venerdì 3 luglio 2009

Siamo noi il nuovo mondo?



E’ la sequenza finale del bellissimo “Nuovo mondo”, di Emanuele Crialese, nella quale gli immigrati italiani arrivati in America (siamo all’inizio del XX secolo) sono sottoposti alla quarantena e ai test umilianti dei medici e degli psicologi.
Li si disinfetta e li si rende inoffensivi nel corpo perché il loro arrivo da un altrove ignoto rappresenta una minaccia senza nome, ma si vuole anche verificarne l’intelligenza e lo si fa senza considerare che la gran parte di loro non comprende e non parla che il dialetto siciliano.
Il nuovo mondo sognato, il paese di latte e miele, la terra dell’abbondanza e dell’accoglienza generosa, non appena la nave attracca a Ellis Island, nella baia di New York, mostra l’antico volto della diffidenza e del pregiudizio. In tale luogo, infatti, chi giungeva dall’Italia veniva tenuto in una sorta di quarantena e sottoposto a numerosi accertamenti prima di essere (se l’esito era positivo) accompagnato all’imbarcazione per Manhattan.
Disfatti dopo una traversata che sembrava non finire mai, maleodoranti e malvestiti, ridotti a oggetti privi di anima (di psiche, di mente, di intelligenza: è lo stesso...) gli emigranti italiani facilmente potevano venire espulsi.
La disumanizzazione del nemico e, in generale, dell’altro diverso, è da sempre il meccanismo che permette di vivere la scissione tra la propria sensibilità (per i bambini, per gli animali, per la musica o per l’arte, purché nell’alveo del proprio mondo, come nel topos del colto gerarca nazista...) e la crudeltà dispensata nei confronti di chi, estraneo, viene ridotto a non-umano.

Su Rai news si può reperire una descrizione del 1912 relativa agli italiani immigrati in America, tratta dalla relazione dell’Ispettorato per l’immigrazione.
http://www.rainews24.rai.it/it/news.php?newsid=117881
La trascrivo:
"Non amano l'acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti. Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l'elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro. I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali".
La relazione così prosegue: "Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell'Italia. Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più.
La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione".

Il testo è tratto da una relazione dell'Ispettorato per l'Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti, Ottobre 1912.

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