Il termine yiddish mentsh (dal tedesco mensch, cioè ‘uomo’) ha il significato di ‘uomo giusto’ o ‘uomo retto’. Il protagonista dell’ultimo film dei fratelli Coen è un mentsh, in inglese ‘a serious man’ (dunque ‘un uomo retto’, non ‘un uomo serio’, come la traduzione letterale sembrerebbe suggerire): la parabola di questo moderno mentsh è quella di un uomo che vive sulla propria pelle le contraddizioni di chi, appartenendo a una tradizione antichissima e pronta a reclamare senza appello il rispetto dei valori tramandati, deve di continuo confrontarsi con l’attualità di un mondo imperfetto, ormai lontano dal contesto storico che ha dato origine a quegli stessi valori. La breve storia di ambientazione yiddish, che apre il film, con il suo effetto di estraneità contribuisce a dare la misura della dissonanza spazio-temporale che separa il passato dal contemporaneo.
Le sequenze scorrono su di un registro formalmente comico e quasi leggero, quasi a velare, ma non troppo, una tragicità di fondo che travalica i confini dell’ambiente ebraico e borghese, per abbracciare la condizione dell’umanità intera. La ricerca infruttuosa di norme di condotta che preservino dalla catastrofe il protagonista e la propria famiglia, la presunta saggezza degli esperti (i rabbini, in questo caso) come maschera della loro profonda ignoranza della verità, la casualità che governa gli eventi frantumando ogni analisi delle cause e degli effetti, sono alcuni degli elementi che conferiscono all’opera un senso di dramma sospeso e di minaccia imminente. Un’analoga sospensione, tutta giocata sull’incomprensibilità del significato di una catena di eventi già segnata, si ritrovava già nel film “Non è un paese per vecchi”, altra recente fatica dei Coen: “A serious man” sembra quasi un’ulteriore approfondimento della tematica dell’inutilità di una ricerca di senso degli accadimenti. L’uomo non può comprendere né le intenzioni di Dio, se un Dio esiste, né le forze della natura, né le pulsioni che guidano le sue stesse azioni.
Il panorama che sembra emergere da questa visione spietata, tuttavia, non rimanda lo spettatore a un’impressione finale di vuota desolazione, quanto piuttosto a un effetto di sorpresa e di dubbio: l’utilizzo misurato e sapiente dell’ironia, anche questa elemento fondamentale della tradizione yiddish, è l'arma ultima di difesa - sembrano suggerire i Coen - e l'unica che offra una traccia di senso al paradosso dell’esistenza, fino a rendere sopportabile all’uomo l’attesa di un destino che gli è del tutto sconosciuto.