lunedì 12 maggio 2008

Il branco

Sono stati gli altri; loro; mi sono trovato in mezzo, trascinato dalla loro decisione; sono stati loro, non io; io non l’avrei mai fatto; non mi rendevo conto; non volevo, io.
Essere branco, sentirsi branco, agire, nel branco, senza avvertire alcuna responsabilità per i propri atti. E’ un antidoto perdente alla solitudine identificata con il fallimento relazionale; ed è anche una riproduzione del paradigma di gruppalità simbiotica al quale si ispira un certo modo di sentirsi parte di una famiglia.

Ripongo il Cd che ho in mano, già aperto. Ho cambiato idea: mi piace anche il silenzio della casa e lascio che mi avvolga e mi parli delle persone come solo in loro assenza è possibile. I due gatti stamani dormono distanti l’uno dall’altro, in stanze separate. La gatta è sul divano vicino alla mia postazione di lavoro consueta; la guardo, mentre cerco di raccogliere le idee, e vedo le sue piccole zampe muoversi come se stesse sognando di correre, di afferrare una preda ambita o di fuggire da qualche straordinario pericolo; intanto emette un mugolio che può essere di paura, che si fa sempre più lamentoso e intenso, mentre le sue vibrisse tremano visibilmente. L’idea di svegliarla e liberarla dalla tensione che, sia pure in una dimensione speciale di realtà come quella dei sogni, sta vivendo, si fa strada dentro di me fino a diventare una tentazione irresistibile e che tuttavia subito ricaccio indietro, lasciando sospesa a mezz’aria anche la carezza con la quale avrei voluto rassicurarla. Non posso penetrare nel suo sogno, devo rispettare la sua solitudine come un tesoro prezioso che le permetterà, poi, di condividere anche con noi bipedi effusioni e tenerezze amorose. Seduta e immobile guardo fuori, al di là del piccolo schermo del portatile, gli alberi e poi il palazzo di fronte e i suoi numerosi appartamenti. Una metodica osservazione, in un rosario di ore come questa, tanto più pigre quanto più dovrei invece lavorare con alacrità, mi permette di lasciarmi andare a un gioco di supposizioni più o meno romanzate sull’identità delle persone che da lontano, affacciate a un balcone o a una finestra, mi offrono piccoli sprazzi della loro quotidianità. Una figura di uomo si affaccia dal quarto piano e stende delle magliette ad asciugare; al piano di sopra una donna anziana libera i suoi gerani dalle foglioline avvizzite e sembra quasi dialogare, in una sorta di enorme e impenetrabile bolla di sapone, con ogni piccolo vaso dei suoi fiori colorati. All’improvviso il silenzio viene squarciato da un rumore forte che proviene dalla stanza di mio figlio e prima che torni a coprire, come una coltre discreta e protettiva, tutto quanto mi circonda, il respiro quasi si ferma. Mi alzo e mi dirigo verso la sua stanza con un piccolo brivido di attesa: il vento ha spalancato la porta-finestra e i fogli dei suoi innumerevoli disegni e appunti svolazzano e si posano confusamente qua e là, aggiungendo disordine al disordine; li raccolgo, cercando di non sbirciare più di tanto quello che contengono. Non ho bisogno di spiare la sua vita per sentirlo vicino. E’ qui, nella mia piacevole solitudine di stamani, come tutte le persone che amo.
Il nascondimento parziale di sé è un diritto inalienabile; l’unico che ci permette di accostarci all’altro e di volergli bene; perché la relazione non si identifichi con un aggrapparsi impaurito e troppo dipendente; con la mera vicinanza fisica; con il rispecchiamento reciproco assoluto che non tollera l’altrove di ciascuno o la sua assenza.
Il branco, invece, esattamente come certe tipologie familiari di tipo simbiotico, annulla la possibilità di relazioni non intrusive. Sempre visibili, sempre presenti, omologati nei comportamenti come nei gesti, mentre la psiche si restringe, si atrofizza e muore: l’altro è la propria vittima e il proprio carnefice nello stesso tempo. La reciproca visibilità totale obbligatoria è la gabbia di entrambi e la sicurezza che se ne può ricavare un’infelice prigione...
Soltanto se sappiamo essere soli, forse, si può imparare a stare insieme agli altri.

1 commento:

carlo santulli ha detto...

Ecco, bisognerebbe non aver paura di essere soli. Perché se si fa del male, è solo per paura. Però...essere soli obbliga a pensare, e pensare spaventa. E poi, chi è solo all'occorrenza, senza ostentazione della solitudine ma anche senza rifiuto della stessa, può evitare di comprare, di spendere, anche di usare qualcuno dei tanti oggetti di cui sembra non possiamo fare a meno.
Credo che chi è volontariamente ma quietamente solo sia in fondo considerato un individuo abbastanza pericoloso nel conformismo (anche se dichiaratamente anticonformista) dello stare insieme per forza.