mercoledì 28 maggio 2008

Sentieri di autodistruzione

Uno ha movimenti bruschi e decisi e il corpo tozzo contrasta con il timbro ancora incerto e altalenante tipico della muta vocalica; la sua è una voce quasi di bambino in un corpo di uomo. Ed è ancora un bambino quando spalanca gli occhi davanti ai seni giocattolo della ballerina di lap dance; un bambino quando impugna la sua arma e urlando, tra l’eccitato e l’incredulo, spara nel nulla della spiaggia deserta e nell’acqua del mare. Sono in due a sparare nel vuoto che vuoto non è; perché è pieno di tutto lo schifo del mondo.
L’altro è emaciato e goffo, cammina un po’ curvo, quasi incredulo di dover abitare un corpo alto come quello di un uomo fatto, ma così magro, con gambe da gru o da cicogna triste, il naso prominente e il collo esile e incerto, messo in risalto dalla rasatura crudele e impietosa dei capelli. Verrebbe da rompere l’illusione dello schermo per carezzare il suo dolore di adolescente vecchio mai stato bambino, per passare la mano su quei capelli-non capelli... Ma rimaniamo saggiamente seduti a guardarlo andare incontro al nulla e generarne l’ineluttabilità con i propri gesti, con le piccole scelte sequenziali che sembrano dettate dal caso o decise con leggerezza e sono invece un lavoro fine di cesello nel percorso dell’autodistruzione. Quest’immagine è ciò che resta più vivo nella mente a distanza di alcuni giorni dalla visione di “Gomorra”. Se la denuncia sociale e politica che muove il film ci fa fremere di orrore e rabbia, mentre nel silenzio condiviso guardiamo scorrere le immagini di qualcosa che già sapevamo, con il tempo e ripensando è lo sgomento di fronte all’insensatezza delle azioni distruttive che ci possiede. E alla mente ritorna ancora e ancora, tra tante storie intrecciate di insignificanti e seriali vite umane, l’immagine dei due giovani e della loro tenera amicizia: unico guizzo di speranza, ma breve, perchè li porta, anch’essa, alla perdizione. Insieme non diventano più forti, ma più ciechi e, dunque, vittime predestinare a creare i propri stessi carnefici.
Un altro film di questi giorni, ma non altrettanto fortunato (uno di quelli che girano poco nelle sale e permangono meno) “Jimmy della collina”, di Enrico Pau, ci propone immagini altrettanto aspre di uomini-bambini perduti nel gorgo inesorabile dell’autodistruzione, pervicaci nella propria scelta di non ritorno, irriducibili rispetto a ogni profferta di vicinanza o di aiuto, avvolti in una coltre di gelo che sembra scaldarli come un fuoco in una notte d’inverno. La raffineria che fa da cornice, reale o metaforica, a ogni sequenza del film e il tinello angusto con la vetrina colma di oggetti kitsch di poco prezzo esibiti per giocare ai ricchi non sono poi molto diversi dal carcere; il quale permette almeno l’estraniazione totale, la depersonalizzazione di chi si guarda allo specchio senza riconoscere il proprio volto e ferocemente lo infrange perché sgorghi il sangue e il dolore fisico annulli quello, tanto più terribile, che viene da dentro.
Si esce dalla sala in silenzio; e si resta muti a lungo, nel buio della notte, perché non ci sono parole per commentare l’ultima immagine sospesa e la storia interrotta che ci ricorda quanto tutti, in fondo, siamo sempre almeno un po’ responsabili anche del dolore che altri, e non noi, hanno generato.

Nessun commento: