sabato 5 aprile 2008

Le mani di mio nonno

Leggendo il giornale davanti a un caffé di metà mattina (soffro di pressione bassa, siamo a primavera e mi aspetta una riunione difficile...), lo sguardo si è posato sulla persona seduta poco distante da me; e soffermandomi a considerare le sue mani, segnate dal tempo, ho ripensato altre mani. Mani care e perdute. Mani antiche, nodose, ancora agili sui tasti bianchi e neri; mentre tenevano la pipa e dal balcone il vago fumo azzurrato si diffondeva tutt’attorno; e mentre sfogliavano Orazio e Catullo: una lingua affascinante perché segreta, per me, che ero piccola e lo ascoltavo leggere a voce alta, lasciando che subito dopo mi spiegasse. Della spiegazione non capivo granché o così mi pareva allora; ma la sua lettura era come una sorta di musica o di canto. Mi deliziava la prosodia del suo declamare. “Hai capito?”. “Sì, nonno, ho capito.” E continuavo a guardare affascinata le sue mani antiche. Qualche volta (fingendo un interesse blando, mentre invece ero avida di sapere) gli chiedevo di raccontarmi la sua esperienza della guerra, la prima delle due che hanno insanguinato il secolo forse più cruento della storia. Mostravo di curarmi, intanto, dei gerani del balcone e fingevo di staccare una fogliolina avvizzita qua e una là; ma lui non voleva parlarne e se tornavo alla carica le mani si muovevano e rompevano la quiete del momento disegnando nell’aria invisibili sinuose traiettorie; si agitavano, si stringevano l’una all’altra, si sovrapponevano, tamburellavano sulla ringhiera, afferravano un oggetto mentre mormorava parole tese a non esaudire la richiesta. Dopo poco, però, mi leggeva qualcosa; mi rispondeva indirettamente, attraverso le parole scritte da altri; e quando aveva finito mi carezzava, piano, tra i capelli. Carezzava la mia sensibilità ferita dalla scoperta delle umane crudeltà, mentre io avrei voluto prendermi cura della sua, accogliendo dentro di me i ricordi lontani della paura della morte e del non ritorno.
Le sue mani, attraverso quelle di uno sconosciuto anziano signore seduto al tavolo vicino, sono ora un’immagine vivida, guizzante, luminosa. Mi si inumidiscono gli occhi e mi affretto. L’incontro di lavoro che mi aspetta non sarà facile (è una seconda puntata, diciamo così): un accalorarsi di persone su questioni di principio, ma irrilevanti, alla fine, se non per il loro amor proprio; e so già che probabilmente verrò aggredita e che forse reagirò in maniera simile, anch’io per difendere un principio o il mio amor proprio.
Rientro; mi siedo tra gli altri, saluto, ma alla riunione non prendo la parola: non voglio che si perda l'immagine di quelle mani lontane, improvvisamente tornate vive; e mi sembra di sentire tra i capelli una carezza lieve, quasi impercettibile, mentre li guardo combattersi l’un l’altro da una distanza infinita. In silenzio, placata, nascondo la tenerezza come un tesoro.

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