venerdì 11 dicembre 2009

Campagna e città: fantasie di ibridazione

Sono sola nell’auto che corre verso le colline e avvolta dalla musica che mi piace mi lascio incantare dai colori forti dell’autunno al suo volgere verso l’inverno. E’ particolarmente bello l’autunno toscano, si sa, infuocato com’è di colori caldi e di contrasti poiché è malinconico, pensoso e vitale nello stesso tempo. Mi sembra di conoscere ogni albero, siepe, segnale, scritta, muretto della strada che da Pisa si dirige nel volterrano, verso il mio microscopico paese di origine. La distanza per me, da un certo punto in poi, non è più misurabile in chilometri o in minuti, ma è scandita da tappe visive durevoli negli anni. Il riconoscimento genera una sorta di tenerezza per i luoghi della mia infanzia e dell’adolescenza vissute (proprio grazie ai suoni, agli odori e ai colori della campagna) in una dimensione che si potrebbe definire di narrazione continua. I rumori e i suoni, per esempio, sia di giorno che nel silenzio della notte, avevano un significato preciso tutti quanti: alludevano a esperienze ripetute, a persone definite e alle loro abitudini. Si era attenti a tutti i segnali sensoriali e capaci di interpretarli con precisione. Si era capaci di cogliere il cambiamento delle stagioni, il volgere del giorno e del tempo della vita. Si captava il momento che lasciava presagire la fine o l’inizio di un avvenimento, come animali che si tendono, le narici frementi e gli occhi vigili, verso qualcosa di invisibile e di intenso: la pioggia o la neve imminenti, per esempio, o anche le gemme che vibrano tutte insieme di una nuova possibile vita. In città, anche in una piccola città come la mia, tutto questo in gran parte si perde: i rumori si accavallano ai suoni e risultano troppi, imprevedibili, privi di ritmo perché li si possa interpretare. Prestare loro troppa attenzione ci disorienterebbe e così, al pari degli odori e dei colori, non li avvertiamo più come segnali di comunicazione con la natura e con gli altri.

A 16 anni, tuttavia, sognavo di fuggire in città: dove avrei trovato librerie e cinema, teatri e sale da musica, luoghi dove parlare di cose diverse in base alla maggiore varietà di ciò che poteva accadere e persone nuove da conoscere. Nel mio piccolo paese non succedeva mai niente; c’era un cinema (non so se ancora sia attivo) con un solo spettacolo settimanale; basta; neanche una libreria. Le persone, per riempire il tempo, si facevano i fatti degli altri con esasperante crudeltà, resa evidente dai soprannomi ai quali quasi nessuno sfuggiva e che erano legati, per lo più, a difetti fisici anche invalidanti o a significative fragilità del carattere.

Oggi la globalizzazione non ha cambiato nulla da questo punto di vista e per questo la tenerezza del ritorno non di rado svanisce quando lascio la casa dei miei e mi incammino verso la piazza e la via principale, facendomi preda degli sguardi invadenti, quasi voyeuristici, degli abitanti. E’ sempre stato così, insopportabilmente così; la mancanza di stimolazioni culturali favorisce, infatti, l’interesse irrispettoso, controllante e giudicante nei confronti dell’altro. Da ragazzina mi rifugiavo in alto, lontano, nel silenzio dei poggi, a piedi o con la bicicletta prima, con il motorino poi; come mi capita di fare ancora oggi con l’auto, spingendomi fin dove arriva e poi proseguendo a piedi. Da ragazzina sceglievo la solitudine e guardavo da una distanza infinita le case attaccate l’una all’altra e la grande torre quadrata che le sovrasta. Quasi animizzando le pietre brune o rossicce che fondevano in un’unica forma muri e abitazioni le sentivo, a seconda dell’umore, legate in un abbraccio di tenerezza solidale o incatenate nella più insopportabile condizione di prigionia.

Ancora oggi mi mancano, in città, gli odori della campagna; e in campagna mi mancano gli stimoli e la maggiore libertà della città. Divisa tra l’una e l’altra dimensione, sogno da tempo immemorabile una campagna con luoghi di aggregazione culturale e una città che non mortifichi il nostro legame con la natura. E’, davvero, soltanto un’utopia del tutto irrealizzabile?




2 commenti:

enrico meloni ha detto...

Mi piace molto questo post, anche il video tratto dal film di Ermanno Olmi è bello, un brano di poesia che ti porta a conoscerti meglio e a riscoprire tracce di comunanza con l’umanità che ti ha preceduto. Purtroppo non intravvedo una risposta positiva alla domanda finale, almeno in questo tempo di edificazione selvaggia e di palese disprezzo per la cultura. Se non si è riusciti in Toscana, dove la mentalità nel complesso avanzata (rispetto a molte altre zone d’Italia) e dove anche la dolce natura al riparo dagli estremi climatici sembra talvolta essere un’opera d’arte… Ma questo non significa che si debba rinunciare all’utopia.

luca mori ha detto...

Sono d'accordo con Enrico sulla poesia del post e del video. Purtroppo, anche con la considerazione che l'utopia rimarrà difficile da realizzare.
Alcune città tedesche però mi hanno colpito per il modo in cui si integrano nel contesto naturale (Friburgo, Heidelberg) e per le infrastrutture che favoriscono l'osmosi e il passaggio (in bicicletta, ad esempio).
Mi chiedo però: cosa può significare non rinunciare all'utopia? Credo che una risposta sia: continuare a frequentare la campagna e la montagna, facendola conoscere. Personalmente, quando penso a progetti rivolti alle scuole, sogno sempre la possibilità di superare vincoli e problemi burocratici e di offrire ai bambini non solo nuovi percorsi, ma anche nuovi contesti... Per la creatività, l'immaginazione, la poesia, credo ad esempio che il bosco sia un luogo pieno di ispirazioni.