sabato 23 gennaio 2010

“Il nastro bianco” di Michael Haneke, e il silenzio degli universi perdenti.


Sono convinta che sia possibile e importante parlare di politica anche indirettamente, ed è quello che vorrei fare in questo caso. Il sole caldo di stamani, senza nuvole in agguato e compromessi con il grigio, rende più difficile commentare il bellissimo film che ho visto ieri sera. A quel film, infatti, si confà la notte piena di ombre e sussurri o di paure trattenute nelle pieghe più segrete dell’anima. Molti spettatori ne sono usciti con la faccia delusa e rancorosa; al termine ho anche scambiato qualche commento con amici incontrati per caso, ma non eravamo sulla stessa lunghezza d’onda. Forse bisognerebbe raccomandare, nelle brevi recensioni critiche di un film, di sceglierlo in base ai propri sentimenti del momento. A questo film, per esempio, si confanno il silenzio di parole e la tristezza e io, ieri sera, ero da sola ed ero triste; questa coincidenza, forse, mi ha reso quasi naturale rompere la barriera invisibile che sempre si erge tra lo spettatore e lo spettacolo, per entrare dentro la storia, nel 1913, alla vigilia della prima guerra mondiale, in un piccolo paese del nord della Germania; e per vestirmi anch’io di quegli abiti scuri, punitivi e larghi avvolti su corpi bambini o sulla magrezza esasperata e goffa di quelli adolescenti. E poi camminare, anch’io, con i loro piccoli passi incerti e timorosi, prendere da un ripostiglio buio la ferula con la quale sarò brutalmente frustata per un marachella da niente, per una parola di troppo, per uno sguardo impudente; subire con loro, sequenza dopo sequenza, la crudeltà di un amore genitoriale malato e sgranare gli occhi pieni di domande sul perché dell’esistenza senza riceverne alcuna risposta, da nessuno. Bianco e nero, come nel migliori film di Ingmar Bergman, e paesaggi innevati e solitari, bellissimi e gelidi, cornice impietosa delle miserie umane, dei segreti indicibili fatti di violenza riposta tra le pareti discrete della casa, dietro le porte chiuse, tra le trine candide e leggere cucite attorno alle cune e al loro prezioso tesoro di piccoli bambini prigionieri delle proprie fasce e i mobili pesanti, imponenti e scuri, indizio ingannevole di sicurezza e di solidità degli affetti. I merletti delle donne compaiono spesso e la telecamera si sofferma su di loro e li evidenzia, o su mani ancora bambine che li tessono con la testa china sul petto, e altre ne lascia immaginare, di fanciulle e di donne che scrivono la propria rabbia su pagine di stoffa o di pizzo, con il filo e l’ago, con l’uncinetto o il chiacchierino o il tombolo, lasciando uscire dalle dita la propria silenziosa e vana protesta, la voce di un universo femminile perdente al quale neanche il lamento è più concesso, ma solo la muta rassegnazione. Il film, infatti, ci accompagna per mano all’interno degli universi perdenti di chi non ha parola: i bambini, i disabili (c’è un personaggio dismorfico e balbettante in un proprio gergo incomprensibile che quasi sempre viene chiamato dal narratore fuori campo “il bambino ritardato”), le donne prima che diventino troppo adulte e quindi si facciano complici dei propri aguzzini nella sopraffazione di altri più deboli; in questo caso i figli. Lo sguardo impietoso del regista si sofferma sulla genesi delle future figure di nazisti mentre ancora essi stessi sono vittime di un’educazione improntata alla gerarchia e all’obbedienza assoluta che lega anche i genitori, carnefici e vittime insieme; consenzienti; complici della figura del Barone, signore del luogo al punto da sostituirsi al prete per rivolgere un sermone-minaccia agli attoniti fedeli raccolti per la funzione domenicale. Il Barone, il Pastore, il Medico, l’Intendente determinano le regole di convivenza di una comunità chiusa e gerarchica che finisce per diventare, e noi spettatori lo pensiamo senza avere il coraggio di dircelo, la spietata rappresentazione di qualcosa di più universale della gestazione dell’esperienza nazista e che, in qualche modo, ancora ci riguarda.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

Ciao Antonella,
ho letto la tua riflessione su questo film che non ho ancora visto.
Complimenti per il tuo modo di esprimere nello scrivere.Mi ha colpito l'immagine che hai messo nella tua presentazione, è un quadro di Vermeer che ha dipinto anche un famoso quadro:" La dentelliere" e tu in questo scritto hai parlato di merletti e stato d'animo di persone frustrate e incomprese. Mi sembra che tutto questo non abbia un collegamento a caso ma che tu abbia una sensibilità verso alcune arti nobili.
Grazie per le tue belle parole,

Fiorenza
www.fioretombolo.net

enrico meloni ha detto...

Effettivamente l’umore incide sulla fruizione di un’opera. Quindi anche la valutazione di un critico in qualche misura viene influenzata dal suo stato d’animo. Credo maggiormente per quanto riguarda il cinema, lo spettacolo rispetto alla letteratura, semplicemente perché la lettura di un romanzo richiede più tempo.
Non si può nascondere che anche la fiducia che abbiamo nell’essere umano oscilla a seconda dell’umore. Non ho ancora visto “Il nastro bianco”, ma penso anche io che le situazioni che affiorano dal presente post riguardino l’intera umanità. Non credo che esista un’isola felice, e temo che non sia mai esistita. Il “mito” del buon selvaggio è stato appunto soltanto un mito. Mi viene in mente a questo proposito un altro film: “La terra degli uomini rossi”. E’ vero che a causare la tragedia che vivono gli ultimi indios del Mato Grosso sono i fazendeiros che uccidono e deforestano e causano suicidi; ma (forse involontariamente), il film mostra anche che le tradizioni, le leggi non scritte che regolano la vita dei clan degli indios, non sono affatto idilliache: tramite il senso di colpa, un padre causa il suicidio del figlio adolescente che è andato a lavorare qualche giorno per i bianchi, mentre una donna della ricostituita tribù viene giustiziata perché sorpresa nella roulotte di un uomo bianco. Non c’è dunque speranza?... Probabilmente si potrebbe fare di meglio. Proprio per la loro “intima” natura, non penso che cambiamenti così profondi possano avvenire solo attraverso provvedimenti di legge o proclami da grandi o piccoli pulpiti. Sono processi molto lenti che richiedono generazioni, e che si affermano non tanto con le parole quanto con la prassi, con l’esempio concreto di ognuno di noi.