lunedì 7 aprile 2008

Meta-blog

Qualche giorno fa, rileggendo con piacere (per l’intelligenza che emanano e probabilmente anche per una condivisa sensibilità rispetto a certe tematiche) le diverse schegge, mi sarebbe venuto da commentarle praticamente tutte. Poi non l’ho fatto per paura di occupare troppo spazio. E’ anche capitato, in altri momenti, che non completassi un commento o non lo inviassi per timore di urtare, sia pure involontariamente, la sensibilità altrui.
Per esempio, leggendo il post di Nicola nel quale si parla di Roma, avrei avuto voglia di scrivere un commento su questa città vista da una persona non romana, in relazione alle trasformazioni frenetiche (e più generali) di questi ultimi anni. Mi sono messa a farlo, scrivendo quanto più o meno riporto di seguito. Ho scritto che Roma ho cominciato a frequentarla, giovanissima, per ragioni di impegno politico. Così, a Roma capitavo con una certa regolarità, anche per gli incontri nazionali di donne, ospitata da amici e amiche e muovendomi quasi sempre nel cuore della città; per lo più a piedi o, al massimo, in metropolitana. Roma mi appariva colorata, scanzonata, piena di vita, aperta e accogliente (cosmopolita, appunto), profumata. Certo non ne frequentavo le periferie, i quartieri degradati o marginalizzanti, i tram affollati (un’esperienza, quest’ultima, vissuta poche volte e di seguito accuratamente evitata); ed ero sempre in compagnia di persone affini a me, con lo sguardo rivolto alla stessa utopia. Poi, per ragioni che porterebbero fuori tema, ho cominciato a non riconoscermi più del tutto in nessuno dei gruppi che avevo frequentato e a venire a Roma sempre più raramente; in albergo (e dati i costi e la mia condizione dell’epoca, non granché e non in centro) o avanti-indietro, per lo più per una mostra, qualche volta per una manifestazione.
Ora, invece, da in po’ di anni, la frequento di nuovo: per motivi personali (ma non spesso) e in questo caso ospite e in compagnia di “autoctoni”; o per motivi di lavoro (e in questo caso in albergo, in centro, e in compagnia mista di romani e non); dunque ho diversi possibili spaccati. In queste occasioni mi capita di sentirmi estranea, non accolta, non compresa, persino. Un barista mi si è rivoltato contro, una volta, con aggressività, per l’espressione che avevo usato chiedendo dell’acqua minerale non gassata: aveva capito (o finto di capire) che la volevo di rubinetto per non pagare. Ha ribattuto con aggressività (e in romanesco) anche al mio tentativo di spiegare il fraintendimento linguistico ironizzando; ed ero in compagnia di un romano! Mi sono chiesta se stavo vivendo un’altra Roma o se la città, nel frattempo, fosse cambiata, trasfigurata quasi, diventata avida e nello stesso tempo chiusa nei confronti dei non-romani. Roma mi sembra ora, certe volte, molto diversa da quella che avevo conosciuto, seppure non da stanziale, in anni precedenti, ma non so mai quanto questa impressione si debba al rimpianto, del tutto soggettivo, dell’immagine che aveva assunto per me. Però, c’è una sorta di malinconia rassegnata nei volti delle persone; camminano un po’ tutti in un certo modo ipotonico, sollevano poco i piedi da terra...

Qui mi sono fermata. Non era più un commento: troppo lungo. E d’altra parte, all’idea di farne un post, avevo paura di urtare la sensibilità di chi in questa città ci vive (la metà dei quattro che per ora scrivono in questo blog) o di chi c’è nato e vissuto per diverso tempo: dunque, a questo punto, di tutti gli altri.
E qui, in questo essermi fermata e nel non aver pubblicato il commento al post di Nicola, stanno le considerazioni meta-blog:
Quanto può essere lungo un commento?
Come si fa a parlare di qualcosa che si conosce solo attraverso vari filtri o in maniera intermitente con chi, invece, la conosce da sempre e dal di dentro, senza urtare malamente qualche sua corda sensibile? E se accade, come si può riparare?
E poi ancora: come si fa, con la scrittura, a rimpiazzare tutte quelle facilitazioni comunicative (o evitamenti del fraintendere) che sono legate alla mimica facciale e allo sguardo, ai gesti e alla loro leggerezza o pesantezza, alla prosodia?

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