sabato 20 febbraio 2010

Omofobia: un'emergenza sociale


Sono eterosessuale, eppure sento profondamente che questa questione, drammatica come emergenza e metaforica rispetto a quanto accade nelle dinamiche sociali in questi tempi oscuri, mi tocca in prima persona. Si tratta, è vero, di discriminazioni e violenze che non mi riguardano direttamente, ma che tuttavia rendono il mondo più brutto per tutti e dunque anche per me: lo trasformano in un luogo nel quale occorre essere omologati a modelli comportamentali imposti, presentati quasi sempre come dettati dalla natura anziché come costruzioni culturali. Questo vale per l’omosessualità, ma anche, allo stesso modo, per le differenze di genere: la natura ci dice soltanto che siamo biologicamnete diversi come uomini e come donne, ma non come dobbiamo incarnare i rispettivi ruoli o incanalare il desiderio, che dovrebbe avere una propria autonomia rispetto alla possibilità della procreazione. In un mondo così rischiamo di essere trasformati tutti in gregge: cloni, esseri seriali e conformisti; e codardi, anche, perché definiti dal timore di una differenza che riusciamo a leggere solo come una disconferma del nostro valore.

Anche in virtù della specificità della mia professione (sono una studiosa di processi formativi, dunque di ciò che riguarda gli esseri umani e il loro farsi soggetti autonomi delle proprie scelte e della propria storia in qualsiasi momento del ciclo di vita) ritengo, però, che il modo migliore di combattere il pregiudizio, gli atti di discriminazione e quelli di violenza anche fisica nei confronti delle persone omosessuali, consista in percorsi di educazione preventiva. Non si tratta solo di fornire conoscenze, di sfatare pregiudizi o, peggio, di invitare a un atteggiamento moralistico e tollerante: anzi, si tratta di criticare il concetto stesso di tolleranza in favore di quello di accettazione delle diversità; di qualsiasi diversità.

Tutte le emergenze sociali sono oggi legate alla tematica dell’identità e della differenza e alla paura dell’altro (diverso) che colora di sé le problematiche del conflitto di qualsiasi natura esso sia: di genere, intergenerazionale, di convivenza multiculturale, tra normali e sani e, in una luce particolare, rispetto alle differenze di orientamento sessuale. Si teme l’altro, diverso, che ci sta di fronte, perché potrebbe lasciar affiorare ogni diversità che è in noi scoprendo i nostri lati più reconditi e oscuri, le nostre inquietudini, o quelle che viviamo come le nostre debolezze.

E’ un luogo comune pensare che la tolleranza rappresenti un modo per risolvere i conflitti e per convivere in maniera rispettosa gli uni nei confronti degli altri. La tolleranza, invece, si lega alla sopportazione, non all’apprezzamento dell’altro nella sua diversità. Nel tollerare si sottolinea la propria differenza. Tolleranza e intolleranza, quindi, hanno la stessa radice: si tollera un elemento definito come diverso e negativo; ma lo si fa fino a un determinato limite, oltre il quale si comincia a odiare e si procede all’eliminazione fisica o simbolica. Lo si capisce bene spingendosi a ritroso fino a Tommaso D’Aquino, per il quale i sentimenti di tolleranza potevano riguardare coloro che professavano altre religioni, come i pagani, o i musulmani o anche gli ebrei, non per colpa, ma per una condizione non scelta, e non coloro che, collocati all’interno della religione cattolica, producevano critiche o idee considerabili eretiche o, ancora, se ne discostavano pur avendo fatto una promessa di fede. Per questi c’era, invece, l’inquisizione e quasi sempre il rogo. Cercare le differenze, così come è implicito nel concetto di tolleranza, significa avere paura di riconoscere le affinità: tra chi è malato o folle e me che sono sano; tra chi è delinquente e me che sono onesto; tra chi è invidioso o cinico e me che sono generoso ed eticamente irreprensibile. Cercare nella differenza la colpa o il motivo di una minaccia (non importa che si reagisca con l’eliminazione o con la tolleranza del colpevole) significa sollevare se stessi da responsabilità di qualsiasi natura. Per proteggersi rispetto alla propria scarsa autostima; o per proiettare sull’altro, come avviene in ogni idea di natura razzista, le parti di sé considerate disdicevoli e relegate nelle zone d’ombra della propria interiorità. E’ più semplice e meno oneroso cercare l’altro fuori di sé, sottolineando le differenze, anziché comprenderlo in se stessi, sottolineando le somiglianze.

Accettare l'altro significa ricercare e sottolineare le affinità, non le differenze. Farsi iliberi dal timore dell’altro e della sua differenza significa, quindi, per tutti, poter vivere maggiori possibilità di felicità.

Nelle immagini: Ganimede.



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