venerdì 23 luglio 2010

Parabole e astrazioni

L’intervento di Carlo mi ha riportato all’infanzia quando, come molti di noi, ero dentro alla dimensione cattolica per via dell’insegnamento scolastico e del catechismo. Penso che l’efficacia e il “successo” millenario della parola di Cristo, e in particolare delle parabole, sia dovuto anche alla loro concreta semplicità. Ci pongono di fronte a esempi di condotta morale che possiamo toccare con mano. Il samaritano che aiuta il malcapitato ce lo abbiamo sotto i nostri occhi mentre silenziosamente, con molta discrezione ci mostra qual è la via.
Comunicare l’etica attraverso astrazioni è comunque necessario in certe situazioni: se pensiamo ad esempio alla Costituzione, sarebbe impossibile fare in pochi commi dodicimila o più esempi di possibili situazioni in cui il legislatore è tenuto a garantire ai cittadini la solidarietà delle istituzioni. Però a parlare solo per astrazioni si rischia di cadere nell’errore di scribi e farisei che - secondo il Nazareno - ostentano insegnamenti di alto valore religioso e morale, che poi puntualmente disattendono. Viene in mente a questo proposito le parole di una nota canzone di Giorgio Gaber: “Un’idea, un concetto, un’idea, finché resta un’idea è soltanto un’astrazione, se potessi mangiare un’idea avrei fatto la mia rivoluzione.”
Fondandosi solo sulle astrazioni si rischia di diventare dei Don Chisciotte che si illudono di stare dalla parte del giusto condannando le iniquità e le storture del mondo, ma che poi non vedono o fingono di non vedere quello che accade accanto al loro, cioè al prossimo, quello vero, che non vive a diecimila chilometri da noi, ma quello che ci sta accanto, quello in cui si imbatte il buon samaritano.
Capita a volte di sorprenderci nel constatare che persone con ideali più o meno simili ai nostri, che si lamentano dell’assenza di solidarietà del nostro tempo, voltare le spalle di fronte ad una piccolissima richiesta di aiuto che viene loro rivolta dal “prossimo”. In situazioni simili, di fronte ad una risposta negativa, ci si può chiedere quale sia la fonte dell’errore: perché l’individuo X non fa neppure uno sforzo insignificante per aiutare o addirittura sembra provarci gusto a causare un danno senza magari trarne alcun beneficio? Agisce in questo modo per qualche imponderabile ragione, per malignità, perfidia o perché è disturbato psichicamente?
A questo punto si pone un interrogativo spinoso: esiste un confine fra un comportamento che deliberatamente va contro l’etica della solidarietà e il disagio mentale che porta (a volte involontariamente) ad arrecare danno al prossimo?



1 commento:

csantulli ha detto...

L'ideale è una cosa, purtroppo, Enrico, la realtà un'altra...
La parabola non vuole nascondere questo fatto, ma non dando un volto ma soltanto una condizione (il ferimento, la malattia) al prossimo, intende che dobbiamo assistere chiunque.
Il problema è che, nella debolezza del nostro agire, è facile aiutare un prossimo ipotetico, mentre non lo è sempre aiutare un prossimo concreto, che ha delle caratteristiche ben precise (straniero, povero, anziano, disabile, a disagio nel mondo che abbiamo creato).
E' interessante, ma tremendo, che la civiltà moderna con alcuni dei suoi portati più evidenti (mezzi di trasporto, costruzioni molto alte, tecnologia) sia concepita per una persona perfettamente in salute, ed anche con caratteristiche culturali ben connotate.
Non si costruisce per il disabile, si adatta il costruito al disabile: la differenza non è sottile, adattare è un processo forzato, quasi controvoglia. Costruisco uno scivolo perché la rampa di scale è invalicabile, ma non mi interrogo mai (dall'alto della mia "protervia" di uomo sano e che vive nel primo mondo) se quella rampa di scale debba essere fatta in quel modo ovvero se ci siano alternative.