martedì 15 dicembre 2009

L'uomo che non è nessuno


Un altro volto è impresso nella mia mente da ieri ed è il suo: quello dell'uomo immobile, ormai di pietra e con gli occhi sbarrati, dopo un gesto dal quale il suo corpo stesso sembra dissociarsi. Ripete agli agenti: "Io non sono stato, io non ho fatto niente. Io non sono nessuno". A quanto sembra si è trovato a passare di lì quasi per caso, per un appuntamento mancato. Ha in mano il modellino di uno dei tanti monumenti-emblema di questo paese, in tasca una bomboletta di spray al peperoncino e un crocifisso: due strumenti di difesa, uno concreto e l'altro simbolico, contro le ombre in agguato fuori e dentro la sua anima, poiché da molti anni è in cura per una forma grave di sofferenza psichiatrica. L'uomo che non è nessuno può essere l'uomo che ciascuno usa, impietosamente, per i propri scopi. Diventare in men che non si dica un eroe o un santo o, a piacere e con la stessa solerzia, un essere ignobile, frutto delle trame più losche ed eversive ad opera di social network, magistrati, popolo viola e persino, come mi è capitato di leggere poco fa, conseguenza dell'esecrabile - per alcuni - Legge Basaglia.
Provo pena e rabbia insieme. Quel volto non abbandona la mia mente, mentre leggo, giro qua e là su facebook, carezzo distrattamente la gatta, mi alzo nervosa per prendere un oggetto e poi un altro. L'uomo che dice di non essere nessuno sembra non suscitare alcun sentimento o affetto, nemmeno di pietà e questa insensibilità condivisa mi fa paura.

7 commenti:

enrico meloni ha detto...

L’uomo che non è nessuno, si è reso conto del suo gesto e ha chiesto ripetutamente scusa a Berlusconi. Non mi sembra una vittima della società: suo padre è titolare di un’ azienda presso cui collabora come grafico. Ha raggiungo anche una certa notorietà, seppure di breve durata, attraverso dei “quadri ballerini”, come li ha chiamati lui. Questo non significa che non meriti compassione, come tutti gli esseri che soffrono. Il problema che mi sono posto in passato è che però, di questo passo, anche i gli stupratori del Circeo meritano compassione, perché se hanno commesso un crimine così efferato, si presume che il loro vissuto sia stato stravolto dalla sofferenza.
Sono arrivato a questa conclusione: è giusto (forse doveroso) mettersi nei panni anche dei peggiori criminali, provare a comprenderli e di conseghuenza provare compassione, nel senso di condivisione del dolore, ma poiché la società deve andare avanti nel modo più tranquillo, sicuro, sereno possibile, le persone pericolose per gli altri (e anche per se stesse) vanno messe in condizione di non nuocere. Naturalmente non con una condanna punitiva o peggio vendicativa, ma offrendo a chi ha sbagliato la possibilità di riflettere sul suo percorso, e – laddove è possibile – di trovare un ruolo costruttivo o almeno non dannoso nella società.

maria antonella galanti ha detto...

Il mio non voleva essere un pensiero giustificazionista-psicologista. Certo che dovremmo farci carico, anche per il bene di tutti, delle persone percolose per sé e per gli altri. Tante volte nella mia vita mi sono posta anch'io il problema del confine tra colpa e disgrazia; per esempio di fronte a ragazzi preda di dipendenza da sostanze in relazione al fatto che una volta imboccata quella strada è impossibile non diventare a propria volta spacciatori. Sono perfettamente d'accordo anche sul fatto che comprendere non significa giustificare e niente ha a che vedere con questioni come il perdono. In questo caso, però, forse non si è di fronte a una persona consapevole o, come si dice in termini forensi, "capace di intendere e di volere". La sarà forse ora, certo lo sarà stato ieri nel chiedere scusa, ma non nel momento dell'atto. Il post, tra l'altro, l'ho scritto dopo avere letto che si era reso conto del senso del proprio gesto. Ero infastidità dal fatto che nessuno si ponesse il problema relativo a lui, sia pure in termini, come bene fai tu, di giustizia o di sicurezza. Ero infastidita dal fatto che lo si usasse per i propri nobili (o meno) fini: da parte di chi solidarizzava con la vittima del suo gesto come da parte di chi, da una sponda diversa, giocava scioccamente con la sua infermità mentale proponendo, sia pure in forma ironica, di farlo santo o di emularlo. La mia era una provocazione su un piano di lettura astratto o metaforico, insomma non concreto ("che fare rispetto a lui") della vicenda.

maria antonella galanti ha detto...

Il mio commento al commento è troppo lungo e me ne scuso...ma l'argomento è particolarmente complesso e mi coinvolge moltissimo da sempre. Mi piacerebbe ragionare insieme anche su "sicurezza" e "controllo", o sull'imprevedibilità della pazzia. O ancora sull'espressione "vittima della società" che non significa niente, in realtà, per me, perché penso che della società tutti quanti siamo vittime e artefici nello stesso tempo; anche se in proporzioni diverse, con libertà e destini diversi...Il rischio di fraintendimento su questi argomenti è altissimo e so di correrlo molto spesso perché non sono granché diplomatica nel proporre le mie riflessioni anche se grezze emotivamente, cioè rese impure dalle emozioni e dai sentimenti caldi, del momento. Spesso invece censuriamo (perché così siamo stati abituati a fare), con il ragionamento riflessivo e ponderato (che non rinnego affatto), segnali che potrebbero anche essere importanti per considerare tutte le sfaccettature e criticità di un proprio pensiero.

enrico meloni ha detto...

Sono d'accordo con te. Si tratta della questione sollevata più volte da Fabrizione De André: non c'è un gran merito nella virtù e neppure molta colpa nell'errore. Il problema è dato dal clima di imbarbarimento che non sembra attenuarsi e che porta alcune persone per opportunismo e/o stupidità ad affermazioni prive di logica.
P.S.: per "vittime della società" intendevo persone che partono svantaggiate economicamicamente, povere, senza lavoro, senza la possibilità di farsi una cultura...

carlo santulli ha detto...

Nella letteratura tecnica, un concetto molto praticato è quello della norma o della procedura "a prova di incosciente" (fool-proof).
E' un concetto utile che vuole minimizzare le conseguenze dell'errore umano, ne abbiamo vantaggi enormi oggi, nel senso che, anche se il pilota sbaglia, difficilmente l'aereo ha problemi, oppure se il tecnico non esegue l'operazione esattamente come va fatta, spesso non accade nulla di grave.
Ecco, è qui il problema: che in realtà, come questo caso dimostra, le regole "fool-proof", che devono essere seguite ed hanno una ragione d'essere, non funzionano se l'attacco è imprevedibile o del tutto insensato. (Ricordate l'11 settembre).
Nel senso che si richiede sempre una, sia pur confusa, volontà di qualche operatore che consenta il recupero dell'emergenza. Ove questa manca, non c'è regola che tenga.
Questo fatichiamo ad accettarlo, ma fa parte della natura umana, conseguenza del nostro essere mortali: la sicurezza non è mai assoluta.
Purtroppo, però, questo non accettare la relatività di ogni misura di sicurezza, fa sì che si accrescano tali misure: è successo dopo l'11 settembre, succede, forse anche con molto minor ragione, oggi.
Per cui quest'episodio (su cui mi permetto di avere un'infinità di dubbi, ma non li espongo qui) diviene il pretesto di qualcos'altro.
La persona in questione ha sbagliato ed è giusto che il suo comportamento sia sanzionato secondo la legge, ma la solitudine della persona e del suo gesto dovrebbe far chiudere il discorso qui senza nessi (io non ne vedo) con la sicurezza globale del paese. Invece non è così: è qui che il discorso inizia.

enrico meloni ha detto...
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enrico meloni ha detto...

Trovo interessante il concetto di "fool-proof" applicato a questa vicenda, perché consente di guardare ai fatti in un modo che, tenendo presenti le reazioni illogiche di molti, si può considerare paradossalmente “straniato”. E’ un criterio che ci permette di valutare i fatti “scientificamente” e cioè in modo oggettivo, senza lasciarsi fuorviare da percezioni distorte o strumentalizzazioni. Ora, anche con il buonsenso forse saremmo arrivati alle medesime conclusioni, ma anche questa condizione è uno specchio che ci rappresenta la realtà dei nostri giorni.