sabato 22 agosto 2009

L'uomo-forno e la donna-spugna

Dopo aver visitato una città, passati alcuni giorni, di solito si cerca di riannodare la trama dei ricordi, di razionalizzare – diciamo così – le emozioni positive e negative, di costruire un discorso compiuto sulla sua identità intrecciando quel poco che si è potuto vedere del presente con il passato, già in qualche modo conosciuto attraverso letture, immagini, film o musiche.

Dopo Berlino, riguardate le tante foto, l’immagine che più ho fissa nella mente (e che non ho avuto cuore di fotografare) è quella di certe figure – non so dire se marginali o meno – di uomo con una sorta di protesi all’addome: un forno, funzionante, fatto a mezza cupola e aperto verso il torace e il volto, con dentro salsicce da vendere insieme ai panini. Di uomini-forno simili ne trovi ovunque, ma soprattutto negli angoli turistici più frequentati e nessuno sembra badarci più di tanto. Spostano il carico del corpo da un piede all’altro e in questo modo, pur restando fermi, non occupano formalmente il suolo pubblico con il proprio commercio.

E’ una giornata molto calda ed è l’ora del sole alto quando vedo il primo di una nutrita serie. Mi si chiude lo stomaco. Osservo a una certa distanza il volto; che sembra esprimere soddisfazione e non disgusto per quell’odore di carne arrosto del quale immagino impregnato il corpo, i capelli e le vesti, per il caldo che si aggiunge al caldo, per il peso sopportato. Sono ombre invisibili ai più.

Nei bagni di un museo, invece, mi sembra di trovare l’equivalente femminile dell’uomo-forno: donne–spugna, cioè ragazze o signore che, in piedi all’ingresso dei servizi, non appena una donna esce entrano a pulire la tavoletta del water e quanto è stato eventualmente sporcato. Entrano e agiscono comunque a dire la verità, anche quando il bagno è stato lasciato pulito, in una sorta di automatismo scattoso che genera ansia solo a guardare. Tengono in una mano (generalmente non guantomunita) una salvietta spugnosa che non depongono mai, quasi una protesi del braccio, e impartiscono ordini – di non entrare ora, di entrare ora – accompagnati dal pointing dell’indice, dato che le utenti sono di diverse lingue. Anche in questa circostanza sembra di avere di fronte esseri invisibili. Nessuno ci fa caso, nessuno si pone problemi.

Un po’ come gli esseri umani le città hanno una propria identità fatta anche di ombre e nascondimenti.

Berlino nascondimenti ne ha tanti e dopo un po’ si ha la voglia – e lo si fa – di fuggire dai luoghi delle architetture imponenti (sembra non esserci quasi niente che non abbia un piedistallo, un rialzo, un enorme parallelepipedaceo di supporto) e di cercare tracce nascoste del passato non ancora elaborato.

Trovi allora le vestigia dell’immaginario della città prenazista - Metropolis nella barocca raffigurazione di Fritz Lang - e quelle, invece, maniacali e paranoiche della città nazista e molto altro, che le guide non indicano. Scopri così una città incongruente e bizzarra, piena di bellezza inquietante e di aggressività aguzze e cattive, accogliente ed estranea, morbida e rigida a un tempo. Un enorme cantiere che non riesce a smettere di ricostruire, ricostruire, ricostruire (dopo il nazismo, dopo i bombardamenti, dopo il muro, dopo il crollo del muro...) attraverso le pietre, il ferro, il cristallo (materiali tangibili, duri, pesanti) lasciando però inelaborati i pensieri, le paure, i ricordi (materiali leggeri, impalpabili, sfuggenti). Si respira il peso della storia e del suo rimosso e associando i particolari dell’altrove con quelli del noto, del proprio contesto politico e sociale, si ha l’impressione che la Storia, proprio, magistra vitae non lo sia mai stata.


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