello questo post e mi sento del tutto in sintonia. Il venire meno delle reti di solidarietà rende irrealistica, fra l’altro, anche la percezione relativa alla sicurezza personale. Infatti, nonostante siano i dati ufficiali a dirci che negli ultimi anni, in Italia, i crimini (dallo scippo, alla rapina all’omicidio) sono generalmente diminuiti, siamo propensi a credere a chi sostiene la tesi opposta e non gli chiediamo alcuna prova. Credo che ciò dipenda dal fatto che avvertiamo comunque un senso di aumentato pericolo: legato non, come pensiamo a livello superficiale, all’incremento delle azioni delinquenziali, quanto, probabilmente, all’idea che in caso di necessità nessuno sarebbe disposto a rischiare qualcosa per aiutarci.

carlo santulli ha detto...

La mia esperienza, in termini di attaccgi di panico, cui purtroppo vado soggetto, è assolutamente consonante con quanto dicevi, Antonella: è l'idea di non venir soccorso in caso di pericolo tra la folla, che rende possibile l'attacco.
Paradossalmente l'assenza delle persone è percepita da me come meno "paurosa" che la presenza di molte persone probabilmente indifferenti.
Ciò in cui la mia esperienza personale è diversa è che prima ci fosse più solidarietà (naturalmente, si tratta di accordarsi su "quanto" prima, non essendo noi ovviamente eterni).
Il mio ricordo di Roma nella mia infanzia e adolescenza (anni'70) è quello di una città terribile, proprio per l'assenza di solidarietà.
Oggi, non so se le cose siano mutate, certo io mi sono fatto più "furbo" in termini psicologici.
E, curiosamente, la presenza di molti stranieri, che percepisco spesso "spaesati" quanto me, ha un effetto calmante.
Ma non sono uno studioso di questi problemi, solo un uomo comune con una sensibilità forse morbosa, per questo mi fermo qui nelle mie teorizzazioni.

maria antonella galanti ha detto...

Hai ragione, Carlo; e tra l’altro “un tempo” riferito alla vita di una metropoli (come la Roma della tua infanzia) non è lo stesso “un tempo” che si può riferire a quella un piccolo paese di collina (come quello della mia infanzia).
Probabilmente volevo dire non tanto che “un tempo” fossero egemoni costumi o comportamenti diversi (l’egoismo esisteva anche prima di ora e quasi sempre ha definito il modo di porsi dei più), ma che dal punto di vista etico, per comune sentire, tale atteggiamento era considerato riprovevole. In passato, talvolta, si era egoisti, in un certo senso, malgrado i propri ideali o valori. Oggi, invece, il modello proposto è quello del “si salvi chi può”, dell’”io speriamo che me la cavo”, de “il fine giustifica i mezzi”; insomma, dell’abilità nell’ingannare l’altro per sopravanzarlo e nel sapersi tenere al di fuori di ogni problematica che non ci riguardi direttamente pur di non rinunciare a nessuno dei propri piccoli o grandi privilegi. Non solo si è più egoisti, ma si giustifica (anzi, si teorizza) l’egoismo come pratica di vita.

carlo santulli ha detto...

Beh, il mio sospetto a questo punto (ma ci vorrebbe un sociologo per capire se è vero) è che il modo di vivere delle metropoli abbia contagiato col tempo la generalità della popolazione.
Io credo tuttavia che queste problematiche di scarsa solidarietà siano nate col "boom" economico degli anni '60 (credo anche che c'entri l'uso prevalente dell'auto, che non permette l'incontro). Confesso anche che mi imbarazza quando qualche politico si riferisce ad un possibile ritorno a quei tempi come catartico. Volevo scrivere un post dedicato a questo aspetto, ma non ho tempo (per ora) per motivarlo in modo accettabile.

enrico meloni ha detto...

Scrivendo il post avevo in mente un mondo che non ho conosciuto direttamente, ma tramite testimonianze, valori (forse idealizzati?) di qualcuno più vecchio di me, e soprattutto attraverso film, testi letterari e di antropologia culturale. Quanto ai film mi viene in mente "Novecento" di Bernardo Bertolucci, dove in una scena ambientata nella prima metà del secolo (credo negli anni '20), si vede un vecchio contadino che muore sotto un albero, dopo aver parlato con il nipote, senza neanche accorgersene. Riguardo all'antropologia, ricordo Alfonso Di Nola, scomparso nel '97, che ha affrontato il tema della morte in modo approfondito ("La nera signora"). In un'intervista disse che avrebbe preferito finire i suoi giorni come i membri di una certa etnia (non ricordo più quale fosse), al di fuori quindi delle usanze, del contesto della nostra società contemporanea.
Insomma, non mi riferivo ai "magnifici" anni '60 (per dirla alla Minà) e neppure alla città di Roma, che ad es. attraverso i sonetti del Belli, non appare un paradiso neanche nell'800.

carlo santulli ha detto...

Forse è il legame con la terra che rende, pur se a volte nella sua sostanza di povertà e privazioni,
realistica quest'idea di solidarietà (se non è del tutto idealizzazione).
E' curioso come nelle città italiane dal dopoguerra in poi si sia cercato di cancellare del tutto l'idea di legame con la terra, per cui è città solo ciò che in essa è costruito.
Mi vengono in mente quelli (architetti, urbanisti) che protestavano contro le "fioriere" nelle piazze di Roma, come piazza di Spagna, negli anni '80.
Lo vedevo (e lo vedo) come un curioso senso di rimozione per la natura.
Natura che comunque è più furba di noi, tanto è vero che crescono fili d'erba, nidi e a volte fiori e arbusti anche tra le fessure dell'asfalto, ed anche tra i tetti della metropoli, come dal titolo del post di Enrico.