sabato 30 maggio 2009

Viaggiare in treno tra i propri simili (si fa per dire).



Mi è sempre piaciuto viaggiare in treno, soprattutto da sola; leggo, oppure socchiudo gli occhi; o, ancora, osservo gli altri viaggiatori scoprendo analogie con certi prototipi di umanità che costellavano i luoghi della mia infanzia. Amerei, poi, alternare di tanto in tanto la lettura, l’appisolarsi e l’osservazione socio-relazionale anche con il guardare fuori dal finestrino, come facevo una volta (non molto tempo fa) quando ancora i vetri delle carrozze venivano lavati; prima che per risparmiare sul personale addetto alle pulizie si eliminassero, nei treni non a lunga percorrenza, i quattro quinti (più o meno) dei bagni.
Viaggio su un treno definito “ad alta velocità” e quasi cullata dal ticchettio discreto di un signore che scrive su un piccolo portatile, mi immergo nella lettura. L’incanto, però, dura pochissimo perché dopo una manciata di minuti sobbalzo per l’annuncio di benvenuto enfatizzato dal volume e dalla prosodia prescelta; al quale segue la comunicazione, sempre enfatica, di certe caratteristiche del treno, che sollecita uno sguardo d’intesa con un paio di altri viaggiatori. Poi viene comunicato anche che in prima classe sarà offerto uno spuntino insieme a un quotidiano, mentre quelli della seconda possono recarsi alla carrozza-bar; si glissa sul giornale.
Faccio qualche battuta a voce alta per saggiare il terreno e gli altri sorridono. Quindi il treno si ferma senza un annuncio, né un sospiro o un rantolo. Quasi trenta minuti di sosta e nessuna spiegazione né segno di presenza di personale al quale poter chiedere; quando finalmente si riparte ci vengono presentate via altoparlante, ma questa volta senza enfasi, le scuse per il disagio. Mi accorgo che mentre nei precedenti annunci eravamo definiti “clienti”, in quelli di scuse per il disagio siamo degradati a semplici “viaggiatori”. Come dire che è il viaggiare che si espone per definizione a certi rischi, ai quali non va incontro chi decide, saggiamente, di restarsene a casa; dunque la colpa del disagio, alla fin fine, non è di TRENITALIA, ma del viaggiatore. Provo a stimolare i miei simili sulle conseguenze della privatizzazione con un’altra battuta, tesa a sottolineare come la situazione sia grottesca; nella speranza che qualcuno, magari, pensi alle conseguenze di una simile logica non solo rispetto ai treni, ma anche a quanto concerne l'ambito della salute o della formazione. Così, scandisco a voce alta, ma sorridendo: “Non ho potuto acquistare il biglietto e mi scuso con trenitalia per il disagio”. Aspetto che qualcuno annuisca e magari sorrida di nuovo, ma mi guardano imbarazzati e uno di loro, solerte, mi consiglia di cercare subito il controllore.

Stazione di Bologna, attesa dell’altro treno, stessa solfa: il ritardo è imprecisato come le sue cause, ma aumenta di 10 minuti alla volta fino a raggiungere la spaventosa entìtà di quasi due ore. Comincio a scambiare sms con altre persone che sono già su quel treno e con le quali dovrei proseguire il viaggio: le spiegazioni e i tempi del ritardo non coincidono minimamente. Finalmente salgo, con un certo sollievo: ma è rotto il condizionamento e il caldo è ancora più impietoso dato che i finestrini non si possono aprire; mentre i bagni sono guasti, cioè privi di acqua, dunque ingolfati e maleodoranti. Il treno, inoltre, non parte e si resta immobili, ignari, e in attesa per diverso tempo.
Nessun annuncio, ora, impedisce di leggere, di appisolarsi o di guardarsi intorno. Io non lo faccio, però, ma mi concentro nella conversazione con le persone che ho raggiunto e resto nel loro scompartimento invece di guadagnare il posto prenotato: non voglio stare da sola a vedere dipinta, nei volti dei miei simili, la consueta rassegnazione che ha permesso che tutto questo - e molto altro - fosse possibile.

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